La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 20 settembre 2013

Radici

Francesco Guccini incide nel 1972 nell'album Radici una delle canzoni (quella che dà il titolo al disco) più riuscite della sua lunga carriera. Sulla copertina la foto color seppia di una famiglia tradizionale, del primo Novecento forse. Uomini con baffi e panciotto, donne con lunghe gonne e tutti con l'aria un po' impettita, di chi si è messo in ghingheri per la fotografia ma che è pronto a tornale al lavoro nei campi. Sul retro una foto più moderna sulla quale il cantante si mette in scena con la sua compagna e un gatto. Evidente la volontà di dialogo tra le due immagini, con ciò che è cambiato e ciò che resta. Perché il tema del 33 giri, - come si usava qualche tempo fa le canzoni sono legate da un filo conduttore - è quello delle radici appunto.
È un tema che da quegli ormai lontani anni Settanta non è passato di moda, tutt'altro, ma che non è mai facile da affrontare. La citazione da La luna e i falò, di Cesare Pavese che, non ha caso, è stata scelta per introdurre questo spazio di appunti, è emblematica. L'opposizione, o piuttosto direi il legame, è tra la necessità di avere un luogo in cui riconoscere la propria storia personale e il bisogno di muoversi è di seguire il fischio del treno che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a meraviglie, alle stazioni e alle città.*
Oggi tutti cercano le proprie radici necessarie, si dice, per ritrovare valori che un mondo globalizzato ha fatto scomparire. Radici nella tradizione popolare, nell'alimentazione, nella musica. Un'idea che è stata fatta propria dalla cultura cosiddetta alternativa. Così l'artigianato è osservato con interesse, contrapposto all'industria; si riscoprono verdure e legumi che erano stati dimenticati; si riscopre la lentezza come valore positivo opposto alla frenesia del progresso.
Ma lo sguardo indietro, verso le radici, può anche diventare reazionario, riflesso identitario e xenofobo soprattutto quando è ripiegamento sul territorio e sull'etnia. “La terra non mente” era uno degli slogan del regime fascista di Vichy. Il contadino è fonte di saggezza perché più di tutti ancorato allo spazio naturale in cui vive e che lo fa vivere.
Da qui il rigetto e il sospetto per chi non ha legami: lo zingaro o il vagabondo, i senza patria per i quali camminare per il mondo è un fine e non uno spazio tra due luoghi di vita.
Ma l'uomo non è una pianta, non ha radici, ha due piedi e due gambe per camminare e per andare altrove. E poi nemmeno le piante stanno ferme, non si legano ad un terreno: il vento, gli uccelli portano i semi, viaggiano, trovano nuovi spazi**.
* Cesare Pavese: La luna e i falò.
**Jean-Christophe Bailly :Le dépaysement

martedì 10 settembre 2013

Civitella del Tronto

Il 17 marzo 1861 a Torino, il parlamento del regno sabaudo adottava la decisione del re Vittorio Emanuele II di assumere per sé e per i propri discendenti il titolo di Re d'Italia. Era la conseguenza dell'epopea garibaldina e della spedizione piemontese che avevano portato alla, ancora parziale, unificazione della penisola. Che il re conservasse l'epiteto di secondo non è un caso. Il nuovo regno ereditava dal precedente leggi e regolamenti e, soprattutto, lo Statuto Albertino, non certo un esempio di costituzione democratica (il suffragio censitario permetteva a solo il 2% della popolazione – maschile – di votare per un parlamento che tra l'altro non aveva praticamente alcun potere).

Mentre a Torino, dopo la caduta di Gaeta, si festeggiava il nuovo regno, la fortezza borbonica di Civitella del Tronto ancora resisteva. Solo tre giorni dopo, il 20 marzo, la guarnigione si arrese e l'esercito piemontese poté occupare il forte.
Sulla strada che congiunge Teramo ad Ascoli Piceno appare Civitella del Tronto allungata sulle pendici del suo colle; più in alto, sulla cresta, parallela al paese è la fortezza borbonica. Appare, quasi a mezz'aria, tra la costa adriatica e i “Monti Gemelli”, così detti per la loro evidente somiglianza: la Montagna di Campli e, più a nord la Montagna dei Fiori.

Nonostante l'estate ormai inoltrata, i prati sono ancora verdi e brillano sotto il sole.
Si entra nel paese passando sotto l'arco della porta medievale. L'antico decumano (oggi corso Mazzini) attraversa il paese in una lunga passeggiata. 
Le belle case di travertino attenuano con la loro ombra il caldo della mattinata e gli anziani abitanti ne approfittano per una pausa e una chiacchierata.

 Qua e là uno spazio si apre sul panorama sottostante da dove sale il rumore lontano di un trattore al lavoro.
Saliamo verso la fortezza alla quale ormai si può accedere con una comoda ma certo non bella scala mobile. 
Piazze e rampe si alternano per centinaia di metri. Le antiche caserme sono state in parte restaurate e occupano esposizioni artistiche. 
Da ogni lato il panorama è bellissimo. Verso sud sono il Gran Sasso e la Maiella.