La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 26 novembre 2010

Cesare Pavese e l'irrequietezza

All'esame di maturità la prova orale di Italiano comprendeva una breve relazione su uno scrittore scelto dal candidato. In un Istituto di Torino un esaminatore siciliano si trovò a dover ascoltare più di uno studente che voleva parlargli di Cesare Pavese. «Ma cos'è - finì per chiedere- tutto questo interesse che avete qui per Pavese?»
Alcuni credono dunque che occorra essere piemontesi, o vivere in Piemonte, per leggere Pavese. Un interesse dettato da una sorta di campanilismo letterario.
Già perché, completamente a sproposito, al narratore è stato a volte accollato, e forse lo è tuttora, l'aggettivo evidentemente restrittivo di «regionalista». Certo la sua opera è legata strettamente alla sua regione; il paesaggio piemontese delle Langhe e Torino sono intimamente connessi alla poetica dello scrittore. Ed anche la lingua, pur evitando intarsi dialettali, è connaturata a quella del Piemonte. Ma ridurre l'opera di Pavese a questo vorrebbe dire non aver capito l'essenza del suo lavoro; evidentemente le traduzioni in decine di lingue mostrano il contrario.
E poi, sarebbe altrettanto limitativo, anche se meno offensivo, inscrivere la sua opera in un quadro semplicemente neorealista.
Infatti, se si sbarazzano i testi pavesiani da questo primo strato, magari non secondario ma certo un po' superficiale, si scoprono concetti più universali e profondi.
Alcuni di questi trovano il loro fondamento e il loro senso nel meccanismo mitologico dello scrittore. Perché proprio nel mito, dice Pavese, si possono trovare verità essenziali, capaci di spiegare il mondo.
Non è un caso se l'opera che egli ritenesse più importante tra quelle scritte tratti questo argomento e sia la più lontana dai temi della scuola realista.
Dialoghi con Leucò occupa un posto a parte nella sua produzione letteraria. In questo libro, attraverso ventisei dialoghi che mettono in scena personaggi della tradizione classica greca e latina, lo scrittore affronta il tema del mito in modo diretto. O piuttosto, lo utilizza per affrontare questioni essenziali dell'esistenza umana.
È un libro sorprendente, prima di tutto perché il suo argomento è assolutamente fuori stagione in un'epoca (1945 – 1947) in cui il neorealismo domina il panorama letterario italiano e ancor più l'ambiente intellettuale in cui lo scrittore si esprime. Si doveva ricostruire l'Italia, anche culturalmente, parlare dei problemi concreti e della realtà quotidiana. L'impegno di uno scrittore non poteva divagare in concetti anacronistici e superati. Si capisce perché Dialoghi con Leucò fosse guardato con diffidenza. Ma se Pavese rischia la polemica politico-letteraria è perché per lui il tema del mito è fondamentale. D'altronde esso attraversa altri testi della sua opera, anche quelli più apparentemente «neorealisti». L'autore va al di là della semplice riproduzione di immagini classiche, egli crea un schema originale che gli è proprio e che attinge gli elementi nell'habitat che lo circonda. La collina delle Langhe è certo un luogo di lavoro, in cui si muovono contadini dalla vita dura (e partigiani che si battono contro i fascisti) ma, per Pavese, questo luogo è anche un archetipo mitologico, patrimonio di percezioni e verità primarie, non legate alla realtà contingente: il falò, la vigna, il sangue che bagna la terra, la luna, sono elementi di questo sistema simbolico complesso e atemporale.
Osserviamo però che i suoi personaggi devono essere lontani da questa collina per percepirne l'essenza. Il mito per essere vissuto, per assumere concretezza, deve manifestarsi nell'assenza; un'assenza dovuta al distacco, temporale o spaziale. A questo scarto fa seguito il desiderio di trasformare in realtà la percezione. Ed è così che il viaggio, il ritorno, il ricordo o al contrario il sogno di paesi lontani, in una parola l'irrequietezza, sono una componente essenziale della loro vita.
I personaggi dei suoi romanzi, -e delle sue poesie- vivono spesso nell'inquietudide; l'urgenza dell'essere in cammino anima la loro esistenza.

Siamo nati per girovagare su quelle colline (Antenati)

Girerò per le strade finché non sarò stanca morta. (Agonia)

Nostalgia dell'altrove significa reimmersione nel mito dell'infanzia, quando il mondo era ancora da inventare e si potevano immaginare infinite possibilità di vita:
Fu Nuto che mi disse che col treno si va dappertutto, e quando la ferrata finisce cominciano i porti, e i bastimenti vanno a orario, tutto il mondo è un intrico di strade e di porti[...].(La luna e i falò)
Perché l'infanzia è anche il momento nel quale il contatto con il mondo naturale è più diretto, non mediato dalla razionalità. Non solo nei romanzi, ma anche in alcune delle poesie più originali (quelle di Lavorare stanca) i personaggi di Pavese trovano la loro volontà vitale nella possibilità di un altrove. Per questo sono sempre alla ricerca o nel rimpianto di un luogo differente da quello in cui si trovano. Camminano nella città, percorrono le colline, quasi con foga; spesso non sanno dove andare, non hanno mete precise ma sentono l'esigenza, la necessità di muoversi.
Il personaggio narrante de Il diavolo sulle colline vaga in una città dal profilo metafisico, sembra vuota o abitata da ombre; solo la sagoma di una donna alla finestra lascia intravedere spazi di vita. Con i suoi compagni sale, nella notte, sulla collina e da lassù osserva, quasi irreale, la distesa di case e di strade illuminate. Ne La casa in collina queste colline torinesi ricordano le vere, quelle delle Langhe, e permettono di uscire dal mondo reale per ritornare nel mondo del mito della terra contadina e primitiva. Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l'antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d'ifanzia.
Il ritorno è in fondo il tema de Il diavolo sulle colline, in un viaggio che, nell'intenzione del narratore, dovrebbe essere fatto a piedi per rendere più palpabile questa reimmersione nel paesaggio archetipale. Stessa strada, verso le colline, è quella de La casa in collina e di Paesi tuoi.
Il protagonista de La luna e i falò attraversa l'America per scoprire in California paesaggi che gli ricondano quelli da cui è partito; ritrova il dialetto parlando con un camionista di passaggio, anche lui piemontese. Decide di tornare ma quando è nei luoghi dell'infanzia il sogno s'infrange. Non servirà a niente cercare in Cinto - il ragazzino che in qualche sorta ha preso il suo posto - un alter ego capace di far riemergere le immagini passate. Il coltellino che il narratore gli regala e che assomiglia a quello che lui stesso aveva da ragazzo diventa il segno di questa immagine speculare. Ma durante l'incendio Cinto perde il simbolo. La realtà del presente fa scomparire il mito.
Non resterà che il desiderio di una nuova partenza.

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa. (Lavorare stanca)

domenica 14 novembre 2010

La Piola di San Francesco al campo

Da Caselle andando verso il Canavese la strada provinciale scendeva in una valletta e, dopo aver attraversato il ponte sul fiumiciattolo, risaliva immediatamente sul piano. Prima del ponte, sulla sinistra, isolata, c'era la Trattoria del Monferrato. In realtà trattoria non lo era più da un pezzo, magari qualche panino, con salame o, per gli amatori, con tomini; invece come osteria, o piuttosto piola, come si diceva da quelle parti, funzionava ancora e il nome, dipinto sulla facciata, era restato.
Era una massiccia casa ad un piano, la locanda al pianterreno e sopra l'appartamento della padrona. Fuori, sulla sinistra c'era uno spazio delimitato da una siepe e, subito dietro, dagli alberi del bosco. Era occupato da due pesanti tavoli in pietra, uno rotondo e uno rettangolare che, anche in estate, erano usati raramente, sempre all'ombra e un po' umidi.
Gli avventori e, a volte, anche la padrona, preferivano, nelle giornate più calde, sedersi sulle due panchine in ferro che stavano ai lati dell'ingresso.
Salendo tre scalini si entrava nel primo dei due locali della piola. Era il più piccolo, giusto lo spazio per un modesto bancone che reggeva la macchina per il caffè. Davanti un solo tavolo quadrato in formica, appoggiato al muro, vicino alla porta che immetteva nella seconda stanza. Era il tavolo dei clienti solitari che passavano per un caffé o un bicchiere e che si sedevano qui per fare quattro chiacchiere con la padrona. Sull'altro lato della stanza c'erano le scale per il piano superiore e, sotto, la porta per la cantina con un bello e massiccio cavatappi murale a leva. Dietro il bancone il solito specchio con la pubblicità del vermouth e con davanti alcune bottiglie di liquore dai colori esotici e vivaci aperte ormai da mesi, forse anni, ma che raramente servivano. Nemmeno la birra aveva molti amatori e un giorno un giovane cliente di passaggio fece ridere la padrona chiedendole una « spina »: « Oh no ! Quella si trova solo a Torino...Nei bar più grandi! ». Il vino invece era buono. Certo la scelta era abbastanza limitata: Barbera, Dolcetto e, per gli ospiti più esigenti, qualche bottiglia di Nebbiolo. La padrona andava a cercarlo in cantina e poi si fermava davanti al monumentale cavatappi per aprirlo. Gli avventori erano di solito nell'altra stanza, un po' più grande della prima e scaldata da una stufa a legna. Sul muro la bacheca dell'Associazione Pescatori con qualche volantino da tempo ingiallito. In questo locale c'erano quattro tavoli e un vecchio televisore quasi incastrato in un ripiano murale. In inverno, quando il buio scendeva rapidamente e i clienti erano rari, la padrona si sedeva vicino alla stufa e accendeva il grosso cassone a valvole. Le notizie arrivavano da un mondo quasi sconosciuto e a volte, quando le informazioni erano più sorprendenti del solito, la donna commentava in dialetto con un misto di scetticismo e di incredutilà: « Ma sarà vero? »
La padrona era un'anziana signora, vedova da tempo, che aveva ormai abbondantemente raggiunto l'età della pensione ma che ciò nonostante continuava ad occuparsi dei clienti, in verità non molto numerosi. Era piuttosto bassa e di corporatura assai robusta, zoppicava un po' a causa dell'anca che le dava qualche fastidio. Il suo italiano era faticoso, preferiva esprimersi nel dialetto piemontese del luogo e a volte dimenticava che certi clienti di passaggio avrebbero potuto non capirla. Era una donna garbata e sorridente ma sapeva farsi rispettare e non esitava ad alzare la voce quando qualcuno non la rispettava o si agitava più del consentito.
La Trattoria del Monferrato non attirava molta gente di passaggio. La strada era abbastanza frequentata ma gli automobilisti non vedevano la casa che all'ultimo momento, quasi nascosta dagli alberi in fondo alla discesa. E si accorgevano che era un'osteria solo quando erano già davanti perché, a parte la scritta sul muro e la lamiera dipinta con le immagini dei gelati, nessun'altra indicazione ne preannunciava la presenza. Così solo i clienti abituali, abitanti dei dintorni, la frequentavano. Venivano dalle cascine, a volte in bicicletta o in motorino, a volte parcheggiando vecchie auto che, vista la paglia e gli attrezzi che di solito trasportavano, dovevano servire per i lavori nei campi. Si conoscevano tra di loro e la sera facevano una o due partite a carte bevendo un bicchiere. Ma non erano tutti amici, dispute di vicinato o vecchi rancori avevano la vita dura e non era raro vedere qualcuno ordinare un quartino e berselo in solitario. Solo in estate, la domenica pomeriggio, capitava che qualche donna si sedesse, fuori, su una delle panchine per mangiare il gelato. Più che clienti erano amiche della padrona che passavano per scambiare due parole. In genere, a parte quest'ultima, soprattutto la sera c'erano solo uomini, sempre gli stessi, raramente più di quattro o cinque. Contadini ormai anziani dalle mani rugose e dalla voce ancora energica. Spesso entravano dimenticanto di scrostare gli scarponi terrosi e accettavano, sorridendo, le invettive della donna. C'era tra di loro un suonatore di fisarmonica che animava le sagre e le feste dei dintorni. A volte aveva lo strumento nel bagagliaio della macchina e, quando le bottiglie stappate erano un po' più del solito, poteva capitare che si cantasse qualche vecchia canzone.
Da qualche tempo un gruppetto di ragazzi aveva preso l'abitudine di passare ogni tanto la serata nell'osteria. Abitavano nei paesi della piana e, piuttosto di andare nei locali alla moda, dove appunto si beveva birra alla spina, avevano scoperto e adottato la trattoria del Monferrato. Le prime volte la loro presenza non era certo passata inosservata. La stessa padrona si stupiva del fatto che dei giovani potessero fermarsi nel suo locale: quelli del vicinato non venivano mai, preferivano la discoteca. I clienti abituali li avevano visti con diffidenza, un po' come degli intrusi in quello che consideravano il « loro » locale, magari capaci di fare troppo baccano. Ma poi, poco a poco, ci si era accennato qualche saluto e, soprattutto gli scambi in dialetto di un paio dei giovani avevano disteso le relazioni. Ormai erano riconosciuti e accettati. Spesso avevano una chitarra e, dopo aver bevuto qualche bicchiere, succedeva che cercassero di coinvolgere i presenti in una corale improvvisata. Forse la voce si sparse nel circondario e quell'inverno le serate della piola furono più animate del solito.
Un giorno però, il gruppetto trovò le luci spente. I ragazzi andarono altrove pensando ad una chiusura provvisoria. Ma la Trattoria del Monferrato non riaprì più. La padrona aveva fatto una brutta caduta ed era finita all'ospedale. E poi gli anni cominciavano a farsi sentire, così si era lasciata convincere ed aveva deciso di mettersi in pensione veramente.

lunedì 1 novembre 2010

Nicolas Bouvier: La polvere del mondo

Scrittore viaggiatore. Come sempre inserire un autore in un genere letterario è riduttivo. O allora bisogna considerate scrittore viaggiatore anche Proust nella sua stanza tappezzata di sughero. Perché Nicolas Bouvier nei suoi libri parla soprattutto dell'Uomo, delle sue debolezze e delle sue grandezze, dell'incoerenza e della generosità delle sue azioni. Dunque semplicemente scrittore, un bravo scrittore, di quelli che vi aiutano a pensare, capace, grazie alla sua sensibilità, di trasmettere impressioni ed emozioni perspicaci e penetranti.
Nel 1953, quando con il suo amico pittore Thierry Vernet parte verso l'oriente, la guerra è ancora un avvenimento recente. L'Europa, (il mondo), ha appena cominciato la sua ricostruzione e il turismo di massa non è ancora stato inventato. Il loro viaggio, a bordo di una topolino che in salita bisogna spingere, su strade difficili e sconosciute, ha ancora il sapore di esplorazione e di scoperta. Con pochi soldi in tasca, i due cercano di racimolare il necessario vendendo, difficilmente, disegni e articoli per i giornali. Attraversano la Yugoslavia, la Grecia, la Turchia, l'Iran, il Pakistan, prima di separarsi, dopo un anno e mezzo, a Kabul.
Quali sono le ragioni che li spingono a partire? La voglia di conoscere nuovi posti e persone differenti, il desiderio di rinunciare alla monotonia e alla ripetitività del quotidiano ma, in definitiva, semplicemente l'opportunità che si presenta e che permette di concretizzare una fantasticheria: in questo caso del tempo a disposizione e Thierry, in Yugoslavia per un'esposizione e che invita l'amico a raggiungerlo. Così, racconta Bouvier, il fascino che l'adolescente aveva per le carte geografiche, se poi persiste, all'occasione, senza una ragione precisa né un obiettivo ben chiaro, ci mette in viaggio.
Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrarvi che trova in se stesso la propria giustificazione.
Nel libro La polvere del mondo Nicolas Bouvier ritraccia il percorso in un racconto ricco di spunti e di riflessioni sul mondo che lo circonda ma anche su se stesso. Il titolo originale L'usage du monde L'uso del mondo sottolinea anche le nozioni di conoscenza, apprendimento e approfondimento, di trasformazione nel rapporto verso l'esterno ma anche interiore: Crediamo di fare un viaggio, ma ben presto è il viaggio che ci fa, o ci disfa.
L'idea di partenza corrisponde prima di tutto alla volontà di cominciare una nuova fase nella propria esistenza. « Come la seconda vita di un gatto che ne ha sette » dice l'autore nella premessa. Disponibile a lasciarsi alla spalle non solo i legami materiali ma anche le proprie certezze, il viaggiatore parte con lo spirito di chi non pensa al ritorno: il viaggio non è un periplo. Nicolas Bouvier et Thierry Vernet hanno approssimativamente programmato un itinerario,- verso l'India e forse più in là,- ma il percorso e la durata sono lasciati al caso. Ed è così che dopo essere andati alla ricerca di villaggi zingari in Serbia, dopo essersi fermati in Macedonia, attraversano in modo relativamente rapido la Grecia e l'Anatolia per poi restare un inverno intero, bloccati dalla neve, a Tabriz in Iran.
Riuscendo a raggranellare di che vivere, anche se spesso in modo molto parsimonioso, i viaggiatori rinunciano ad agni lusso ma non al più prezioso: la lentezza.
E il desiderio di lentezza, arriva fino al rimpianto e all'aspirazione per un luogo in cui fermarsi, un covo da riempire con la scrittura e le letture. Forse per questo la scrittura di Nicolas Bouvier sembra oscillare tra il desiderio del viaggio e la nostalgia del rifugio.
Il viaggio dà occasioni per scuotersi ma non -come si potrebbe credere- la libertà. Ci fa piuttosto provare una specie di riduzione: privato della sua cornice abituale, spogliato delle sue abitudini come di un imballaggio voluminoso il viaggiatore si trova ridotto a più umili proporzioni. Ma anche più aperto alla curiosità, all'intuizione, al colpo di fulmine.
I panorami, i paesi, le città sono l'intelaiatura del racconto; descritti in dettagli più che in affreschi ma che, proprio per questo, sono più efficaci e parlanti. E i paesaggi non sono mai per Bouvier cartoline illustrate. A volte suscitano in lui sensazioni di avversione e di ostilità: paesaggi che ci aggrediscono e che bisogna abbandonare immediatamente per evitare conseguenze incalcolabili.
Ma altrove generano momenti di grazia, sufficienti a giustificare ore di fatica e di sconforto:
Per un motivo o per l'altro, può succedere di fermare l'auto e di passare la notte all'aperto. Al caldo in una grossa giacca di feltro, un berretto di pelliccia calato sulle orecchie, si ascolta l'acqua bollire sul fornello, al riparo di una ruota. Accostati ad una collina, guardiamo le stelle, i movimenti lenti della terra che se ne va verso il Caucaso, gli occhi fosforescenti di una volpe. Il tempo passa in té scottante, in rare parole, in sigarette, poi l'alba si leva, si distende, le quaglie e le pernici si fanno sentire... e ci si affretta a colare questo sovrano istante come un corpo morto al fondo della propria memoria, dove, un giorno, andremo a ricercarlo. Ci si stira, si fa qualche passo; pesando meno di un chilo, e la parola « felicità » sembra molto insufficente e limitata per descrivere questa sensazione.
Sono però gli incontri, numerosi e differenti, la scoperta dell'altro, la chiave del libro. Innumerevoli ritratti di nomadi, contadini, viandanti, operai, avventurieri, europei sperduti nel cuore dell'Asia, sono tra le pagine più belle del libro. Incontrare l'altro permette il confronto con il mondo, rimette in gioco le nostre certezze ma permette anche di ritrovare similitudini e somiglianze. E l'incontro può anche rivelarsi sorprendente e paradigmatico come quando, sulla strada per Chizaz, nell'est dell'Iran Nicolas Bouvier incontra in un camionista un volto familiare che finisce per riconoscere: Mentre il proprietario stava per soffiare sulla lampada scorsi per la prima volta il suo volto illuminato in pieno e capii cosa mi aveva intrigato: era il sosia di moi padre; un padre un po' invecchiato, annerito, umiliato, ma, in ogni caso, mio padre.
Oppure come nel Saki Bar di Quetta, dopo 1200 chilometri di deserto tra l'Iran e il Pakistan, ascoltano uno zingaro di una tribù della regione
Poi cominciò a cantare, gli occhi bassi, con una voce rauca che passava come un filo di lana rossa tra le note nasali dell'armonium. Sorta di sospiri cantati che ricordavano in modo sorprendente le canzoni sevda della Bosnia. Ritrovavamo l'odore del peperoncino, le tavole basse sotto i platani di Mostar o di Sarajevo, e gli zingari dell'orchestra nei loro completi lisi, tirando sui loro strumenti come se bisognasse urgentemente liberare il mondo da un peso intollerabile. Era la stessa tristezza sfuggente e folle, l'incostanza, il seme di elleboro.[...]
Dopo una giornata faticosissima nel garage, il ritorno dei ricordi era come un paradiso. Il viaggio, come una spirale, saliva e ripassava su se stesso. Ci faceva un cenno, dovevamo solo seguirlo.
Non deve essere facile attraversare il mondo cercandone la chiave e uscirne incolumi. Arriva il momento in cui ci si pone la domanda: e ora? Nicolas Bouvier ha descritto in un altro libro Il pesce scorpione questo sentimento. Arrivati in Afganistan Thierry Verner e Nicolas Bouvier si separano. Thierry va a Ceylon dove l'aspetta la sua fidanzata, Nicolas vuole proseguire verso la Cina. Ma la frontiera è chiusa ed egli si ritrova a Ceylon, solo, senza soldi per andare in Giappone. È come un naufrago, assalito dalla malattia e dalla depressione. Venti anni dopo, nel 1975, per « fare i conti » con questa esperienza, ne fa una narrazione melanconica e appassionante che, in una prosa poetica e desolata descrive la sua discesa fino quasi alla follia e il suo ritorno alla vita.
Tornando da un viaggio siamo come dei galeoni, carichi di pepe, noce moscata e altre spezie preziose, ma tornati in porto, non sappiamo che fare del nostro carico.

Corno Grande del Gran Sasso d'Italia: salita sulla vetta occidentale


Non si conosce con precisione l'itinerario seguito da Francesco De Marchi quando, il 19 agosto del 1573, salì sulla vetta occidentale del Corno Grande del Gran Sasso d'Italia. E probabilmente non fu neppure lui il primo a raggiungere quella cima; nessuno può dire se qualche cacciatore di camosci non l'avesse preceduto (anzi, il suo accompagnatore Francesco Di Domenico, cacciatore appunto, gli aveva assicurato di essere già salito lassù). Fatto sta che il racconto che il capitano bolognese ne fece, appassionante e dettagliato, ritrovato solo nel 1938, ha legato per sempre il suo nome a questa conquista, spodestando nell'immaginario collettivo, il teramano Orazio Delfico, fino ad allora considerato il primo e che era salito sulla vetta orientale nel 1794. De Marchi, grazie alla cronaca della sua impresa divenne in qualche modo, un po' come Petrarca sul Monte Ventoso, uno dei precursori dell'alpinismo moderno.
A 69 anni l'ingegnere aveva alle spalle una carriera militare di esperto in fortificazioni. Conosceva già l'Abruzzo per essere stato al servizio della corte romana dei Farnese che in questa regione avevano dei possedimenti e, a suo dire, l'idea di quella spedizione l'aveva avuta parecchio tempo prima:
Il detto Monte era trenta du’anni che io desiderava di montarci sopra per levar le dispute dell’altezze di altri Monti. Così andassimo d’Aggosto l’anno 1573, il signor Cesare Schiafinato milanese, e Diomede dall’Aqquila. Et andammo ad un Castello nominato Sercio, potemmo trovar nessuno che mai ci fusse stato, dico alla cima, ancorché questo castello sia il più presso verso l’Aqquila. Mi fu detto che vi erano certi Chacciatori di Camocce che vi erano stati sopra, e così dimandai à molti di loro e non trovai se non uno, nominato Francesco Di Domenico, il qual’era stato alla cima un’altra volta, e malamente vi voleva più tornare.
De Marchi riuscì a convincere Di Domenico e fu così che il gruppo partì da Assergi (Sercio) a cavallo, per raggiungere Campo Pericoli (Campo Priviti).Molto probabilmente si diresse verso la « Sella del Brecciaio », seguendo, almeno per un primo tratto, quella che oggi è considerata la via normale, ma non è esclusa un'altra via, magari più vicina all'attuale « direttissima » o al cosiddetto canale Bissolati. Sembrerebbe però che Di Domenico non ricordasse il percorso che diceva di aver già fatto e così la comitiva dovette cercare a lungo un passaggio praticabile per sbucare in vetta, raggiungendola infine dopo 5 ore e un quarto di tentativi. L'impressione però li ripagò di tutte le fatiche.Quand’io fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva che io fussi in aria, perche tutti gli altissimi Monti che gli sono appresso erano molto più bassi di questo.
In effetti attorno al Corno Grande il panorama spazia a 360 gradi sull'intera regione e ben al di là. In questa parte centrale, il gruppo del Gran Sasso svetta con la sua mole dolomitica tra tutte le montagne dell'Appennino, in generale più dolci e arrotondate. Quasi trecento metri separano la cima più elevata dalle altre appartenenti allo stesso gruppo ( il Corno Piccolo 2655 e il Pizzo Intermesoli 3635).
Addunque questo monte è veramente il più alto e il più orrido di tutti i monti d’Italia perche sendo alla cima si vede il Mare Adriatico, il Ionico, et il Tirreno, et se non vi fussero tanti monti trà mezzo si vederebbe ancora il Mar Ligustico.
Oggi la salita al Corno Grande non è più l'impresa epica delle origini e spesso, nelle domeniche estive, c'è folla sulla via. Nonostante tutto, scegliendo il giorno adatto, l'esperienza è magnifica.
Dal versante aquilano si parte a fianco dell'orto botanico e dell'osservatorio. Ci si inerpica per il sentiero che si dirige verso il visibile rifugio Duca degli Abruzzi per poi biforcare quasi subito a destra attraversando in diagonale le pendici del monte Portella. Sulla destra, (verso sud) il paesaggio spazia sull'altopiano di Campo Imperatore, chiuso in fondo dalle coste del monte Bolza, Capo la Serra, Guardiola. Dietro si intravede la cresta della Maiella. L'ampia prateria, ad un'altezza variabile tra i 1500 e i 1700 metri, risale dal nostro lato fino ai 2200 del punto di partenza dell'escursione. Sotto il sentiero il paesaggio è carsico, crepe di pietra bianca intagliano i prati sui quali una mandria di mucche pascola mostrando abile equilibrio.
L'ultimo tratto di sentiero, prima della sella si fa più ripido e roccioso, poi si sbuca sulla cresta che separa questo versante da Campo Pericoli.L'ampio anfiteatro è esposto a nord, come un gigantesco imbuto verso la val Maone. Adesso è deserto. In basso, sotto le pendici del Corno si vede il rifugio Garibaldi. Il più vecchio dei rifugi del Gran Sasso funziona dal 1886, ma la sua posizione fa sì che d'inverno è facilmente sepolto dalla neve. Fu per questo che si costruì il Duca degli Abruzzi, più visibile sulla cresta del Portella. Nell'ampia valle il sole che arriva di sbieco mette in evidenza le doline.
Il sentiero scende a destra verso il monte Aquila ma, quasi subito biforca. A destra, in salita, verso la sommità di questo monte o verso la sella di Corno Grande. La via normale è quella di sinistra che, attraversando come un'iperbole il lato orientale del Campo si inerpica nell'ultimo tratto su un grande brecciaio, salendo fino alla sella omonima. Siamo a circa 2500 metri di quota, la spalla del monte è un luogo di sosta, dove riprendere il fiato; di fronte è l'immensa parete orientale del Pizzo Intermesoli.
Il sentiero riprende a salire, aggirando la montagna verso nord. Alla Conca degli invalidi una traccia si stacca sulla destra: è la via che sale seguendo la dorsale occidentale, più rapida ma anche più esposta. Davanti a noi, con una lunga diagonale, il sentiero principale continua a salire, faticosamente, tra rocce e ghiaia fino alla cresta che protegge il ghiacciaio del Calderone.Le belle pareti del versante nord del Corno piccolo sono ancora nell'ombra. Si continua a salire, su rocce più solide, verso la cima. Il panorama è spettacolare, il sole colora di riflessi dorati le guglie del monte. Il cielo è di cobalto. Un gracchio vola in cerchio lasciandosi portare dal vento.