La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 18 gennaio 2020

Francesco Biamonti, Il mestiere di scrittore.


La parola è tutto. La parola non è chiacchiera. Deve muovere le radici dell’essere, coinvolgere anche i grandi silenzi e farli sentire. Io misuro le parole Non so fare il barocco come Bufalino. La parola è un atto di silenzio. Fa sentire il lato segreto delle cose. Viene dalla poesia simbolista e ha anche una funzione musicale. Piuttosto sacrificare delle parole che rompere il ritmo musicale dell’opera. L’esperienza della parola dopo Montale, Valéry, Eliot: parola incarnazione dell’essere non è divagazione.
Montale: “Avrei voluto sentire scabro ed essenziale.” Anche il romanziere deve tener conto di questi procedimenti poetici.
Eliminare la retorica.
L’immagine è tutto. “Dare da vedere” una cosa al lettore è essenziale. Non fare descrittivismo. Gli occhi sono più forti del ragionamento. L’immagine carica di senso crea un patos.
Per scrivere occorre poi un ritmo, una melodia. La struttura dei libri è come una struttura musicale, come una sinfonia con le sue parti. Il vero scrittore ha un tono musicale che è riconoscibile. Quando si scrive si ha in mente una prosa che però non si raggiunge mai: si tende ad essa. La scrittura insegna una frase assoluta che non può essere raggiunta (la paralizzerebbe per sempre). Una frase che inglobi il mondo e la sua musica profonda. Lo scrittore aspira ad imprigionare il canto delle sirene ma non può farlo, se no sarebbe la morte e il gelo eterno.
Francesco Biamonti

martedì 7 gennaio 2020

Mandel'stam Osip e Nadezda


Quando ormai mi sfuggiva il senso della vita, scoprii uno scopo concreto: non permettere che fossero cancellate le tracce di un uomo del mio tu, salvare i suoi versi.
Nadezda Mandel’stam










Ho scoperto, molti anni fa, Osip Mandel’stam seguendo un corso su Dante in un’università francese. Il professore ci parlava del poeta italiano e della sua lingua. Citava Proust che, nel suo saggio Contro Sainte-Beuve scrive: I bei libri sono scritti in una sorta di lingua straniera. Sotto ogni parola ognuno di noi mette il suo senso, o almeno la sua immagine che è spesso un controsenso. Ma nei bei libri, tutti i controsensi che facciamo sono belli.
E citava anche Osip Mandel’stam che, rinchiuso nelle prigioni staliniane, imparava Dante a memoria e lo recitava per respingere la follia.

Osip Mandel’stam, uno dei più grandi poeti del XX secolo.
Scomparso nell’estremo oriente russo. Scomparso nel vero senso della parola perché sulle circostanze della sua morte non si hanno che ipotesi. Malgrado le ricerche fatte da sua moglie Nadezda, nulla si sa di preciso né sul luogo - probabilmente il suo corpo fu gettato in una fossa comune del campo di transito di Vtoraja rečka, sulla strada per il gulag di Kolyma, non lontano da Vladivostok -, né sulla data esatta del suo decesso, alla fine del 1938.
Non era il primo poeta vittima del regime sovietico: Aleksandr Blok era morto in circostanze non chiare nel 1921, Nikolaj Gumilëv fu fucilato sempre nel 1921 per “attività controrivoluzionaria”, Esenin morì impiccato (suicida?) in una stanza d’albergo di Leningrado nel 1925, Majakovskij mise fine alla sua vita nel 1930.
Mandel’stam non può essere considerato un poeta della Russia sovietica. Era un poeta importante già prima della Rivoluzione e sicuramente lo sarebbe stato anche in un altro contesto storico. Sta di fatto che la risonanza della sua opera è, per le vicende personali e storiche, definitivamente legata a quell’universo.
La sua vita, a partire dal momento del primo arresto, nel 1934 e fino al 1938, quando Nadezda Maldel’stam ricevette il pacco che aveva spedito al marito, con l’annotazione “destinatario deceduto”, fu un percorso di sopravvivenza, tra periodi di esilio, in regioni isolate della Russia, lontano dalle città in cui il suo soggiorno era vietato, e altri di prigionia.
Ogni automobile che, di notte, si fermava davanti alla porta di casa faceva temere un arresto, così come il rumore dell’ascensore che saliva verso il piano dell’appartamento in cui abitava temporaneamente. Così nota Nadezda: Non ci si riprende più, dalla paura. Chi ha respirato questa atmosfera è perduto, anche se ha salvato la vita.
I guai per Osip Mandel’stam erano cominciati subito dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 (a quella di febbraio aveva aderito con un certo entusiasmo), quando aveva espresso il proprio dissenso verso il nuovo regime e aveva manifestato il suo rimpianto per i giorni del governo Kerenskij, ma si erano aggravati molto nel 1933, quando aveva reso pubblica (leggendola ad un gruppo di amici) una poesia su Stalin. Non era mai stata pubblicata, ma alcuni manoscritti avevano cominciato a circolare; probabilmente il Padre dei Popoli non l’aveva letta (nessuno avrebbe osato mostrargliela - sfidando la sua collera - anche solo per denunciarne l’oltraggio) perché altrimenti la sanzione per il poeta sarebbe stata immediatamente più risolutiva.

Viviamo senza più sentire sotto di noi il paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse,
ma dovunque ci sia spazio per un chiacchiericcio
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita come vermi sono grasse
e sono pesanti le sue parole come i pesi d’un ginnasta.
Ride sotto i baffi enormi di scarafaggio
e i suoi gambali scoccano neri lampi.
Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile:
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Chi fischia, chi miagola, chi geme;
lui, lui solo, picchia e rifila spintoni.
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
colpendo all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione è una lieta cuccagna
Per il suo ampio torace di osseta.

Nel 1925 era stata creata la RAPP (l’associazione degli scrittori proletari) che accettava ancora i “Compagni di strada” ma che fu sostituita poi dall’Unione degli scrittori, che a partire dal 1932 ebbe un potere senza limiti sulle questioni legate alla cultura, Fu probabilmente essa all’origine della terribile sentenza che non si era fatta attendere e con una formula agghiacciante: “isolare ma conservare in vita”.
Lo Stato poliziesco non poteva lasciare spazio a chi, non solo rifiutava di aderire al regime, ma addirittura si permetteva di dileggiare e schernire colui che a poco a poco aveva eliminato prima ogni opposizione, poi chiunque non accettasse, senza discutere, i precetti dettati dall’alto, infine coloro che si erano semplicemente trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Bastava che qualcuno avesse stabilito che si era dalla parte di coloro che non sono dei nostri.
Un aiuto, un semplice atto di tolleranza verso “l’avversario” poteva costare caro. Essere mandati in un campo equivaleva alla pena di morte (il coniuge del condannato aveva diritto di contrarre un nuovo matrimonio) e se Mandel’stam riesce ad evitare, almeno in un primo momento, pene più severe è anche grazie alla protezione di Bucharin, protezione che durerà fino alla disgrazia di quest’ultimo.
La letteratura, e la poesia, avevano in Russia un ruolo importante nella società. Stalin aveva voluto mettere al passo non solo chi pensava fosse possibile esprimere opinioni divergenti ma anche chi, fedele al regime, credeva che potesse esserci uno spazio al di là del realismo sovietico. L’arte doveva essere al servizio della nuova società e il suo scopo era di diffondere nel popolo le idee e i precetti decisi dal partito, nella forma decisa dal partito. Osip Mandel’stam osservava questo processo con un’ironia caustica e così rispondeva a Nadezda che criticava la deriva: Che hai da lamentarti? Solo da noi hanno rispetto per la poesia, visto che uccidono in suo nome. In nessun altro paese uccidono per motivi poetici.
Il poeta vivrà da allora in poi grazie a traduzioni e altri lavori saltuari e, in seguito, quando anche questi gli saranno negati, mendicando un aiuto dai pochi amici rimasti, coscienti di rischiare la vita con questo semplice gesto.
Egli nutriva una profonda ammirazione per Dante. Aveva comprato un’edizione della Divina Commedia in piccolo formato, per poterla portare con sé in caso di arresto. In prigione aveva imparato a memoria lunghi passaggi dell’opera e recitarli era per lui un momento di astrazione dalla durezza della sua situazione personale. Scrisse una Conversazione su Dante che sarà pubblicata solo dopo la sua morte nel 1967.
Nadezda sarà per quasi vent’anni più di una compagna; i due si proteggeranno a vicenda, Osip con atteggiamento quasi paterno verso la moglie che in contraccambio era per lui un punto di riferimento essenziale, un faro, un sostegno indefettibile. Occupandosi dei problemi materiali ma anche copiando le poesie e le prose di Mandel’stam, nascondendole in luogo sicuro, imparandole a memoria quando il manoscritto non poteva essere salvato, battendosi, dopo la morte del poeta, per la sua riabilitazione (che avverrà solo nel 1987) e per la pubblicazione dei suoi scritti.
Questa devozione al compagno con cui aveva condiviso vita e peripezie appare nelle memorie, scritte negli anni 1960 e pubblicate per la prima volta negli Stati Uniti, dove il manoscritto era arrivato clandestinamente, con il titolo di Hope against Hope (Speranza contro speranza). Il libro ebbe la sua prima edizione italiana, per conto di Mondadori, nel 1971 e poi, dopo un lungo periodo di oblio è stato riproposto nel 2006 dall’editore Liberal, con il titolo L’epoca e i lupi.
Nadezda (Nadezda in russo vuol dire Speranza) racconta le vicissitudini della coppia (anche se in realtà la narratrice si tiene sempre in secondo piano) a partire dal 1934, quando Osip Mandel’stam fu arrestato per la prima volta.
Da noi vennero la notte tra il 13 e il 14 maggio 1934. La giornata si trascinò con una lentezza sfibrante. In casa, anche volendo, non c’era niente da mangiare, Mandel’stam decise di andare dai vicini a cercare qualcosa per la cena di Anna Andrievna. Tornò quasi subito con il bottino: un unico uovo. Improvvisamente, verso l’una di notte, risuonò alla porta un colpo, netto, di un’eloquenza intollerabile. Vengono a prendere Ossia, dissi io, e andammo ad aprire. La casa fu improvvisamente piena di gente. Dalla camera grande uscì Mandel’stam: ”Siete venuti a prendermi?” Un agente di media statura, quasi sorridendo lo guardò. “Documenti prego!” Mandel’stam estrasse dalla tasca il passaporto. Dopo averlo esaminato, l’agente esibì il suo mandato. Osip lo lesse e annuì.
Il libro non è una semplice testimonianza; oltre a narrare l’odissea e le persecuzioni subite dal poeta, Nadezda Mandel’stam traccia un quadro della società russa del suo tempo, schizza ritratti vivi dei personaggi dell’ambiente letterario, analizza con perspicacia l’evoluzione del mondo che la circonda. È uno scritto che ha un grande valore non solo come documento storico ma anche come opera letteraria. Una verifica e una confutazione minuziosa delle dottrine del tempo, di un mondo che aveva messo al bando le religioni ma che aveva adottato altri postulati scientifici come nuove credenze irrefutabili.
I poeti sono come i defunti della Commedia dantesca, distinguono bene gli oggetti lontani, come fanno gli uccelli rapaci a discapito di una visione esatta del presente, il buio del secolo-bestia.                                                                                                        Osip Mandel’stam

venerdì 3 gennaio 2020

Ugo di San Vittore

L’uomo che trova dolce la sua patria è ancora un tenero novizio; colui a chi ogni terra sembra natale è già forte ma è quello per chi il mondo intero è una contrada straniera che è perfetto. 
L’animo tenero è legato a un luogo del mondo, l’uomo forte ha esteso il suo legame ad ogni luogo, l’uomo perfetto non sente più alcun legame di questo genere.
Ugo di San Vittore 1096 - 1141