La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 30 agosto 2013

Ome se nasce, brigande se more

È in occasione del centocinquantesimo anniversario dell'unificazione italiana che si è tornati a parlare, anche fuori dai circoli di ricercatori, del fenomeno del brigantaggio nell'Italia meridionale. Una lettura più critica dell'epopea garibaldina e delle sue conseguenze e implicazioni ha riportato alla luce fatti occultati o deformati dalla storiografia ufficiale. L'immagine un po' manichea che vedeva i “liberatori” piemontesi battersi contro le forze reazionarie ostili al progresso sociale non appare più ormai così limpidamente definita.
Quella del brigante è certamente tra le figure che hanno avuto un ruolo importante nel periodo storico immediatamente successivo alla spedizione dei Mille. Sono personaggi che hanno suscitato sentimenti contraddittori: fascino, per la loro immagine di uomini liberi e dalla vita avventurosa; paura, per la violenza e la spregiudicatezza delle loro azioni.
Le ragioni dello svilupparsi del fenomeno furono molteplici: rigetto del nuovo potere e fedeltà ai Borboni, rifiuto del servizio di leva prima inesistente, delusione per le promesse non mantenute dal nuovo potere, senza dimenticare il più banale banditismo dedito a furti e razzie.
A Castel del Monte, sotto l'impulso dell'ex sindaco Mario Basile, appassionato riscopritore della storia locale alla quale ha già dedicato alcuni interessanti libri, uno spettacolo itinerante, ormai alla seconda edizione, nelle vie dell'antico borgo medievale ha ritracciato alcuni aspetti dell'epopea del brigantaggio.
Nelle piazzette del paese, luoghi ideali per la messa in scena dello spettacolo, un gruppo attori amatori ha recitato (e cantato) riportando alla luce fatti di storia locale, inframezzati da considerazioni e letture atte e chiarire e a dare una spiegazione agli avvenimenti.
Uno spettacolo riuscito, di teatro popolare nel miglior senso del termine, che anche grazie all'impegno dei partecipanti (dallo studente al muratore), ha saputo coinvolgere i numerosi spettatori che, per gruppi, si spostavano da una scena all'altra in una suggestiva passeggiata notturna. 





















domenica 18 agosto 2013

Emeric Fisset: L'ebbrezza del camminare

L'ivresse de la marche, tradotto in italiano con lo stesso titolo: L'ebbrezza del camminare e pubblicato dalle edizioni Ediciclo, è un libretto di una novantina di pagine. Esile ma ricco di idee. Un piccolo manuale di filosofia del viandante che si legge rapidamente ma che si medita lungamente; un'acuta riflessione sul senso del camminare e sulle sue implicazioni.
L'autore non è solo un teorico - tra l'altro responsabile di una casa editrice francese Transboréal che ha come tema essenziale il viaggio a piedi - ma, prima di tutto, un appassionato viaggiatore. Ha percorso strade e sentieri ai quattro angoli del mondo, dall'Asia all'Africa all'America: a piedi, in bicicletta, con gli sci. Nel 1984 è
Partito da Parigi e, dopo aver attraversato diciassette paesi, è arrivato, due anni e 12500 chilometri dopo, a Roma.
Dal 1999 viaggiava per il mondo in compagnia di Julie Boch con la quale aveva camminato in Sudamerica o nella penisola della Kamchatka, nell'estremo oriente russo. Il loro sodalizio ha avuto un tragico epilogo nell'estate del 2011. Mentre i due si dirigevano verso le sorgenti dell'Ob, su una strada in costruzione, lontano da tutto, Julie Boch è morta, vittima di un impensabile incidente stradale. Per perpetuare il suo impegno per la condivisione delle conoscenze e promuovere i lavori di ricercatori che testimoniano alte qualità intellettuali – acutezza dell'osservazione, curiosità universale, distanza critica – e morali – etica dell'azione, generosità, disinteresse – di cui lei ha dato prova, Emeric Fisset ha fondato la Società degli amici di Julie Boch.
In questo breve saggio, che a Julie Boch è dedicato, Emeric Fisset, alla maniera del filosofo americano Henry David Thoreau, fa l'apologia del viaggio a piedi.
Viaggio quindi, non escursione, trekking, passeggiata con andata e ritorno programmati da parcheggio a parcheggio. Viaggio senza tappe prestabilite, senza tempi prestabiliti, senza record da battere e senza data di ritorno.
Secondo Fisset viaggiare in questo modo implica l'abbandonarsi allo spazio e al tempo. Dopo aver stabilito una direzione o una meta, lasciarsi trasportare dagli eventi e dalla casualità degli incontri e della strada.
Viaggiare a piedi permette di riallacciare il contatto con gli altri esseri: umani, animali e vegetali. I nomi dei luoghi attraversati si iscrivono perennemente nella memoria meglio che in un atlante geografico. Percorrere a piedi un territorio dà alla sua scoperta una sensazione di ebbrezza appunto, impossibile da dimenticare.
Camminare soli piuttosto che in compagnia facilita - rende quasi obbligatorio - l'incontro, il contatto con l'altro a cui chiedere un'informazione, un posto per dormire o solo un bicchiere d'acqua.
E anche se lo scambio si limita a luoghi comuni - per un francese ci saranno le inevitabili domande sul calciatore famoso o sulla torre Effeil - piuttosto che su questioni culturali o artistiche, esso sarà nondimeno proficuo e ricco. Sarà il contatto umano, al di là delle incomprensioni e della barriera linguistica che, miracolosamente, riuscirà a creare legami profondi. Così Emeric Fisset descrive l'incontro con due anziani contadini nel nord della Finlandia. Nessuna possibilità di scambio linguistico con due persone che probabilmente non si erano mai allontanate dalla loro isba. Eppure una relazione forte e intensa si stabilisce, sorprendente e straordinaria: [...] per tutta la sera, nel nostro desiderio di scambio, parlammo ciascuno nella propria lingua materna e ci capimmo. Grazie alla disponibilità mentale in cui li aveva portati il loro isolamento invernale, grazie alla sensibilità acutissima che il lungo cammino aveva sviluppato in me, percepivamo come per magia, le vibrazioni della lingua dell'altro senza conoscerne minimamente né il vocabolario né la grammatica.
Partire così all'avventura significa rinunciare alla sicurezza di un pasto e di un letto. È questo il primo sforzo del sedentario che vuole diventare nomade. Superato lo scoglio, abbandonata la preoccupazione che l'allontanamento dalle persone care procura, si entra nel nuovo spazio di vita. E poi paradossalmente - dice Fisset - più l'umanità ci è lontana più apprezzeremo il suo contatto e ce ne sentiremo partecipi. Ma soprattutto il viandante deve spogliarsi di tutti di orpelli che fanno del viaggio un evento. Rinunciare all'idea di impresa sportiva e alla luce dei proiettori che ne è spesso associata, alle ragioni pseudoscientifiche o falsamente umanitarie (camminare per aiutare, per raccogliere fondi, per far conoscere...)
Il viaggio verso una destinazione diventa così, senza volerlo, pellegrinaggio, non solo perché la fatica, le privazioni (fame, sete, solitudine) ne fanno quasi un percorso ascetico ma anche grazie al contatto e all'esposizione permanente agli elementi atmosferici e naturali; perché la meta, a poco a poco idealizzata, assume, anche al di fuori di ogni riferimento religioso, il carattere del sacro.

lunedì 12 agosto 2013

Dante Aloisi;

Una modesta locandina, affissa qua e là nelle vie del paese, invitava alla presentazione di un libro di poesie sulla terrazza di uno dei bar del posto: avvenimento raro che ci ha attirati incuriositi e anche un po' ammirativi per un'iniziativa non banale.
Il poeta, dal nome – è stato fatto notare – forse predestinato, è Dante Aloisi, un giovane studente in fisica ma anche appassionato di filosofia e poi (soprattuto?) di poesia.
Ad accompagnare Dante Aloisi erano due relatori che hanno sottolineato l'uno, Giancarlo Giustizieri, l'interesse stilistico della raccolta, l'altro, Claudio Amicantonio, le implicazioni filosofiche della visione del mondo del poeta.
Gli interventi degli specialisti sono stati inframezzati dalla suggestiva lettura di alcune delle liriche fatta da due attori in un tono più che convincente, accompagnati da un gruppo corale che, assieme ai tuoni cupi di un temporale (che però si è limitato alla minaccia), ha dato all'avvenimento un fascino tutto particolare.
Dante Aloisi ha solo venticinque anni, giovane è stato detto, ma se il “mestiere di poeta” richiede studio e ricerca, non è detto che occorra attendere un'età canonica per esprimere cose nuove e farlo con pertinenza; dopotutto Rimbaud -senza voler fare confronti intempestivi- non aveva che 17 anni quando scrisse gli ultimi suoi versi.
Nei testi di Dante Aloisi traspare un universo che molto ha in comune con il pessimismo leopardiano. Il mondo che ci circonda funziona e si struttura su falsi valori: materialismo, consumismo, necessità di prevalicare gli altri per affermarsi; un continuo e inutile affannarsi dell'Uomo verso una sorte che è già scritta e che è uguale per tutti: Si ascoltano voli/che non hanno meta,/si lanciano voci/che neanche il vento porta./In fondo ognuno/ha freddo,/ma nessuno se ne cura;/non più di quel male/che il dolore si dà dentro. 
Il bisogno di pensare, di analizzare il reale per cercare di capirlo, anche se in definitiva può apparire velleitario, è però necessario, perché come diceva l'Ulisse, personaggio dell'”altro” Dante: fatti non fummo per viver come bruti.
Nel nichilismo che sembra prevalere, la poesia appare come un rifugio, un momento se non appagante, almeno lenitivo nella condanna senza appello che è la vita: Regola non v'è/in questo strano gioco/impossibile è vincere/perdere è certezza.
Rispetto alla visione leopardiana, la Natura non ha però sempre quel ruolo di matrigna che il poeta recanatese le ha tante volte attribuito. Essa è fortemente presente nelle liriche di Aloisi. A volte dura e impietosa: il cafone più in là/dà tremende zappate,/ed il sole lo cuoce/e di lui non si cura ma altrove confortante e serena: La soffusa dolcezza/di una notte silente,/tra febbrili luccichii/su un manto di pece,/si ode la pace/di Terra dormente.
Dante Aloisi è legato a Castel del Monte, alle sue montagne e alla sua gente. I paesaggi e i volti che animano le sue poesie non sono astratti frutti dell'immaginario ma sono quelli concreti di queste valli e di questi colli. E spesso lo spunto autobiografico emerge con sensibilità e affetto come nei versi di Saluto a Giovanni: In memoria di un grand'uomo/che alle lacrime/preferisce sorriso e sudore.
Montagne brulle e rocciose, estati assolate ed inverni fatti di nebbie e bufere. Un mondo difficile e austero nel quale La Natura mostra/all'uomo irrispettoso/ch'ivi giacque nella bella stagione,/l'odore lento e silenzioso/della morte sovrana.
Numerosi i richiami a Leopardi, come nell'esplicito Infinito: L'ingenua varietà mutevole/di una madre verde,/nei viaggi e nei tempi,/si dipinge, si macchia,/si dona meraviglie;/tra immobili picchi/declivi ardui scoscesi,/sprofonda di pensieri,/nei rivi disseta,/e plana sui pini/distende tra faggi,/riposa sull'erbe speranze. Un omaggio a Leopardi quindi ma anche un richiamo a un certo universo panico dannunziano, quello per esempio della Pioggia nel pineto.
È nel divagare tra le pietre di queste montagne, nei silenzi invernali fatti di rari incontri che Dante Aloisi trova la sua ispirazione. Non lupo solitario però; cosciente del mondo circostante, impegnato nella comunità (è consigliere comunale ma non solo) il giovane poeta ha scelto una strada difficile e che può apparire velleitaria ma che in fondo svela una fiducia nella natura umana e una volontà di resistenza al presente che va lodata: Qualcuno scrive/per lasciare un ricordo./Qualcuno scrive per ottenere gloria dal suo pensare./Qualcuno scrive/per trovare conforto/negli occhi di chi leggerà./ Io scrivo/per insegnare alle persone/la bellezza dell'uomo,/la migliore creatura di un creato mai creato,/e la sua tragica caducità,/in un eterno inafferrabile.