La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



lunedì 29 dicembre 2014

Francesco Giuliani: Diario della guerra 1915-18

Nel centenario dello scoppio della guerra 1914-1918, anche in Italia, nazione che entrò nel conflitto l'anno seguente, si sono moltiplicate le pubblicazioni e le iniziative per ricordare, in modo più o meno pertinente, quel catastrofico avvenimento.
Sono scomparsi ormai tutti i testimoni della carneficina. L'ultimo reduce italo-francese, Lazzaro Ponticelli è morto nel 2008 alla veneranda età di 110 anni, rifiutando, con un ultimo atto di intelligenza e di coerenza, i funerali solenni (gli stavano preparando un posto al Pantheon) che la Francia voleva attribuirgli: Non è giusto che spettino solo all'ultimo sopravvissuto, facendo un affronto a tutti gli altri che sono morti senza avere gli onori che meritavano. Non si è fatto nulla per loro, anche un piccolo gesto sarebbe stato sufficiente. Così Ponticelli, che, durante la seconda guerra mondiale, aveva partecipato anche alla Resistenza, a dato uno schiaffo morale ai maestri della retorica ufficiale. E, a questo proposito, non è inutile sottolineare, in un'epoca di rigurgiti nazionalisti e di xenofobia dilagante, il fatto che l'ultimo soldato poilu (così erano chiamati i fanti francesi) è stato un immigrato.
Restano quindi, per raccontare il primo conflitto dell'era moderna gli scritti di memorialistica e di letteratura. Tra le iniziative più interessanti, possiamo ricordare la diffusione su Radio3 della lettura di alcuni tra i testi più importanti che hanno come argomento la cosiddetta “Grande guerra”. Un anno sull'altipiano, lucido e spietato resoconto dell'esperienza personale di Emilio Lussu, il magnifico e drammatico racconto La paura di Federico De Roberto, Addio alle armi di Ernest Hemingway, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque.
Tutti questi scritti, lontanissimi dalla retorica guerriera, raccontano, pur con stili e approcci differenti, un universo di sofferenza e di desolazione. Denunciano l'incompetenza, l'ottusità e il cinismo di chi considerava la truppa come carne da macello, prendendo decisioni sconsiderate e mortifere, raccontano i barlumi di umanità che, malgrado il contesto, riescono a persistere tra i soldati nelle trincee.
Spesso però, ed è il caso per i titoli citati, il testimone è, se non uno scrittore di professione, un esponente del ceto agiato e colto, ed anche se il testo, come nel caso di Lussu, nasce dall'urgenza di smascherare la retorica della storia ufficiale, lo sguardo sulla moltitudine in gran parte contadina di quel popolo costretto a battersi per ragioni a lui oscure, resta, seppur comprensivo e benevolo, intriso di paternalismo.
È quindi importante ascoltare la voce di chi, pur amante della cultura, non era nato nella classe degli istruiti e che scrivendo aveva ancora i piedi nella terra di poveri campi coltivati con fatica e appoggiava il bastone sull'erba dei pascoli di montagna.
Si tratta di Francesco Giuliani, il poeta pastore abruzzese che, partito per il fronte del Carso nel 1915, tornò definitivamente sulle sue montagne natali solo nel 1919.
Su tre quaderni di scuola Francesco Giuliani ha raccontato la sua esperienza nelle trincee. Si tratta di un diario, del tutto personale, nel quale il primo bisogno imperioso è quello di attenersi al vero, anche a scapito dello stile letterario. Essenziale è raccontare i fatti, le piccole e grandi storie di quell'epopea, ricordare gli uomini conosciuti, coloro capaci di gesti eroici o di bassezze. Perché in un momento così estremo com'è la guerra, la natura umana è messa a nudo, svela ed evidenzia gli artifici e i sotterfugi. Ma, nonostante tutto, anche se il primo scopo è di dire il vero, per Francesco Giuliani la scrittura è un atto importante anche nella forma. La cura con cui teneva i suoi quaderni, la calligrafia precisa e diligente ne sono un sintomo. Colui che diceva di non voler essere un pastoraccio incolto, studiava, anche se da autodidatta, i classici della letteratura. Amava la poesia e quando scriveva pensava ai suoi modelli, soprattutto a Dante che citava con passione; non a caso il testo del suo diario alterna parti in prosa e parti in endecasillabi.
Lo scritto che ne risulta è il racconto delle sue vicissitudini e dei suoi sentimenti ma è anche una riflessione, un esame della condizione umana in un contesto tanto particolare, un'analisi delle responsabilità di chi provocò quella situazione drammatica.


Lasciaste qui la vita innanzi sera
Giovani baldi, coraggiosi e forti,
Per voi io piango in questa notte nera.


Eravate le più belle coorti
Nuove alla pugna e scevre di livore,
Ora qui siete un gran campo di morti.


Voi m'infondete in cor pena e timore
Che forse un giorno vi potrò seguire
Se della pugna ancor dura il furore.


E qui veniste bei fiori a morire
E dato non vi fu il perché sapere
Che si spengano un dì gli sdegni e l'ire.


Fummo menati a trar dei giorni amari
In questo inferno di tormenti e pene
Disperando tornar nei patri lari.


Descritte non fur mai simili scene
Di tante strage e di cotanto orrore
Che non c'è da veder facce serene.


E qui non vive un cor senza timore
Perché è questo della morte il regno
Delle pene tremende e del dolore


Placar non si potrà mai tanto sdegno
Contro chi volle questa guerra immane
Che lascia ovunque delle stragi il segno.


Francesco Giuliani scrive per se stesso ma, forse fin dall'inizio, voleva che la sua storia trovasse altri lettori. Quest'idea si rafforza soprattutto dopo che nel 1961 l'etnologa Annabella Rossi fa conoscere il lavoro del poeta pastore e pubblica alcuni estratti del Diario nella rivista Il Contemporaneo, valutando e suggerendo una pubblicazione integrale dell'opera. Ci fu poi, nel 1992, un'altra parziale pubblicazione nell'antologia di scritti di Giuliani Se ascoltar vi piace, curata da Maurizio Gentile qui ma l'edizione completa del testo dovrà aspettare ancora una decina di anni.

Infatti quest'ultimo progetto vedrà la luce solo nel 2001 grazie al sostanziale contributo della Regione Abruzzo, dell'Amministrazione Comunale di Castel del Monte e dei familiari dell'autore.
L'edizione critica, curata da Paolo Muzi, è completata dalla raccolta di lettere che il pastore aveva inviato dal fronte alla moglie Cesidia. L'epistolario era stato copiato dallo stesso su due altri quaderni, edulcorato dai saluti ai familiari, segno della volontà di farne una componente della sua opera letteraria. Le lettere, scritte evidentemente “a caldo” serviranno più tardi da base, insieme agli appunti presi su un quaderno al fronte, per la stesura del Diario, composto (il periodo preciso è sconosciuto) probabilmente a partire dagli anni Cinquanta. E la lettura delle lettere, parallela a quella del diario permette anche una messa in prospettiva del testo di quest'ultimo, arricchendolo di riflessioni teoriche pertinenti e ben definite, sottolineando la precisa coscienza morale di Francesco Giuliani:
Sono contento che si fanno poche istruzioni, e perché io le credo inutili mi riescono sempre incresciose. Io non sono dotato di spirito guerriero, non amo la vita comoda, ma tranquilla, e per questo non voglio che mi si insegni come si fa ad assalire una trincea e nemmeno a puntare il fucile, quando il bersaglio da colpire è un uomo.
Fino a che vi saranno uomini ambiziosi e da tanto a tener vivo l'odio tra i popoli, ed altri occupati soltanto a creare mezzi di distruzione, l'umanità intera non avrà mai pace*.
Parole che oggi suonano profetiche e di un'attualità cocente.

*Lettera del 20 marzo 1916

giovedì 25 dicembre 2014

Bertold Brecht: Tebe dalle sette porte


Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi. 

Il giovane Alessandro conquistò l'India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui? 

Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria? 

Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?

Tante vicende.
Tante domande.

martedì 4 novembre 2014

O Gorizia tu sei maledetta

 Riprendo e mi associo al post pubblicato dal blog Vento largo qui :
La più bella e autentica canzone di trincea. Non si conosce l'autore, probabilmente non c'è. Nacque spontaneamente fra i soldati stanchi di un macello insensato. Cantarla in pubblico ancora negli anni '60 comportava la denuncia per vilipendio delle Forze Armate. Oggi, chissà? Questo è il nostro 4 novembre.

O Gorizia tu sei maledetta


La mattina del cinque d'agosto
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì

Sotto l'acqua che cadeva a rovesci
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir

Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì

Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor

Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Scannatori di carne venduta
E rovina della gioventù

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.

sabato 25 ottobre 2014

Il Mare del Nord, autunno

Malo plage. Non lontano, ad ovest, la città di Dunkerque si allunga fino alla zona industriale dove le ciminiere degli altiforni si innalzano con i perenni pennacchi di fumo.
Qui invece l'ambiente è meno severo. E il mese d'ottobre assomiglia ad un'estate fuori tempo.
Il lungomare si da arie di vacanza. La gente passeggia, pedala o corre sulla lunghissima diga frangiflutti che si affaccia sulla spiaggia. Ma dal mare, verso le coste inglesi, accorrono nuvole grigie e per qualche ora coprono il cielo. Fanno da schermo al sole che, da sud, arriva ancora caldo, accentuano, come un immenso riflettore, i contrasti e saturano i colori.

Una strana processione si allunga nelle acque già fredde del mare del Nord. Da lontano sembra un branco di foche. Sono i praticanti la longe-côte (letteralmente lungo la costa).
Vestiti con tute e scarpette di neoprene, alcuni armati di pagaia, gli adepti di questa disciplina camminano come per un'escursione. La differenza è che lo fanno con l'acqua fino al petto.

Evidentemente bisogna che il sito si presti alla pratica: il fondo deve essere abbastanza regolare e sabbioso. Che piova o che ci sia vento, d'estate come d'inverno, gli appassionati si danno appuntamento una o due volte a settimana e si immergono nell'acqua per la loro tonica "passeggiata".
Nata come allenamento per i canottieri dei club sportivi, la longe côte si è diffusa come attività a se stante e attira numerosi (e numerose) praticanti longeurs, in generale non giovanissimi, di età media tra i quaranta e i sessant'anni. Il gruppo si allunga e si allontana seguendo la lunghissima spiaggia, resa ancora più grande dalla bassa marea.

Nel pomeriggio siamo un po' più a ovest, a Wissant, tra Calais e Boulogne. Il sole è più brillante, il vento ha spazzato le nuvole ma le raffiche sono a tratti abbastanza violente.
Il tradizionale paesino di pescatori è ormai solo un ricordo ed il borgo è diventato una località turistica, piccola ma apprezzata.
Di Wissant (Guizzante) parla, con Bruges, Dante Alighieri nel XV canto dell'Inferno, paragonandone gli argini a quelli del Flegetonte:

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
 
Ma in questi ultimi anni la lotta tra uomini e mare ha messo a repentaglio le costruzioni più vicine alla riva.
Si è dovuto costruire rapidamente un nuovo argine fatto di grossi macigni per attutire l'impeto delle tempeste.
Anche qui una lunghissima spiaggia tra Cap Gris-Nez (il promontorio che segna il limite tra Manica e mare del Nord) e Cap Blanc-Nez.
Qui si pratica il kitesurf. Anche questa un'attività non di tutto riposo. Si tratta di farsi trascinare dal vento su una tavola da surf.

Decine e decine di grandi aquiloni colorano il panorama.

mercoledì 15 ottobre 2014

Gabriele D'Annunzio: La pioggia nel pineto

Difficile da difendere la figura di Gabriele D'Annunzio. Troppo impantanata nella retorica umbertina e poi fascista. Il poeta vate costruì la sua immagine sentenziosa e pomposa sulle insicure fondamenta di un'Italia provinciale e piccolo borghese; volle edificare la sua vita come un'opera d'arte. Fu con questa idea che, colui che si pavoneggierà con il titolo di Principe di montenevoso, immaginò le sue azioni eroiche, dal volo su Vienna nel 1918 all'impresa di Fiume; con questo spirito addobbò la villa che aveva assunto a dimora sulle rive del Garda quando la trasformò in un monumento alla sua gloria e la ribattezzò Vittoriale degli Italiani.

D'Annunzio è cosiderato, con Pascoli, il massimo esponente del Decadentismo italiano. Ma la declinazione nostrana di quella corrente artistica era in definitiva in un tono assai minore rispetto al grande movimento letterario europeo che aveva espresso sulla scia di Baudelaire, con Verlaine, Mallarmé o Rimbaud tematiche ben più ricche e profonde.

In particolare, nel poeta pescarese, la facciata dell'edificio poetico appare spesso di cartapesta, la foga retorica svela un che di stantio e di artefatto. Pensiamo alla celebre invocazione con cui chiude la poesia dedicata alla transumanza delle genti d'Abruzzo: Ah perché non son io co' miei pastori? Qualcuno gli fece giustamente notare che forse era semplicamente perché preferiva le ville della Versilia o Montecarlo alle montagne abruzzesi.

Accade però che, abbandonati gli artifici, l'opera d'annunziana mostri il suo aspetto più convincente. Perché, malgrado tutto, D'Annunzio poeta lo è davvero. È il caso per esempio di Notturno. Scritto su striscioline di carta con gli occhi bendati dopo un grave incidente aereo che lo aveva reso momentaneamente cieco e nel quale il suo compagno di volo era morto, questa prosa lirica tralascia la retorica grandiloquente e assume un tono che appare più sincero e personale. 
Aegri somnia.
Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l′ultima falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l′articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.
La stanza è muta d′ogni luce. Scrivo nell′oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l′una e l′altra coscia come un′asse inchiodata.
Imparo un′arte nuova.

Ma anche nella raccolta Alcyone troviamo qualche momento di vera poesia. È il caso della celeberrima La pioggia nel pineto. Dedicata ad Eleonora Duse, -l'Ermione del canto- questa lirica in versi liberi fu composta in Versilia nel 1902. La maestria con la quale il poeta utilizza les figure retoriche e quelle di stile raramente appare così poco forzata e ha come risultato un sorgere di immagini, di odori e di suoni che ci immergono in quell'universo naturale. Ad essa si potrebbe associare la celebre definizione che Pascoli aveva dato dell'arte poetica: uno sguardo vergine sulle cose.

Dimenticando per un istante le reminiscenze scolastiche e l'autocaricatura dannunziana possiamo inoltrarci tra gli alberi di quel mondo fuori dal tempo nel quale la natura parla, respira, vive. Non è forse usurpata per questa lirica la definizione che il critico Walter Binni diede della nuova poesia: pura atmosfera musicale che porta l'eco di un nuovo e misterioso mondo ignoto agli antichi.



Taci. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

Ascolta. Piove

dalle nuvole sparse.

Piove su le tamerici

salmastre ed arse,

piove su i pini

scagliosi ed irti,

piove su i mirti

divini,

su le ginestre fulgenti

di fiori accolti,

su i ginepri folti

di coccole aulenti,

piove su i nostri volti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

t’illuse, che oggi m’illude,

o Ermione.
Odi? La pioggia cade

su la solitaria

verdura

con un crepitìo che dura

e varia nell’aria

secondo le fronde

più rade, men rade.

Ascolta. Risponde

al pianto il canto

delle cicale

che il pianto australe

non impaura,

né il ciel cinerino.

E il pino

ha un suono, e il mirto

altro suono, e il ginepro

altro ancora, stromenti

diversi

sotto innumerevoli dita.

E immersi

noi siam nello spirto

silvestre,

d’arborea vita viventi;

e il tuo volto ebro

è molle di pioggia

come una foglia,

e le tue chiome

auliscono come

le chiare ginestre,

o creatura terrestre

che hai nome

Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo

delle aeree cicale

a poco a poco

più sordo

si fa sotto il pianto

che cresce;

ma un canto vi si mesce

più roco

che di laggiù sale,

dall’umida ombra remota.

Più sordo, e più fioco

s’allenta, si spegne.

Sola una nota

ancor trema, si spegne,

risorge, trema, si spegne.

Non s’ode voce dal mare.

Or s’ode su tutta la fronda

crosciare

l’argentea pioggia

che monda,

il croscio che varia

secondo la fronda

più folta, men folta.

Ascolta.

La figlia dell’aria

è muta; ma la figlia

del limo lontana,

la rana,

canta nell’ombra più fonda,

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su le tue ciglia,

Ermione.
Piove su le tue ciglia nere

sì che par tu pianga

ma di piacere; non bianca

ma quasi fatta virente,

par da scorza tu esca.

E tutta la vita è in noi fresca

aulente,

il cuor nel petto è come pesca

intatta,

tra le pàlpebre gli occhi

son come polle tra l’erbe,

i denti negli alveoli

son come mandorle acerbe.

E andiam di fratta in fratta,

or congiunti or disciolti

(e il verde vigor rude

ci allaccia i malleoli

c’intrica i ginocchi)

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su i nostri volti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

m’illuse, che oggi t’illude,

o Ermione.

sabato 4 ottobre 2014

Ernest Hemingway: l'Abruzzo in Addio alle Armi

-Devo proprio andare.-Disse
-Posso esserle utile in qualcosa? - Chiese, pieno di speranza.
-No, solo per chiacchierare.
-Porterò i suoi saluti alla mensa.
-Grazie per tutti questi bei regali.
-Niente.
-Ritorni a trovarmi.
-Sì. Arrivederci.
Mi batté sulla mano.
-Ciao. -Dissi in dialetto- Ciao -Ripeté
Era buio nella stanza e l'attendente che era rimasto seduto ai piedi del letto si alzò e uscì con lui. Gli volevo molto bene e speravo che una volta o l'altra potesse ritornare negli Abruzzi. Faceva una porcheria di vita alla mensa e la sopportava bene ma pensavo a come sarebbe stato al suo paese. A Capracotta, mi aveva detto, c'erano le trote nel torrente sotto la città; era proibito suonare il flauto la notte, quando i giovanotti facevano le serenate. Soltanto il flauto era proibito. Perché? Avevo chiesto. Perché alle ragazze non faceva bene udire il flauto di notte. I contadini chiamano tutti Don e quando incontrano qualcuno si tolgono il cappello. Suo padre andava a caccia ogni giorno e si fermava a mangiare nelle case dei contadini. Per loro era sempre un onore. Uno straniero, per cacciare, deve presentare un certificato che non è mai stato arrestato. C'erano gli orsi sul Gran Sasso d'Italia, ma era lontano. Aquila era una bella città. D'estate la notte faceva fresco e la primavera degli Abruzzi era la più bella d'Italia, ma quel che era bello era l'autunno, per andare a caccia nei boschi di castagni. Gli uccelli erano tutti buoni perché si nutrivano d'uva e non c'era mai bisogno di preparare una colazione perché i contadini erano sempre onorati, si mangiava in casa loro.
Dopo un po' mi addormentai.

domenica 14 settembre 2014

Valle della Loira 4: l'abbazia di Fontevrauld

Le scarne decorazioni e le pareti spoglie non attenuano la bellezza anzi, accrescono la sensazione di sontuosità dell'edificio. La luce fa risplendere le alte colonne e le eleva maestose.
Tra i molti edifici monumentali costruiti in Anjou con la pietra di tuffeau spicca per la sua solennità l'abbazia reale di Fontevrauld.
Un'imponente cittadella monastica, tra le più grandi costruite nel medioevo. Fuori dalla mura abbaziali, come un'appendice al grande convento, il paesino si raccoglie attorno ad una piazzetta animata oggi dai turisti seduti ai tavoli dei cafés.
Fondata all'inizio del XII secolo da Roberto d'Abrissel, un carismatico predicatore bretone, Fontevraud accolse monaci e monache in due conventi distinti ma contigui -coabitazione che all'epoca fu fonte di scandalo- ingrandendosi sempre più ed acquistando fama in tutta l'Europa.
Quando Roberto d'Abrissel, decise di riprendere il suo cammino di predicatore, lasciò la guida della comunità ad una badessa, la prima di una lunga successione di nobili dame e di principesse che saranno, fino alla rivoluzione, poste a capo dell'abbazia.
La storia della comunità monastica si interruppe bruscamente, con la Rivoluzione, alla fine del XVIII secolo. Destinato forse ad essere demolito, il complesso di edifici fu, paradossalmente, salvato da Napoleone, che lo trasformò in prigione. Fino al 1963, anno della soppressione, fu considerata una delle prigioni più dure di Francia.
Nelle celle di Fontevrauld passò anche lo scrittore Jean Genet che la evocò in uno dei suoi libri più duri e angoscianti, Il miracolo della rosa scritto nel 1946:
Tra tutti i penitenziari di Francia, Fontevrauld è il più inquietante. È quello che più di tutti mi ha dato un'impressione di sconforto e di desolazione, e so che i detenuti che hanno conosciuto altre prigioni hanno risentito, al solo intenderne il nome, un'emozione, una sofferenza, paragonabili alle mie. Non cercherò di chiarire l'essenza della sua potenza su di noi: che venga dal suo passato, dalle sue badesse, nobili reali di Francia, dal suo aspetto, dalle sue mura, dalla sua edera, dal passaggio dei detenuti in partenza per Caienna, detenuti più malvagi che altrove, dal suo nome, non importa, ma a tutte queste ragioni, per me se ne aggiungeva un'altra: durante il mio soggiorno al riformatorio di Mettray, esso era il santuario verso cui salivano i sogni della nostra infanzia.
Oggi le vestigia del carcere sono scomparse anche se un'esposizione ne ricorda le vicissitudini. L'abbazia trasformata in museo accoglie i visitatori ed anche un lussuoso albergo è stato aperto in uno degli edifici.
Nella navata della chiesa abbaziale quattro figure giacenti ricordano che Fontevrauld è stata la necropoli dinastica dei Plantageneti.
Qui furono sepolti Enrico II e Riccardo Cuor di Leone. Qui terminò i suoi giorni Eleonora di Aquitania, moglie del primo e madre del secondo. La scultura mortuaria la rappresenta nell'atto di leggere.
Immaginiamo la sua mano
Pronta al”giro” delle pagine, letture
Di preghiere, di salmi che Eleonora
Voleva sempre offerti ai nostri occhi
Dove sarebbe stato il poema del “nulla”
Del “puro nulla” raccolto nel libro

Che ognuno inventi un libro
Che lo confidi in pensiero a quelle mani
Che vi mediti la lezione del nulla,
Della morte terminabile, e la lettura
Sia proposta silenziosa agli occhi
Della giacente in attesa, Eleonora
Jacques Roubaud 2013

sabato 6 settembre 2014

Valle della Loira 3: le abitazioni troglodite

Il tuffeau è un calcare giallastro, tipico della valle della Loira. Assomiglia un po' al travertino e al tufo nostrano ed è stato utilizzato anche per la costruzione dei castelli.
Si estrae da cave, lunghe anche centinaia di metri e che poi sono spesso impiegate per altri scopi. Nelle gallerie infatti si coltivano i funghi, -quelli che in Italia chiamiamo champignons- ma esse servono anche da cantina o da stalla.
Lo sfruttamento del tuffeau risale almeno all'epoca romana. La pietra era utilizzata soprattutto per la costruzione di monumenti. La si estraeva soprattutto da giacimenti a cielo aperto, o da ripide pareti evidenziate dall'erosione dei fiumi
Le cave, scavate al livello del suolo sulle falesie servirono, e a volte servono tutt'ora, anche da abitazione. In questo caso la facciata è l'unica parte visibile dell'edificio anche se esistono abitazioni ibride, nelle quali la parte troglodita è completata da uno o più locali esterni.

Nell'Anjou i siti di questo tipo sono molto numerosi, alcuni abbandonati, altri attualmente trasformati in musei ma anche in lussuose residenze private o alberghiere.
Il tuffeau è in effetti un materiale dalle molte qualità: isolante termico e acustico, facile da lavorare.
Passando lungo la Loira, nei pressi di Saumur, si vedono villaggi, trogloditi affacciati sul fiume.
Altre volte però lo scavo del tuffeau è stato fatto non per sfruttare la pietra ma direttamente per ricavarne un'abitazione. E alcuni di questi siti sono meno visibili perché scavati verso il basso; sono i cosiddetti trogloditi “di pianura”.
Dall'esterno appaiono solo i comignoli e il pozzo dell'acqua che spuntano nel prato.
A Forges, una località della cittadina di Doué, a una quindicina di chilometri da Saumur, si può visitare una di queste fattorie troglodite.
Scavata nel 1830, è stata abitata per quasi un secolo da contadini che vivevano praticamente in autarchia.
Avevano creato diversi spazi di vita: abitazioni, cortile, pollaio, forno, cantina...con un ingegnoso sistema di ventilazione e di collegamento con l'esterno.
Anche se molto vicini in linea d'aria, siamo lontani anni luce dallo stile di vita dei castelli rinascimentali.
Attualmente il sito troglodita di Forges è stato ripreso da una coppia di giovani appassionati che ha l'ambizioso progetto di far conoscere e rivivere questa cultura contadina sconosciuta ai più ma che ha modelli simili in molte parti del mondo (Marocco, Tunisia, Cina). http://www.maisonstroglo.com
Tra le tante interessanti spiegazioni lette durante la visita abbiamo trovato questa citazione di Alfred de Vigny che così descrive un incontro con gli abitanti di queste originali abitazioni: Al rumore dei vostri cavalli, la testa ridente di una ragazza spunta dall'edera polverosa, imbiancata dalla polvere dello stradone. Se risalite un pendio irto di vigna, un filo di fumo vi avverte improvvisamente che un comignolo è ai vostri piedi, perché la roccia stessa è abitata e famiglie di vignaioli respirano in quei profondi sotterranei.

lunedì 1 settembre 2014

Valle della Loira 2

Brissac
Il castello di Brissac con i suoi sette piani è presentato come il più alto di Francia. Famoso per aver ospitato nel 1620 l'incontro di riconciliazione tra Maria de Medici e suo figlio Luigi XIII. È una strana costruzione, la facciata rinascimentale è in parte nascosta dai due torrioni medievali, destinati in principio ad essere demoliti. Il progetto fu però abbandonato per mancanza di fondi e il risultato anche se un po' bizzarro è sorprendente e non spiacevole.
Brissac
Il marchese di Brissac (figlio del duca omonimo e da cui erediterà il titolo alla sua morte) abita ancora qui in uno dei piani, modernizzati, del maniero. La guida che ci fa visitare il luogo mostra una certa nostalgia per i tempi fasti poi purtroppo scoppiò la Rivoluzione. Ma fortunatamente i legittimi proprietari riuscirono a recuperare la loro dimora.
Nel salone del castello le fotografie ricordano alcuni ospiti celebri: riconosciamo tra gli altri Sophia Loren. Sulle proprietà del duca si coltiva la vigna e, alla fine della visita le bottiglie di Anjou sono in vendita per i visitatori.
La valle della Loira fu territorio pregevole, giardino di Francia, bramato da molti, ma anche per questo campo di lotte e battaglie. Nel medioevo terra di confine, di guerre e di invasioni. Prima le guerre di successione per la corona d'Inghilterra, poi la guerra dei cent'anni tra Capetingi e Plantageneti per il regno di Francia.
Il fiume segnava un limite difficilmente valicabile: fino al XIX secolo tra Orleans e la foce solo quattro ponti univano le due rive. Re e signori locali fecero costruire roccaforti e castelli per difendere i loro possedimenti.
Montsoreau
Da qui partì Charles d'Anjou, fratello del re Luigi IX (il futuro San Luigi), per contestare agli Hohenstaufen il dominio dell'Italia meridionale e diventare Carlo I d'Angiò, re di Napoli, capostipite di una lunga dinastia.
I severi e austeri castelli della valle della Loira con il Rinascimento furono trasformati in lussuosi palazzi, circondati da altrettanto ricchi giardini.
Montreuil-Bellay
Per più di un secolo, tra il Quattrocento e il Cinquecento, i re di Francia si stabilirono nella regione, facendone il centro della vita politica dello Stato mentre il fiume era asse essenziale per le comunicazioni e i trasporti. Ad Amboise, ospite di Francesco I, finirà la sua vita Leonardo da Vinci.
Oggi i numerosi castelli, immagini da cartolina, formano una sorta di grande parco d'attrazione per turisti affascinati dallo splendore passato di signori e cortigiani.
Saumur