Chiamatemi Ismaele. Alcuni
anni fa, - non importa esattamente quanti, - avendo poco o punto
denaro nella mia borsa e nulla di particolare che mi trattenesse a
terra, pensai di andarmene navigando un poco in giro a vedere la
parte del mondo coperta dalle acque. È questo un modo che uso per
scacciare l'umor nero e per regolare la circolazione. Quando
m'accorgo che mi si va formando una piega arcigna intorno alla bocca;
quando nel mio animo v'è un umido piovigginoso novembre, quando mi
vedo involontariamente sostare davanti ai negozi di casse da morto e
mettermi in coda ad ogni funerale in cui mi imbatto, e specialmente
quando l'ipocondria prende un tale sopravvento su di me, che io debba
ricorrere ad un forte principio morale per impedirmi di scendere
deliberatamente in strada per far regolarmente volar via dalla testa
della gente il cappello; allora giudico che sia gran tempo di andar
per mare quanto più presto possibile. Questo è il mio surrogato
della pistola e della pallottola.*
È uno degli incipit plus
famosi della letteratura. Famoso a giusto titolo, e magnifico, con
quella entrata così secca e concisa, in due parole. Un narratore che
in realtà non si presenta, non ci dice chi è ma solo come vuole
essere chiamato. E il riferimento biblico immediatamente ci trasporta
nell'universo del mito e dei simboli: Ismaele, è il figlio
illegittimo di Abramo, colui che troverà da solo la forza per
sopravvivere nel deserto. Poi, dopo questa stoccata, l'attacco si
srotola con il succedersi di onde portate dal ripetersi del quando in
anafora. Sembra già di essere in alto mare. Una musicalità
straordinaria; difficile dirne qualcosa di originale tanto gli
studiosi ne hanno scandagliato la prosa, si corre il rischio, è
evidente, di scadere nella banalità del commento.
Moby Dick è un libro mondo,
dai molteplici livelli di lettura. Ognuno può scegliere il proprio:
romanzo d'avventura, riflessione metafisica, analisi psicologica
dell'animo umano… Ma ogni volta il lettore attento, preso nelle
vicende del Pequod, si renderà conto che il libro non è solo
questo.
Leggete Melville, -ci
consiglia Cesare Pavese- che non si vergogna di cominciare Moby Dick,
il poema della vita barbara, con otto pagine di citazioni, e di
andare innanzi discutendo, citando ancora, facendo il letterato, e vi
si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più
vivo e più uomo.
Ed in effetti Melville non ha
paura di cominciare con una pagina sull'etimologia della parola
whale, con una serie di estratti, raccolti da un sostituto sostituto
bibliotecario, di sospendere la narrazione per inserire un trattato
di cetologia; di intercalare passaggi di scrittura teatrale.
Dice Agostino Lombardo, -che è
stato uno dei maggiori studiosi italiani della letteratura
anglosassone-, nella sua prefazione all'edizione De Agostini
dell'opera: Riesce persino difficile usare il termine romanzo, perché
Moby Dyck si carica di elementi di narrativa e tragedia, poema in
prosa e oratoria, allegoria dell'uomo alla ricerca di se stresso ed
esplorazione del mistero.
Pavese è stato il primo
traduttore italiano di Moby Dick. Erano gli anni del fascismo
autarchico, interessarsi alla letteratura americana era di per sé un
atto rivoluzionario. E negli stessi anni Trenta lo scrittore Jean
Giono fa un simile lavoro in francese. Pavese e Giono, entrambi poeti
della Collina, le Langhe per il primo, quelle della Provenza per il
secondo. I due scrittori sono affascinati dall'epopea della balena
bianca, la leggono e traducono nello stesso periodo. E in entrambi il
paesaggio collinare diventa metafora dei mari ondeggianti, dei grandi
spazi, dei mondi lontani. Giono scriverà anche un libro: “Pour
saluer Melville” omaggio empatico allo lo scrittore americano:
La traduzione di Moby Dick di
Herman Melville […], cominciata il 16 novembre 1936 è stata
terminata il 10 dicembre 1939. Ma ben prima di cominciare questo
lavoro, per almeno cinque o sei anni, il libro è stato il mio
compagno forestiero. Lo portavo regolarmente con me nei miei giri
sulle colline. Così in momenti in cui spesso abbordavo le grandi
solitudini, ondulate come il mare ma immobili, bastava che mi
sedessi, la schiena contro il tronco di un pino, che tirassi fuori
dalla tasca il libro che già sciabordava per sentire gonfiarsi sotto
di me e attorno la molteplice vita dei mari. Quante volte, sul mio
capo, ho sentito fischiare il cordame, la terra muoversi sotto i miei
piedi come le assi di una baleniera, il tronco del pino gemere e
ondulare contro la mia schiena come un albero di nave, pesante di
vele sventolanti. Alzando gli occhi dalla pagina, mi è sovente
sembrato che Moby Dick soffiasse laggiù davanti, al di là della
schiuma degli ulivi, nel ribollire delle grandi querce.***
In Pavese la relazione al mare
è più complessa. Esso è presente, ma più immaginato che reale, un
altrove mitico, al di là dell'ultima collina, dove i treni arrivano
nei porti e le navi fanno continuare il viaggio. Perché per lui
quello marino è nella realtà un universo se non ostile, desolato,
come quello di Brancaleone Calabro dov'era stato in confino: Il
mare, già antipatico d'estate, d'inverno poi è innominabile: alla
sera tutto giallo di sabbia smossa; al largo, d'un verde tenerello
che fa rabbia. E pensare che è quello di Ulisse: figurarsi gli
altri.** Ed ancora in una lettera ad Augusto Monti: Lei sa come odi
il mare; mi piace nuotare però mi serviva molto meglio il Po. Ma a
parte il nuotare, che del resto è già finito, trovo indegno della
gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle
onde sulla riva e quel basso orizzonte odore di pesce.**
Ma quando come in Melville il
mare è impeto e tempesta, quando le onde sono come colline, il
discorso cambia. La lotta epica del capitano Ahab e del suo
equipaggio assume i toni di un mito che sorge dal mondo antico,
atemporale e grandioso. Mito che ispira anche il Pavese poeta. In una
delle sue poesie più belle: I mari del sud, troviamo una scena che
ricorda da vicino la storia della balena bianca.
Solo un sogno
gli è
rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un
legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi
pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e
inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne
accenna talvolta.
*Herman Melville Moby Dick
Traduzione di Renato Ferrari Ed; De Agostini
**Citato da Muriel Gallot
Pavese: paese e paesaggio.
***Jean Giono Pour saluer Melville Ed. Gallimard