La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 25 novembre 2011

Il Nuraghe Arrobiu

Il gatto Gabriele la fa da padrone miagolando prepotentemente tra le pietre del laboratorio enologico di epoca romana. Con passo felino (è il caso di dirlo) si intrufola tra i ruderi come un proprietario che contolli i suoi poderi. Sono due ingegnosi impianti in pietra che si trovavano sul sito del nuraghe. Quando si decise di restaurare la struttura megalitica i laboratori furono smontati e rimontati là dove si trovano tutt'ora.
Siamo arrivati qui quasi per caso, divagando tra i bei paesaggi di questo tratto di Sardegna. Dopo Orroli una deviazione sembra perdersi per qualche chilometro nella campagna. Poi, sulla sinistra, appaiono le rovine del nuraghe, in verità non molto spettacolari viste da lontano (sembra che sia il rosso dei licheni all'origine del nome).
Nel pomeriggio di fine ottobre l'aria comincia già a scurirsi. Il nuraghe Arrobiu, il gigante rosso, svela la sua grandezza quando ci si avvicina e i resti attuali non possono che dare un'idea della sua imponenza.
Il nuraghe risale al XIV secolo avanti Cristo. L'alabastrom, sorta di vaso di origine micenea (oggi al museo di Nuoro) che veniva frantumato nel rituale propiziatorio all'inizio dell'edificazione lo confermerebbe. 
Secondo la ricostruzione virtuale, la torre centrale doveva raggiungere i trenta metri, un'altezza sorprendente per quell'epoca. Un mastio centrale con cinque torri ancora ben visibili (pare che all'origine in totale fossero almeno ventuno).
Un vero castello, con cortili, vani più o meno spaziosi, torri e torrette, corridoi e finestre e poi una sorprendente scala a chiocciola.
Massimo, studioso e accompagnatore ci trasporta con la sua passione indietro di tremila anni, facendo rivivere le antiche pietre.
Quando lasciamo il sito è quasi sera. Torniamo, un po' a malincuore, nel ventunesimo secolo.

sabato 19 novembre 2011

Francisco Coloane

Spazi immensi e desolati, ghiaccio e sangue, tempeste e montagne, isole spazzate dal vento, uomini che lottano per sopravvivere. I paesaggi di Francisco Coloane, uno dei più grandi scrittori sudamericani del Novecento, non nascono dalla fantasia prolifica di un romanziere ma sono il racconto della sua storia. Narrazione geniale, capace di dare vita ad immagini grandiose, di dipingere affreschi nei quali inabissarsi e perdersi.
Nato nel 1910 a Quemchi, nell'isola di Chiloé nel sud del Cile, Coloane ha attraversato tutto il XX secolo (è morto nel 2002), raccontando nei suoi scritti lo scontro tra la modernità, i valori di un'economia che e solo legge del profitto e che per esso non rinuncia a nulla, e un mondo arcaico destinato ad essere sconfitto. Mondo arcaico che ricorda spesso il far west, in cui, nella lotta per la sopravvivenza, la violenza non è assente, ma nel quale anche l'incontro e la solidarietà emergono e si affermano ancora.
Figlio del capitano della prima baleniera cilena, Coloane comincia a viaggiare a quindici anni quando, rimasto orfano, trova lavoro come mozzo e poi come operaio nelle immense aziende agricole della pampa.
I suoi testi attingono profondamente alle sue esperienze personali, ai numerosissimi viaggi nel sud del continente, in Patagonia, verso la Terra del Fuoco e l'Antartide, ma anche nelle Galapagos e in Cina.
Ė ben presto famoso in Sudamerica, mentre in Italia, dopo una prima, confidenziale, pubblicazione (Terra d'oblio, Edizioni del Lavoro 1987) sarà un suo compatriota, Luis Sepulveda a farlo conoscere nella collana da lui diretta per l'editore Guanda (Terra del Fuoco, 1996). Ammirato da Chatwin, il suo nome è da inserire sicuramente nella lista degli Herman Melville, Joseph Conrad, Jack London.
Coloane scrive testi brevi ma è romanziere, perchè le raccolte di racconti che egli pubblica finiscono per costruire un mosaico i cui tasselli, coerentemente legati, ne costituiscono un'opera unica e sorprendente.
Descrive gli ultimi indigeni della Terra del Fuoco, sterminati o scacciati sempre più lontano dal progresso, e verso i quali lo scrittore sente solidarietà più che compassione; la solidarietà di chi vive sulla stessa terra e respira lo stesso vento. Contabbandieri, cacciatori senza scrupoli, marinai imbarcati su relitti arrugginiti, i personaggi di Coloane sono sempre degli sconfitti, respinti ed emarginati da un mondo moderno che va troppo in fretta. Coloane però cerca in loro, e ne ritrova, l'umanità perduta, il senso di un'esistenza che ad un primo sguardo sembrerebbe incomprensibile.
La natura ha un ruolo ambivalente: è dura e spietata nelle condizioni estreme del sud del mondo, un'asprezza in cui l'uomo sembra quasi scomparire, minuscolo dettaglio in territori infiniti. Ma questi paesaggi di solitudine, spazi immensi e selvaggi, montagne e ghiacciai, isole popolate solo di uccelli sono di una bellezza anch'essa estrema, affascinante e ammaliante.
Terra e mare si affrontano qui dalla notte dei tempi. Le alte muraglie della Cordigliera delle Ande si sono sbriciolate sul filo dei secoli; le onde scatenate hanno scavato canali e fiordi, e non sono rimasti in piedi che infracassabili rocce, come quella del faro Evangelistas, un nero isolotto insolente le cui coste lisce l'innalzano a picco al di sopra delle acque.*
Francisco Coloane: Capo Horn Guanda edizioni

sabato 12 novembre 2011

Sardegna: Il Castello di Acquafredda

Siamo nel territorio di Siliqua.
Nella piana del rio Cixerri, a metà strada tra Cagliari e Iglesias, la pianura è interrotta da un ripido colle turrito.
Il Castello di Acquafredda, Domo Andesitico di Acquafredda, sul suo cono vulcanico domina la pianura sottostante.
Cartolina d'epoca riprodotta sul sito web del Parco Archeologico del castello, gestito dalla coperativa Antarias di Siliqua che organizza escursioni nella zona.
La tradizione lega la roccaforte al nome del conte Ugolino della Ghirlandesca (di dantesca memoria) che divenne signore del luogo nel 1257 ma, secondo le bolle papali, il castello esisteva già prima, al tempo del Giudicato di Cagliari.
Oggi saliamo fino alla torre di guardia a 248 metri. La via lastricata si trasforma ben presto in sentiero. 
Il recente acquazzone esalta gli odori delle erbe e degli ultimi fiori.
Si arriva rapidamente alla prima cinta muraria, posta a difesa del borgo. 
Il panorama spazia sulla piana sottostante, un po' velato nella giornata d'autunno. Bella varietà di piante, con fichi d'india che sembrano spuntare direttamente dalla roccia, olivastri e lentischi.
Il cammino è reso più agevole da scale e pedane di legno ma non bisogna distrarsi troppo, la pioggia ne ha reso scivolosi alcuni passaggi.
 Un gruppetto di inglesi è sulla via del ritorno, sono le sole persone incontrate. A poco a poco con loro si allontanano i rumori della valle; resta lo scampanellio di un gregge di pecore e il canto dei numerosi uccelli che svolazzano qua e là.
Una torre era adibita a cisterna, facciamo una sosta sulla terrazza. Poi la salita riprende, fino all'ultima scaletta metallica che porta sulla torre di guardia. 
Di fronte sono i ruderi del mastio, come corona alla montagna. Il monte Arcosu, più lontano fa da sfondo al paesaggio pianeggiante. 


sabato 5 novembre 2011

Carlo Levi: Tutto il miele è finito

Las Plassas, castello di Marmilla
Carlo Levi visita per la prima volta la Sardegna qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel maggio del 1952. Cagliari mostra ancora i segni dei bombardamenti, tra le rovine del teatro romano vivono famiglie di sfollati. Dieci anni dopo, nel dicembre del 1962, tornerà sull'isola, quasi riprendendo un discorso interrotto. Tutto il miele è finito è il diario di questi (questo) viaggio.
Il Duomo di Cagliari
Levi è sulle tracce di un altro scrittore D.H. Lawrence che aveva, prima di lui, raccontato un suo breve soggiorno sardo. Ne cerca i segni nelle locande descritte dall'inglese nel suo resoconto Mare e Sardegna. Ne apprezza la scrittura poetica e visionaria anche se non condivide il tono severo e altezzoso verso la gente del posto.
Cagliari
Ritrova a Cagliari i segni della presenza, coloniale, piemontese. Là dove comincia la strada per Porto Torres (ancora oggi conosciuta con il nome di chi la fece costruire) è la statua di Carlo Felice. C'è chi crede sia l'effige d'un santo e, passando, si segna.
Cagliari
Carlo Levi si inoltra in una regione in cui i segni del mondo moderno (le miniere e la mussoliniana Carbonia, città di fondazione, ghetto minerale denza radici e senza passato) affiancano il mondo arcaico dei pastori. Come lo sottolinea Giulio Ferroni nella prefazione al libro, nel racconto dello scrittore lo spazio naturale è sempre in relazione con il la percezione del tempo, tempo storico che diventa tempo cosmico. Levi osserva i segni di un passato mitico per ritrovarli in un presente nel quale l'arcaico sembra come depositato: Qui nell'isola dei sardi, ogni andare è un ritornare. Nella presenza dell'arcaico ogni conoscenza è riconoscenza.
Il suo viaggio lo porta fino ad Orgosolo, paese dei briganti, nel quale i carabinieri si muovono come in luogo nemico quasi come in una colonia ribelle, in preda alla tragedia della disamistade.
Murales a San Sperate
Lo affascinano i gesti ancestrali trasmessi dalla tradizione come la cottura del capretto, con la palla di grasso incandescente per terminarne la rosolatura (aveva letto la descrizione della cerimonia nel libro di Lawrence), il funerale del muratore a Orgosolo o ancora i nuraghe con il loro alone di mistero ancora oggi irrisolto:
Dentro il nuraghe c'è ombra e silenzio, e, naturalmente, senza l'intervento dell'immaginazione o lo sforzo della ragione o della fantasia, il senso fisico di essere in un altrove, in una regione ignota, prima dell'infanzia, piena di animali e di selvatica grandezza. Ben protetti da queste mura gigantesche, se ne sentono tuttavia gli indeterminati terrori, e il senso dell'arcaica crudeltà di questi uomini arcaici, asserragliati nelle torri, in una natura crudele.*
La chiesa di Sant'Efisio a Nora
Levi osserva la Sardegna, ascoltando le voci di un popolo  e quelle di una terra che ha saputo conservare e tramandare ancora poesia e cultura malgrado la durezza di una vita povera e difficile.
Carlo Levi Tutto il miele è finito ILISSO editore Nuoro 2003
Cagliari, contrasti.