La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 22 gennaio 2017

Bretagna 3, L'île de Bréhat

L'île de Bréhat, l'isola di granito rosa. La strada, dopo aver lasciato Ploublazanec, prosegue per un paio di chilometri verso nord fino a fermarsi sulla riva dell'oceano.
C'è un parcheggio, già occupato da numerose automobili, e poi un lunghissimo pontone alla fine del quale è attraccato un piccolo traghetto.
Di fronte, si vede il profilo dell'isola di Bréhat, poco distante dalla costa. Malgrado il sole, il vento è abbastanza freddo e sulla passerella le raffiche sono piuttosto forti. Qualche viaggiatore spinge il suo carrello verso il battello, altri stanno ancora sbarcando.
Quindici minuti di attraversata. Il traghettatore ci avverte che siamo a bassa marea e che quindi l'attracco sull'isola si farà fuori dal porto “chiuso”.
Sull'isola non ci sono automobili; chi viene con molti bagagli può prendere un trenino trainato da un piccolo trattore oppure usare un carrello simile a quelli che si vedevano una volta nelle stazioni ferroviarie.
All'arrivo, la stradina di cemento che parte dal pontone di attracco è lunghissima e in salita; spingere uno di quegli aggeggi carico di valigie non è cosa di tutto riposo soprattutto con il vento gelido che soffia in senso contrario. Il mare è color grigio piombo.
L'isola non è molto grande, si allunga da sud verso nord per circa tre chilometri. È divisa in due parti unite da un solo punto di passaggio, un ponticello di pochi metri che, a marea bassa, scavalca una landa umida e a marea alta è lambito dalle acque.
Circa quattrocento persone abitano sull'isola ma in estate i turisti sono qualche migliaio.
Belle case in pietra con giardini e fiori anche in questo strano fine dicembre che sembra primavera.
Vagabondiamo lungo le stradine asfaltate fino ad arrivare all'unico borgo. Sulla piazza molta gente anche ai tavoli esterni dei bar.
Continuiamo la nostra passeggiata. Bellissimi scorci con colori caldi. Il sole illumina e fa brillare il rosa del granito che contrasta magnificamente con il blu del mare, l'azzurro del cielo e il verde dei prati.
C'è una luce intensa e splendente. Paesaggi daa cartolina con pini marittimi che fanno da decoro.
Le stradine sinuose serpeggiano qua e là e allungano piacevolmente il percorso.
Arriviamo alla punta settentrionale dove c'è un faro.
Un contadino ha esposto su un banchetto i suoi prodotti in vendita (marmellate, erbe, verdure) e un cartello invita gli eventuali acquirenti a servirsi e a lasciare i soldi in una scatola.

La giornata scorre velocemente e, quando la nostra lunga passeggiata finisce, è ora di riprendere il traghetto che questa volta, con l'alta marea, può attraccare più vicino al “porto chiuso”.
Decidiamo di sederci sui posti all'aperto ma è un'idea non fortunata: quando il battello sti stacca dal molo un vento gelido ci intirizzisce per tutto il – fortunatamente breve – tragitto.

domenica 15 gennaio 2017

Bretagna 2

Arrivò in una cappella che si scorgeva da lontano su una collina. Era una cappella tutta grigia, molto piccola e molto vecchia, nell'aridità dei dintorni, un gruppo di alberi, anch'essi grigi e già senza foglie, sembravano come capelli, capelli gettati tutti dallo stesso lato, come da una mano che fosse passata.

E la mano era la stessa che fa affondare le barche dei pescatori, mano eterna dei venti dell'ovest che piega, nel senso delle onde e dei marosi, i rami ritorti delle rive. Erano cresciuti storti e intecciati, vecchi alberi, curvando la schiena sotto lo sforzo secolare di quella mano.

Gaud si trovava quasi alla fine della suo tragitto, poiché era la cappella di Pors-Even; allora si fermò per guadagnare tempo.

Un muretto cadente disegnava un recinto racchiudente delle croci. E tutto era dello stesso colore, la cappella, gli alberi, le tombe; il luogo tutto intero sembrava uniformemente brunito, corroso dai venti del mare; un uguale lichene grigiastro, con le sue macchie di un giallo pallido di zolfo, copriva le pietre, i rami nodosi e i santi di granito che stavano nelle nicchie del muro.


È stato lo scrittore Pierre Loti, al secolo Louis Marie Julien Viaud, che nel suo più celebre romanzo Pescatore d'Islanda ha narrato e esaltato l'epopea dei pescatori che partirono da queste coste per affrontare le burrasche dell'oceano.
Il romanzo racconta le vicende d'amore tormentate di una giovane bretone e di un pescatore “esiliato” per qualche tempo a Parigi ma poi tornato in Bretagna, incapace di sfuggire al proprio destino.
Nel libro la descrizione della vita dei pescatori – fatta da chi aveva navigato come marinaio per più di quarant'anni - assume un valore quasi etnologico. Ma il vero personaggio centrale del libro è il paesaggio di Bretagna, paesaggio animato e vivente che sembra dialogare e interpellare gli uomini. I venti e le nuvole, le onde e le tempeste sono protagonisti fatali e ineluttabili nella vita degli abitanti; elementi rispettati e temuti.

Ritroviamo le cappelle e le croci dei luoghi descritti da Loti.
Manca la voce del vento, anzi l'aria è tiepida in questo squarcio quasi primaverile. Il granito delle pietre mostra però i segni del tempo e delle folate che lo hanno corroso. Sulle lapidi i nomi sono spesso quelli di giovani marinai, mai tornati dalle loro prime campagne di pesca. Sotto il piccolo porticato della cappella di Perroz Hamon, la “cappella dei naufraghi”, ancora ex-voto e lapidi in memoria di pescatori scomparsi in mare. Ogni battello partito da Perroz-Haumon aveva a bordo una statua della Vergine venerata. Le numerose statue della Vergine, ricordano il fervore a volte superstizioso con il quale ci si rivolgeva ad essa per implorare un mare clemente e un ritorno senza danni al porto.

Seguiamo le stradine e i sentieri percorsi dai personaggi di Pierre Loti: Pors-Even, l'Arcouest, la Chapelle de la Trinité, Launay, Kerroc'h, Porz Don. In lontananza, sullo sfondo di questo grandioso paesaggio è l'isola di Bréhat.

Qua e là, spesso all'incrocio di due strade, un calvario in pietra. Sono numerosi in tutta la regione, spesso semplici croci, a volte molto più complessi. Si mescolano ai monumenti megalitici precristiani di cui hanno probabilmente ripreso la funzione. A Kerroc'h, il calvario Cornic, fatto erigere all'inizio del XVIII secolo da una ricca famiglia del luogo al ritorno da un pellegrinaggio in terra Santa. Sulla base triangolare sono tre momenti della passione di Cristo mentre su un lato della croce non manca l'implorazione alla Vergine: Mater Salvatoris, Mater Creatoris.

sabato 7 gennaio 2017

In Bretagna 1


Tréméloir, Trégomeur, Tréguidel, Tressignaux, Tréméven, Plouagat, Pludual, Pléhédel, Plouézac, Paimpol, Ploublazanec, una toponomastica ripetitiva come uno scioglilingua ci avverte che siamo in Bretagna. I nomi sono di difficile pronuncia anche per i francesi e, quasi per complicare ancora le cose, sono associati, sui cartelli stradali, all'etimo bretone, se non più complicato, spesso abbastanza differente da quello nazionale.
La Bretagna è una regione che vuole conservare la sua specificità nella più grande nazione francese. Nel panorama politico locale una corrente autonomista ha ancora un certo peso. Le bandiere bianconere simbolo dell'identità regionale sventolano qua e là (anche se un po' macchiate dalla collaborazione che gli indipendentisti strinsero durante l'occupazione tedesca con il regime nazista). Oggi la battaglia dell'identità bretone si svolge soprattutto attorno alla conservazione della lingua. È infatti questo il segno culturale - e in definitiva politico – più importante per la definizione della specificità regionale. Il bretone è una lingua celtica, molto differente quindi dal francese e molto difficile anche paragonata ad altri idiomi regionali come il corso, il catalano o la lingua d'Oc, tutti di origine neolatina. Le scuole bilingue francese-bretone, anche se largamente sovvenzionate, non riescono a frenare il progressivo declino della pratica linguistica. Contrariamente a quanto avviene ad esempio per il corso, o per il catalano nella regione di Perpignan, qui in Bretagna è quasi impossibile incontrare qualcuno intento a parlare bretone nei momenti della vita quotidiana. Quello della conservazione del patrimonio linguistico è un tema molto importante ma, malgrado le apparenze, anche molto complesso. La lingua è anche uno strumento di dominazione politica e ideologica e la progressiva ma rapida uniformizzazione linguistica a cui stiamo assistendo ne è la prova più flagrante. Dicono i ricercatori che ogni mese due lingue si estinguono e ciò è certo sinonimo di impoverimento culturale perché con esse si perde il bagaglio culturale dei locutori; in altre occasioni però la battaglia linguistica può assumere apetti meno condivisibili, di rigetto dell'estraneo e di ripiego su concetti xenofobi.

Per chi arriva dal nord la Bretagna comincia dopo aver superato il Mont Saint Michel. L'isolotto roccioso su cui si eleva una delle abbazie più famose al mondo spicca nella sua baia come un gigantesco cono culminante nella guglia della grande chiesa.

Risaliamo la costa settentrionale della penisola armoricana, nel dipartimento che un tempo si chiamava appunto “Côtes du Nord”. Si chiamava, perché gli abitanti della regione, considerando l'appellativo non troppo attrattivo per il turista (il nord è freddo, piovoso, buio) decisero di chambiarlo preferendogli quello, tutt'ora vigente di “Côtes d'Armor”.
La carta della regione sembra un immenso frattale; la lunghissima penisola che si distende fino a Brest puntando perentoria verso l'Atlantico è, vista da vicino, un infinito susseguirsi di baie, golfi, altre penisole, isole e isolotti e scogli. Le maree ne modificano largamente i contorni e il profilo della costa cambia profondamente nel corso della giornata.

La nostra meta è Ploublazanec ( Plaeraneg in bretone), un paio di chilometri a nord della cittadina di Paimpol. La casa che abiteremo è vuota da qualche mese e quindi piuttosto glaciale. Ci vorrà qualche ora prima che un sembiante di calore sia sufficiente ad intiepidire l'aria. È una casa tipica della regione, i muri sono in pietra, con blocchi di differente dimensione e le persiane in legno sono verniciate in grigio bluastro. Come molte altre abitazioni anche la nostra è ormai una residenza secondaria. In questo mese di dicembre le strade sono quasi deserte, la regione ha fama di essere molto piovosa e ventosa soprattutto in questa stagione e ciò non attira molto i turisti.

Come per sfatare l'ironico detto del luogo In Bretagna fa bel tempo più volte al giorno, il mattino successivo non solo non piove ma il sole fa qualche apparizione, timida all'inizio, poi più calda. Scendiamo verso la costa che dalla casa si vede in lontananza.
La stradina asfaltata si trasforma rapidamente in sentiero e poi in una scalinata che arriva sulla spiaggia di ciotoli. Qua e là delle case isolate circondate da prati e poi da alberi e cespugli. Sorprendentemente delle palme, più adatte al clima mediterraneo, svettano di tanto in tanto accanto a pini e abeti.

Mentre siamo in riva al mare arriva una giovane donna sorridente che ci saluta, si mette in costume da bagno e entre nell'acqua dicembrina mentre noi abbottoniamo il cappotto.

Una “Croce delle vedove” che ormai, corrosa dalla salsedine, sembra piuttosto un obelisco, si eleva su uno dei promontori che dominano la baia. È uno dei tanti simboli sacri che costellano la regione, ricordo dei marinai scomparsi in mare e segno di una pratica religiosa che nel passato è stata molto popolare.
La Bretagna è una regione di vento e di pietra che ha sempre avuto un legame fortissimo con l'oceano che la circonda. Nel cimitero di Ploublazanec un lungo muro ricorda con una successione di lapidi i numerosi marinai mai più tornati dalle campagne di pesca al merluzzo.

Per quasi un secolo, dal 1852 al 1935, da Paimpol e dai paesi vicini, decine di pescherecci partirono verso i mari di Islanda. Al suo apogeo, alla fine del XIX secolo, la flotta di Paimpol contava 80 golette. I pescherecci partivano per più di un mese verso le acque glaciali dell'Artico. Il lavoro dei marinai era durissimo e il rischio molto elevato: negli ottant'anni di quell'epopea 120 battelli fecero naufragio e più di 2000 marinai morirono in mare.