La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 25 dicembre 2010

Tolleranza

Non è, malgrado l'uso e l'abuso che se ne fa, sempre un concetto positivo quello di tolleranza. Non è rispetto, non è simpatia né condivisione. Si tollera (o non si tollera) un dolore, un rumore, qualcosa che ci infastidisce e che, nonostante tutto, magari con un po' di sforzo, si sopporta. Per tollerare qualcuno occorre porsi in una posizione di superiorità. Considerare che l'altro parla o agisce a sproposito; che infastidisce, provoca , aggredisce. In un certo senso si può essere tolleranti solo con gli intolleranti. Paradossalmente infatti fare appello alla tolleranza significa considerare la persona destinataria di questo sentimento impicciona, seccatrice, invadente. E se si provano questi sentimenti verso qualcuno, sentimenti di fastidio e di rigetto, significa che per essere tolleranti bisogna prima essere stati intolleranti.
È giusto quindi invitare alla tolleranza verso gli stranieri, i rom, gli omosessuali? (sono, prese a caso, tre categorie di persone alle quali soprattutto ultimamente il termine è spesso accollato).  
Il discorso che ne deriva è il seguente: Certo, non sono come noi, sono un po' strani, hanno abitudini bizzarre, in definitiva non sono normali, perché la normalità è rappresentata da quelli come me, ma io sono comprensivo, aperto, indulgente (= superiore), dunque io li tollero.  
Brutta cosa.  
Sarebbe meglio rispettare gli altri, considerarli sullo stesso nostro piano, piuttosto che tollerarli.  
E quindi rivalutare l'intolleranza, non verso le persone ma verso azioni e condizioni che non possono e non devono essere accettate: sfruttamento, violenza, malcostume politico...la lista è purtroppo lunga.

Il caso volle che mentre pensavo queste cose mi capitò di sentire qualcun altro che ne parlava.
Antonio GIMÉNEZ MERINO insegna all'Università di Barcellona. Una buona parte del suo lavoro è dedicata all'analisi del pensiero politico-sociale di P.P.Pasolini. È stato questo il tema della sua tesi di dottorato e di un saggio Una fuerza del pasado (Trotta, Madrid, 2003).  
Le sue ricerche si interessano anche ai rapporti tra progresso tecnologico e prospettiva democratica.
In un suo intervento pubblico ha abbordato il tema della tolleranza proponendo un esempio singolare, tratto da un romanzo che in Inghilterra ha avuto un certo successo: La pesca al salmone nello Yemen di Paul Torday (Rizzoli).  
Uno sceicco ha avuto la strampalata idea di introdurre il salmone (di solito abituato a torrenti e a clima ben più freddi), nella penisola arabica. I due protagonisti, un ittiologo e la sua accompagnatrice, stanno lavorando al progetto e si trovano in pieno deserto sotto un sole cocente. Una ragazzina che abita nei paraggi, si avvicina e li saluta:  
La ragazzina […] ha poi versato dell'acqua in due tazzine di latta e ce le ha offerte. E poi ha infilato la mano nel suo vestito e ne ha tirato fuori un pacchetto piatto avvolto in una carta da forno, da cui ha estratto un pane rotondo e sottile come un gran biscotto. Lo ha rotto in due pezzi e ce ne ha dato uno ciascuno, invitandoci con dei gesti a mangiare e a bere. […] Era della vera carità, quella dei poveri che danno ai ricchi.
Ecco dice Giménez Merino un bell'esempio di ciò che è la tolleranza.

sabato 18 dicembre 2010

Francesco Biamonti

Ho visto e ascoltato Francesco Biamonti a Lilla, in Francia, pochi anni prima della sua morte. Era invitato ad un colloquio alla facoltà di Lettere. Tra gli universitari sempre un po' impettiti, lui con il suo berretto e la sua aria dimessa, aveva l'aspetto di un mite pensionato, forse quel ragioniere che avrebbe dovuto essere dopo gli studi. Parlava con lentezza, il respiro già faticoso e difficile. Le sue parole erano pesate ma non pesanti, piuttosto limpide e precise. Capace di citare a memoria Dante e Sbarbaro, Montale e Valéry, Biamonti affascinava per la sua intelligenza e la sua cultura, sorprendenti perché quasi nascoste sotto un velo di modestia e semplicità.
Non è un caso se oltre alla letteratura fosse stata la pittura l'altra sua passione. Si è detto: nei suoi testi parlano i colori. Colori vivi sotto il sole cocente o sfumature tenui, nebbie portate dal vento, movimenti di foglie nel crepuscolo. In una luce che viene dal mare, visto spesso da lontano, dall'alto di quella costa ligure luogo cardine per le sue storie. Il mare che, diceva Biamonti, è un'apertura sul mondo ma è anche un deserto in cui ci si perde e che in questa dualità ha la sua attrazione.
Cézanne è l'artista più amato, che aveva dipinto e ridipinto la Sainte Victoire, mutando l'angolo o il momento del giorno. Così sono i paesaggi dello scrittore, ogni volta gli stessi e ogni volta visti con occhio diverso e con luce nuova, alla ricerca di una precisione sempre più vicina è sempre irraggiungibile. È una natura che consola, dice Biamonti, ma che è anche lo specchio dell'animo umano e, come in Leopardi, meditazione sul senso della vita. Ed è forse l'ammirazione per gli impressionisti e l'interesse per il simbolismo, soprattutto quando si esprime nell'analogia tra i sensi, che lo spinge all'uso della sinestesia, facendo nascere immagini intense e profonde:

desolato crinale che il sole invetrava;

L'azzurro rugoso;

Il mare[...] si squamava d'oro.

Scrittura che non è più prosa e che, nella forma, sembra un richiamo alla poesia-racconto pavesiana di Lavorare stanca. Anche qui la parola è ritmata, l'immagine netta: la frase come un'onda di risacca che poi si srotola e si distende:

Se ne andavano per il cielo, intorno al quarto di luna, certe nuvole leggere

o ancora:

Raffiche di luce opalescente, staccatesi dal largo, calcinavano il sentiero.

Biamonti era un finto contadino. In realtà per lui la terra non era mai stata lavoro, piuttosto passione. Amava parlare - e scrivere - di fiori e di piante, di ulivi che fremono al vento e del contrasto tra il verde abbagliante dei prati e il bianco dei muretti di pietra nel sole. Ma il suo non è uno spazio vuoto. Se non c'è più nessuno per ricordare il nome degli ulivi, se anche le piante soffrono dell'abbandono degli uomini, questi ultimi sono ancora -di nuovo- presenti, vengono da lontano, percorrono sentieri antichi. Territorio di confine, dove il passaggio di clandestini, in cerca di pace e lavoro, si trasforma in racconto mitico; dove gli sguardi e i silenzi assumono forza e legano le persone al di là di frontiere e vite distinte. Perché questa non è una poesia del ripiegamento né dell'abbandono; c'è l'impegno, mai ostentato ma sempre presente. L'attenzione per gli altri è coscienza di chi vive tra gli uomini e conosce i valori: non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine.
Non è però nell'indicazione biografica che bisogna cercare il significato delle sue storie. La citazione è stata ripresa decine di volte: “Mi piace non dire niente; io sono da cancellare; la mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante”. Come Proust, Biamonti ci invita a trovare nel libro e non nell'autore il senso delle parole. Eppure è difficile pensarlo lontano da questo spazio di confine tra Liguria e Provenza, paese tra mare e montagna che riempie i suoi scritti. Forse è anche il desiderio di andare all'essenza che implica la volontà di liberarsi da qualche bagaglio che diventa ingombrante e che appesantisce il pensiero:

Per navigare bisogna alleggerire il naviglio della memoria per non affondare sotto il cumulo dei ricordi e delle rovine.

Così anche i suoi libri sono oggetti esili, il risultato di un lavoro di decantazione che lasciando solo il succo di un pensiero aprono spazi di percezione e che nella sottrazione diventano grandi opere.

venerdì 10 dicembre 2010

Da Castel del Monte al monte Cappucciata

Castel del Monte salendo verso Capo di  Serre
Il sentiero che dal paese va verso Capo di Serre è, almeno nella prima parte, molto poco frequentato. La strada asfaltata che sale da Castel del Monte e che, in sei chilometri, arriva al valico per poi scendere verso Campo Imperatore ne è forse la causa. In molti pensano infatti che non valga la pena di fare a piedi percorsi che l'automobile ha reso inutili. Si sale dunque in macchina fino dov'è possibile, sfruttando anche percorsi difficili e accidentati. Poi solo l'exploit sportivo conta: tempo per arrivare in cima, difficoltà della via percorsa.
Monte Bolza e la statale 17 dal monte Capo di Serre.
Il Corno Grande spunta dalle nuvole

La Statale 17 è una strada facile ed anche bella per i suoi panorami, a volte chiusa in inverno quando c'è troppa neve, ma per il resto senza difficoltà. Permette di attraversare facilmente l'ampio altopiano di Campo Imperatore e rende la vita di coloro che vi lavorano meno difficile. È vero però che la sua costruzione deve senz'altro aver fatto sparire un po' del fascino e dello spaesamento che si provava raggiungendo a piedi il « piccolo Tibet » degli Abruzzi.
Questa camminata volterà però le spalle al grande altopiano e avrà come meta una delle ultime montagne della catena del Gran Sasso, quando il massiccio si addolcisce e si abbassa, prima di scendere bruscamente a morire nelle gole di Popoli.
Una passeggiata facile ma lunga, da Castel del Monte al monte Cappucciata (1802 metri).
Dalle pendici del monte Capo di Serre verso il Vado di Sole.
Al centro è il pianoro del Pacino, in fondo si intravede il mare Adriatico

Dopo aver attraversato verso est la parte più recente del paese di Castel del Monte fino all'ultima casa del  rione orientale, la strada, passando davanti l'edicola di Sant'Angelo, si trasforma in mulattiera e risale le pendici più occidentali delle Riparate. Questa lunga barriera rocciosa dalla cresta uniforme è forse cosí chiamata perché ripara il paese dai venti freddi di nord est. Essa è spartiacque tra l'alta valle del Tirino (qui più precisamente valle del Cornacchiolo) e la valle del Tavo dalla quale però la separano anche la Vallestrina e il Voltigno. All'estremo limite ovest della barriera è il punto più elevato, il monte Capo di Serre appunto, che si stacca leggermente dal filo di cresta fino ai 1771 metri della sua vetta. Prima di iniziare la salita sulle pendici di questo monte si attraversa le valle dello Stincone, la cui fontana, ormai asciutta, è ben conosciuta dagli anziani abitanti del luogo: era uno dei (poveri) punti d'acqua necessari al paese prima della costruzione dell'acquedotto. Poi il sentiero sale più rapidamente. Aggirando verso ovest la montagna, tocca la strada asfaltata verso quota 1600, qualche centinaio di metri prima del valico. Davanti il panorama si apre verso Campo Imperatore e le cime più orientali del Gran Sasso: ben visibili sono il monte Camicia e il monte Prena, più lontano si scorge il Corno Grande. A sinistra, vicinissima, è la piramide del Bolza che sovrasta il paese; Alle mie spalle, sempre di guardia, è la Rocca di Calascio.
Metto piede sulla strada asfaltata quando questa, ad una curva, piega verso nord ma l'abbandono subito e riprendo la salita che a poco a poco si allontana dalla statale per dirigersi verso est. Sulla destra è una pineta di rimboschimento. Il sentiero sfiora gli alberi, poi comincia a scendere, dall'altro lato, verso il pianoro del Pacino a circa 1500 metri di quota.
Il monte Meta dalla Vallestrina
Qui si incontra la mulattiera che, da sinistra, sale dal "rifugio" Ricotta e si dirige verso Vallestrina. Proseguo in direzione di quest'ultima località. Tralasciando il sentiero che ad un bivio va a sinistra, continuo a risalire la valle, attraversando, con qualche tornante, una bella faggeta, poi una pineta. La valle si apre leggermente e la via costeggia la base del monte Meta (1784 m.) che separa la Vallestrina dal Voltigno. Il panorama è chiuso anche sulla destra, dalla cresta delle Riparate che però da questo versante è molto meno erta. È facile ed interessante ad un certo punto, fare una piccola deviazione per affacciarsi sulla valle del Tirino. Una bella vista spazia da Bussi -con dietro il Morrone e la Maiella- a Castel del Monte; si vedono Capestrano, Calascio, Villa Santa Lucia. Il Sirente e il Velino chiudono il panorama.
Dopo qualche chilometro di tenue salita, tra abeti e prati, arrivato quasi sul punto più elevato della valle, abbandono il sentiero principale, che continua verso il Voltigno, e scendo rapidamente per qualche centinaio di metri per raggiunge la sterrata che sale da Villa Santa Lucia. Sul prato, affacciata verso la valle, si trova un'edicola con una madonnina.
In fondo al prato la madonnina di Villa Santa Lucia
È senz'altro meglio evitare i lunghi tornanti di questa inutile strada per tagliare più direttamente verso la meta con una lunga salita sui pendii erbosi e attraversando qualche boschetto. Costeggiando la faggeta si segue la cresta del monte, detta di Cannatina e si arriva facilmente sulla cima arrotondata del Cappucciata.
Dalle pendici del monte Cappucciata, guardando verso il Bolza
La vista spazia in tutte le direzioni, abbracciando l'intera regione, dal Gran Sasso alla Maiella, dal Sirente al mare.
La discesa si farà più ad est. Attraversando la bella faggeta che circonda tutto il piano del Voltigno. Sulla destra è la valle del Nora con, più in basso, la sorgente del torrente e il paese di Carpineto che restano però nascosti alla vista. Dopo un lungo percorso in discesa nel bosco si sbuca improvvisamente sui prati del Voltigno.
Questo bell'altipiano carsico è, a primavera, punteggiato di "laghetti" che si formano con lo scioglimento delle nevi. In estate non resta che quello di Sfondo, così chiamato perché la credenza popolare lo riteneva senza fondo. L'attraversata del pianoro, per più di 3 chilometri, si fa in direzione del vado di Focina (1383 m.) là dove arriva la strada asfaltata che sale da Villa Celiera.
Dal monte Cappucciata: a sinistra si intravede Castel del Monte;
dietro sono monte Prena e, tra le nuvole, il Corno Grande;
al centro il bosco copre le Riparate e scende a destra sul Voltigno

Qualche decina di metri prima del vado però devio a sinistra, per un sentiero che rientra nel bosco. Si continua in questa direzione tra faggi e belle radure verso Valle Caterina (1425 m.).
È nel bosco di questa bella valletta, -una verde radura circondata da una fitta faggeta- che gli abitanti di Castel del Monte venivano a rifornirsi di legna da ardere. Da queste parti, si dice, trovavano rifugio anche i briganti, reduci dalla loro imprese. In effetti, a partire dal 1861, dopo l'arrivo dei piemontesi e la fine del regno delle due Sicilie si formarono bande che agivano partendo da questi boschi, attaccando i paesi o i viaggiatori che per varie vie e fino a Forca di Penne passavano da un versante all'altro delle montagne.
La piana del Voltigno
Sul finire del secolo XVIII, i briganti scorrevano per le nostre province a modo di milizia e immense furono le stragi, le devastazioni e le spoliazioni. Nel 1861 compaiono di nuovo i briganti nelle nostre montagne e nel bosco di valle Caterina[...] Orazio Sulli: Castel del Monte.
In realtà la causa principale del ritorno dei briganti è da cercare nel malcontento contro il nuovo Stato che non solo non manteneva le promesse dell'epopea garibaldina ma continuava a difendere le classi privilegiate e a lasciare il popolo nella miseria. I soldati dell'esercito borbonico ormai abbandonati a se stessi e senza soldo vennero a rinforzare le bande di ribelli.
Valle Caterina
Il 21 giugno 1861, si insediò a Castel del Monte la prima Giunta Comunale del nuovo Regno d'Italia. Il liberale Don Francesco Colella fu nominato Sindaco Affiancato dagli Assessori anch'essi di fede liberale Vincenzo D'Angelo e Francesco Sulli. Le bande brigantesche della zona cominciarono ad effettuare incursioni sulle montagne e nel bosco di Valle Caterina, nel Vado di Siella, a Cannatino, nel Voltigno e nella selva di Barisciano, usando come rifugio la località di Forca di Penne. Mario Basile: Terra Mia.
Uscendo dal Malepasso: monte Camicia e monte Prena
Sta di fatto che avventurarsi nella zona fu per qualche tempo azzardato e forse il toponimo di Malepasso, (1510 m.) che incontro più avanti sulla via, ne è un ricordo, visto che per il resto il passaggio è agevolissimo, senza alcuna difficoltà. Ma a questo punto esco dal bosco e ritrovo, di fronte, le montagne della catena orientale del Gran Sasso. Il sentiero scende per ritrovare il pianoro del Pacino che attraverso risalendo poi verso Capo di Serre. Sono sulla via percorsa già all'andata. È ormai il tardo pomeriggio quando affronto la discesa verso Castel del Monte. Sette ore di cammino non sono poche... ma forse è l'età.
Sulla via del ritorno: Castel del Monte e la Rocca di Calascio

venerdì 26 novembre 2010

Cesare Pavese e l'irrequietezza

All'esame di maturità la prova orale di Italiano comprendeva una breve relazione su uno scrittore scelto dal candidato. In un Istituto di Torino un esaminatore siciliano si trovò a dover ascoltare più di uno studente che voleva parlargli di Cesare Pavese. «Ma cos'è - finì per chiedere- tutto questo interesse che avete qui per Pavese?»
Alcuni credono dunque che occorra essere piemontesi, o vivere in Piemonte, per leggere Pavese. Un interesse dettato da una sorta di campanilismo letterario.
Già perché, completamente a sproposito, al narratore è stato a volte accollato, e forse lo è tuttora, l'aggettivo evidentemente restrittivo di «regionalista». Certo la sua opera è legata strettamente alla sua regione; il paesaggio piemontese delle Langhe e Torino sono intimamente connessi alla poetica dello scrittore. Ed anche la lingua, pur evitando intarsi dialettali, è connaturata a quella del Piemonte. Ma ridurre l'opera di Pavese a questo vorrebbe dire non aver capito l'essenza del suo lavoro; evidentemente le traduzioni in decine di lingue mostrano il contrario.
E poi, sarebbe altrettanto limitativo, anche se meno offensivo, inscrivere la sua opera in un quadro semplicemente neorealista.
Infatti, se si sbarazzano i testi pavesiani da questo primo strato, magari non secondario ma certo un po' superficiale, si scoprono concetti più universali e profondi.
Alcuni di questi trovano il loro fondamento e il loro senso nel meccanismo mitologico dello scrittore. Perché proprio nel mito, dice Pavese, si possono trovare verità essenziali, capaci di spiegare il mondo.
Non è un caso se l'opera che egli ritenesse più importante tra quelle scritte tratti questo argomento e sia la più lontana dai temi della scuola realista.
Dialoghi con Leucò occupa un posto a parte nella sua produzione letteraria. In questo libro, attraverso ventisei dialoghi che mettono in scena personaggi della tradizione classica greca e latina, lo scrittore affronta il tema del mito in modo diretto. O piuttosto, lo utilizza per affrontare questioni essenziali dell'esistenza umana.
È un libro sorprendente, prima di tutto perché il suo argomento è assolutamente fuori stagione in un'epoca (1945 – 1947) in cui il neorealismo domina il panorama letterario italiano e ancor più l'ambiente intellettuale in cui lo scrittore si esprime. Si doveva ricostruire l'Italia, anche culturalmente, parlare dei problemi concreti e della realtà quotidiana. L'impegno di uno scrittore non poteva divagare in concetti anacronistici e superati. Si capisce perché Dialoghi con Leucò fosse guardato con diffidenza. Ma se Pavese rischia la polemica politico-letteraria è perché per lui il tema del mito è fondamentale. D'altronde esso attraversa altri testi della sua opera, anche quelli più apparentemente «neorealisti». L'autore va al di là della semplice riproduzione di immagini classiche, egli crea un schema originale che gli è proprio e che attinge gli elementi nell'habitat che lo circonda. La collina delle Langhe è certo un luogo di lavoro, in cui si muovono contadini dalla vita dura (e partigiani che si battono contro i fascisti) ma, per Pavese, questo luogo è anche un archetipo mitologico, patrimonio di percezioni e verità primarie, non legate alla realtà contingente: il falò, la vigna, il sangue che bagna la terra, la luna, sono elementi di questo sistema simbolico complesso e atemporale.
Osserviamo però che i suoi personaggi devono essere lontani da questa collina per percepirne l'essenza. Il mito per essere vissuto, per assumere concretezza, deve manifestarsi nell'assenza; un'assenza dovuta al distacco, temporale o spaziale. A questo scarto fa seguito il desiderio di trasformare in realtà la percezione. Ed è così che il viaggio, il ritorno, il ricordo o al contrario il sogno di paesi lontani, in una parola l'irrequietezza, sono una componente essenziale della loro vita.
I personaggi dei suoi romanzi, -e delle sue poesie- vivono spesso nell'inquietudide; l'urgenza dell'essere in cammino anima la loro esistenza.

Siamo nati per girovagare su quelle colline (Antenati)

Girerò per le strade finché non sarò stanca morta. (Agonia)

Nostalgia dell'altrove significa reimmersione nel mito dell'infanzia, quando il mondo era ancora da inventare e si potevano immaginare infinite possibilità di vita:
Fu Nuto che mi disse che col treno si va dappertutto, e quando la ferrata finisce cominciano i porti, e i bastimenti vanno a orario, tutto il mondo è un intrico di strade e di porti[...].(La luna e i falò)
Perché l'infanzia è anche il momento nel quale il contatto con il mondo naturale è più diretto, non mediato dalla razionalità. Non solo nei romanzi, ma anche in alcune delle poesie più originali (quelle di Lavorare stanca) i personaggi di Pavese trovano la loro volontà vitale nella possibilità di un altrove. Per questo sono sempre alla ricerca o nel rimpianto di un luogo differente da quello in cui si trovano. Camminano nella città, percorrono le colline, quasi con foga; spesso non sanno dove andare, non hanno mete precise ma sentono l'esigenza, la necessità di muoversi.
Il personaggio narrante de Il diavolo sulle colline vaga in una città dal profilo metafisico, sembra vuota o abitata da ombre; solo la sagoma di una donna alla finestra lascia intravedere spazi di vita. Con i suoi compagni sale, nella notte, sulla collina e da lassù osserva, quasi irreale, la distesa di case e di strade illuminate. Ne La casa in collina queste colline torinesi ricordano le vere, quelle delle Langhe, e permettono di uscire dal mondo reale per ritornare nel mondo del mito della terra contadina e primitiva. Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l'antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d'ifanzia.
Il ritorno è in fondo il tema de Il diavolo sulle colline, in un viaggio che, nell'intenzione del narratore, dovrebbe essere fatto a piedi per rendere più palpabile questa reimmersione nel paesaggio archetipale. Stessa strada, verso le colline, è quella de La casa in collina e di Paesi tuoi.
Il protagonista de La luna e i falò attraversa l'America per scoprire in California paesaggi che gli ricondano quelli da cui è partito; ritrova il dialetto parlando con un camionista di passaggio, anche lui piemontese. Decide di tornare ma quando è nei luoghi dell'infanzia il sogno s'infrange. Non servirà a niente cercare in Cinto - il ragazzino che in qualche sorta ha preso il suo posto - un alter ego capace di far riemergere le immagini passate. Il coltellino che il narratore gli regala e che assomiglia a quello che lui stesso aveva da ragazzo diventa il segno di questa immagine speculare. Ma durante l'incendio Cinto perde il simbolo. La realtà del presente fa scomparire il mito.
Non resterà che il desiderio di una nuova partenza.

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa. (Lavorare stanca)

domenica 14 novembre 2010

La Piola di San Francesco al campo

Da Caselle andando verso il Canavese la strada provinciale scendeva in una valletta e, dopo aver attraversato il ponte sul fiumiciattolo, risaliva immediatamente sul piano. Prima del ponte, sulla sinistra, isolata, c'era la Trattoria del Monferrato. In realtà trattoria non lo era più da un pezzo, magari qualche panino, con salame o, per gli amatori, con tomini; invece come osteria, o piuttosto piola, come si diceva da quelle parti, funzionava ancora e il nome, dipinto sulla facciata, era restato.
Era una massiccia casa ad un piano, la locanda al pianterreno e sopra l'appartamento della padrona. Fuori, sulla sinistra c'era uno spazio delimitato da una siepe e, subito dietro, dagli alberi del bosco. Era occupato da due pesanti tavoli in pietra, uno rotondo e uno rettangolare che, anche in estate, erano usati raramente, sempre all'ombra e un po' umidi.
Gli avventori e, a volte, anche la padrona, preferivano, nelle giornate più calde, sedersi sulle due panchine in ferro che stavano ai lati dell'ingresso.
Salendo tre scalini si entrava nel primo dei due locali della piola. Era il più piccolo, giusto lo spazio per un modesto bancone che reggeva la macchina per il caffè. Davanti un solo tavolo quadrato in formica, appoggiato al muro, vicino alla porta che immetteva nella seconda stanza. Era il tavolo dei clienti solitari che passavano per un caffé o un bicchiere e che si sedevano qui per fare quattro chiacchiere con la padrona. Sull'altro lato della stanza c'erano le scale per il piano superiore e, sotto, la porta per la cantina con un bello e massiccio cavatappi murale a leva. Dietro il bancone il solito specchio con la pubblicità del vermouth e con davanti alcune bottiglie di liquore dai colori esotici e vivaci aperte ormai da mesi, forse anni, ma che raramente servivano. Nemmeno la birra aveva molti amatori e un giorno un giovane cliente di passaggio fece ridere la padrona chiedendole una « spina »: « Oh no ! Quella si trova solo a Torino...Nei bar più grandi! ». Il vino invece era buono. Certo la scelta era abbastanza limitata: Barbera, Dolcetto e, per gli ospiti più esigenti, qualche bottiglia di Nebbiolo. La padrona andava a cercarlo in cantina e poi si fermava davanti al monumentale cavatappi per aprirlo. Gli avventori erano di solito nell'altra stanza, un po' più grande della prima e scaldata da una stufa a legna. Sul muro la bacheca dell'Associazione Pescatori con qualche volantino da tempo ingiallito. In questo locale c'erano quattro tavoli e un vecchio televisore quasi incastrato in un ripiano murale. In inverno, quando il buio scendeva rapidamente e i clienti erano rari, la padrona si sedeva vicino alla stufa e accendeva il grosso cassone a valvole. Le notizie arrivavano da un mondo quasi sconosciuto e a volte, quando le informazioni erano più sorprendenti del solito, la donna commentava in dialetto con un misto di scetticismo e di incredutilà: « Ma sarà vero? »
La padrona era un'anziana signora, vedova da tempo, che aveva ormai abbondantemente raggiunto l'età della pensione ma che ciò nonostante continuava ad occuparsi dei clienti, in verità non molto numerosi. Era piuttosto bassa e di corporatura assai robusta, zoppicava un po' a causa dell'anca che le dava qualche fastidio. Il suo italiano era faticoso, preferiva esprimersi nel dialetto piemontese del luogo e a volte dimenticava che certi clienti di passaggio avrebbero potuto non capirla. Era una donna garbata e sorridente ma sapeva farsi rispettare e non esitava ad alzare la voce quando qualcuno non la rispettava o si agitava più del consentito.
La Trattoria del Monferrato non attirava molta gente di passaggio. La strada era abbastanza frequentata ma gli automobilisti non vedevano la casa che all'ultimo momento, quasi nascosta dagli alberi in fondo alla discesa. E si accorgevano che era un'osteria solo quando erano già davanti perché, a parte la scritta sul muro e la lamiera dipinta con le immagini dei gelati, nessun'altra indicazione ne preannunciava la presenza. Così solo i clienti abituali, abitanti dei dintorni, la frequentavano. Venivano dalle cascine, a volte in bicicletta o in motorino, a volte parcheggiando vecchie auto che, vista la paglia e gli attrezzi che di solito trasportavano, dovevano servire per i lavori nei campi. Si conoscevano tra di loro e la sera facevano una o due partite a carte bevendo un bicchiere. Ma non erano tutti amici, dispute di vicinato o vecchi rancori avevano la vita dura e non era raro vedere qualcuno ordinare un quartino e berselo in solitario. Solo in estate, la domenica pomeriggio, capitava che qualche donna si sedesse, fuori, su una delle panchine per mangiare il gelato. Più che clienti erano amiche della padrona che passavano per scambiare due parole. In genere, a parte quest'ultima, soprattutto la sera c'erano solo uomini, sempre gli stessi, raramente più di quattro o cinque. Contadini ormai anziani dalle mani rugose e dalla voce ancora energica. Spesso entravano dimenticanto di scrostare gli scarponi terrosi e accettavano, sorridendo, le invettive della donna. C'era tra di loro un suonatore di fisarmonica che animava le sagre e le feste dei dintorni. A volte aveva lo strumento nel bagagliaio della macchina e, quando le bottiglie stappate erano un po' più del solito, poteva capitare che si cantasse qualche vecchia canzone.
Da qualche tempo un gruppetto di ragazzi aveva preso l'abitudine di passare ogni tanto la serata nell'osteria. Abitavano nei paesi della piana e, piuttosto di andare nei locali alla moda, dove appunto si beveva birra alla spina, avevano scoperto e adottato la trattoria del Monferrato. Le prime volte la loro presenza non era certo passata inosservata. La stessa padrona si stupiva del fatto che dei giovani potessero fermarsi nel suo locale: quelli del vicinato non venivano mai, preferivano la discoteca. I clienti abituali li avevano visti con diffidenza, un po' come degli intrusi in quello che consideravano il « loro » locale, magari capaci di fare troppo baccano. Ma poi, poco a poco, ci si era accennato qualche saluto e, soprattutto gli scambi in dialetto di un paio dei giovani avevano disteso le relazioni. Ormai erano riconosciuti e accettati. Spesso avevano una chitarra e, dopo aver bevuto qualche bicchiere, succedeva che cercassero di coinvolgere i presenti in una corale improvvisata. Forse la voce si sparse nel circondario e quell'inverno le serate della piola furono più animate del solito.
Un giorno però, il gruppetto trovò le luci spente. I ragazzi andarono altrove pensando ad una chiusura provvisoria. Ma la Trattoria del Monferrato non riaprì più. La padrona aveva fatto una brutta caduta ed era finita all'ospedale. E poi gli anni cominciavano a farsi sentire, così si era lasciata convincere ed aveva deciso di mettersi in pensione veramente.

lunedì 1 novembre 2010

Nicolas Bouvier: La polvere del mondo

Scrittore viaggiatore. Come sempre inserire un autore in un genere letterario è riduttivo. O allora bisogna considerate scrittore viaggiatore anche Proust nella sua stanza tappezzata di sughero. Perché Nicolas Bouvier nei suoi libri parla soprattutto dell'Uomo, delle sue debolezze e delle sue grandezze, dell'incoerenza e della generosità delle sue azioni. Dunque semplicemente scrittore, un bravo scrittore, di quelli che vi aiutano a pensare, capace, grazie alla sua sensibilità, di trasmettere impressioni ed emozioni perspicaci e penetranti.
Nel 1953, quando con il suo amico pittore Thierry Vernet parte verso l'oriente, la guerra è ancora un avvenimento recente. L'Europa, (il mondo), ha appena cominciato la sua ricostruzione e il turismo di massa non è ancora stato inventato. Il loro viaggio, a bordo di una topolino che in salita bisogna spingere, su strade difficili e sconosciute, ha ancora il sapore di esplorazione e di scoperta. Con pochi soldi in tasca, i due cercano di racimolare il necessario vendendo, difficilmente, disegni e articoli per i giornali. Attraversano la Yugoslavia, la Grecia, la Turchia, l'Iran, il Pakistan, prima di separarsi, dopo un anno e mezzo, a Kabul.
Quali sono le ragioni che li spingono a partire? La voglia di conoscere nuovi posti e persone differenti, il desiderio di rinunciare alla monotonia e alla ripetitività del quotidiano ma, in definitiva, semplicemente l'opportunità che si presenta e che permette di concretizzare una fantasticheria: in questo caso del tempo a disposizione e Thierry, in Yugoslavia per un'esposizione e che invita l'amico a raggiungerlo. Così, racconta Bouvier, il fascino che l'adolescente aveva per le carte geografiche, se poi persiste, all'occasione, senza una ragione precisa né un obiettivo ben chiaro, ci mette in viaggio.
Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrarvi che trova in se stesso la propria giustificazione.
Nel libro La polvere del mondo Nicolas Bouvier ritraccia il percorso in un racconto ricco di spunti e di riflessioni sul mondo che lo circonda ma anche su se stesso. Il titolo originale L'usage du monde L'uso del mondo sottolinea anche le nozioni di conoscenza, apprendimento e approfondimento, di trasformazione nel rapporto verso l'esterno ma anche interiore: Crediamo di fare un viaggio, ma ben presto è il viaggio che ci fa, o ci disfa.
L'idea di partenza corrisponde prima di tutto alla volontà di cominciare una nuova fase nella propria esistenza. « Come la seconda vita di un gatto che ne ha sette » dice l'autore nella premessa. Disponibile a lasciarsi alla spalle non solo i legami materiali ma anche le proprie certezze, il viaggiatore parte con lo spirito di chi non pensa al ritorno: il viaggio non è un periplo. Nicolas Bouvier et Thierry Vernet hanno approssimativamente programmato un itinerario,- verso l'India e forse più in là,- ma il percorso e la durata sono lasciati al caso. Ed è così che dopo essere andati alla ricerca di villaggi zingari in Serbia, dopo essersi fermati in Macedonia, attraversano in modo relativamente rapido la Grecia e l'Anatolia per poi restare un inverno intero, bloccati dalla neve, a Tabriz in Iran.
Riuscendo a raggranellare di che vivere, anche se spesso in modo molto parsimonioso, i viaggiatori rinunciano ad agni lusso ma non al più prezioso: la lentezza.
E il desiderio di lentezza, arriva fino al rimpianto e all'aspirazione per un luogo in cui fermarsi, un covo da riempire con la scrittura e le letture. Forse per questo la scrittura di Nicolas Bouvier sembra oscillare tra il desiderio del viaggio e la nostalgia del rifugio.
Il viaggio dà occasioni per scuotersi ma non -come si potrebbe credere- la libertà. Ci fa piuttosto provare una specie di riduzione: privato della sua cornice abituale, spogliato delle sue abitudini come di un imballaggio voluminoso il viaggiatore si trova ridotto a più umili proporzioni. Ma anche più aperto alla curiosità, all'intuizione, al colpo di fulmine.
I panorami, i paesi, le città sono l'intelaiatura del racconto; descritti in dettagli più che in affreschi ma che, proprio per questo, sono più efficaci e parlanti. E i paesaggi non sono mai per Bouvier cartoline illustrate. A volte suscitano in lui sensazioni di avversione e di ostilità: paesaggi che ci aggrediscono e che bisogna abbandonare immediatamente per evitare conseguenze incalcolabili.
Ma altrove generano momenti di grazia, sufficienti a giustificare ore di fatica e di sconforto:
Per un motivo o per l'altro, può succedere di fermare l'auto e di passare la notte all'aperto. Al caldo in una grossa giacca di feltro, un berretto di pelliccia calato sulle orecchie, si ascolta l'acqua bollire sul fornello, al riparo di una ruota. Accostati ad una collina, guardiamo le stelle, i movimenti lenti della terra che se ne va verso il Caucaso, gli occhi fosforescenti di una volpe. Il tempo passa in té scottante, in rare parole, in sigarette, poi l'alba si leva, si distende, le quaglie e le pernici si fanno sentire... e ci si affretta a colare questo sovrano istante come un corpo morto al fondo della propria memoria, dove, un giorno, andremo a ricercarlo. Ci si stira, si fa qualche passo; pesando meno di un chilo, e la parola « felicità » sembra molto insufficente e limitata per descrivere questa sensazione.
Sono però gli incontri, numerosi e differenti, la scoperta dell'altro, la chiave del libro. Innumerevoli ritratti di nomadi, contadini, viandanti, operai, avventurieri, europei sperduti nel cuore dell'Asia, sono tra le pagine più belle del libro. Incontrare l'altro permette il confronto con il mondo, rimette in gioco le nostre certezze ma permette anche di ritrovare similitudini e somiglianze. E l'incontro può anche rivelarsi sorprendente e paradigmatico come quando, sulla strada per Chizaz, nell'est dell'Iran Nicolas Bouvier incontra in un camionista un volto familiare che finisce per riconoscere: Mentre il proprietario stava per soffiare sulla lampada scorsi per la prima volta il suo volto illuminato in pieno e capii cosa mi aveva intrigato: era il sosia di moi padre; un padre un po' invecchiato, annerito, umiliato, ma, in ogni caso, mio padre.
Oppure come nel Saki Bar di Quetta, dopo 1200 chilometri di deserto tra l'Iran e il Pakistan, ascoltano uno zingaro di una tribù della regione
Poi cominciò a cantare, gli occhi bassi, con una voce rauca che passava come un filo di lana rossa tra le note nasali dell'armonium. Sorta di sospiri cantati che ricordavano in modo sorprendente le canzoni sevda della Bosnia. Ritrovavamo l'odore del peperoncino, le tavole basse sotto i platani di Mostar o di Sarajevo, e gli zingari dell'orchestra nei loro completi lisi, tirando sui loro strumenti come se bisognasse urgentemente liberare il mondo da un peso intollerabile. Era la stessa tristezza sfuggente e folle, l'incostanza, il seme di elleboro.[...]
Dopo una giornata faticosissima nel garage, il ritorno dei ricordi era come un paradiso. Il viaggio, come una spirale, saliva e ripassava su se stesso. Ci faceva un cenno, dovevamo solo seguirlo.
Non deve essere facile attraversare il mondo cercandone la chiave e uscirne incolumi. Arriva il momento in cui ci si pone la domanda: e ora? Nicolas Bouvier ha descritto in un altro libro Il pesce scorpione questo sentimento. Arrivati in Afganistan Thierry Verner e Nicolas Bouvier si separano. Thierry va a Ceylon dove l'aspetta la sua fidanzata, Nicolas vuole proseguire verso la Cina. Ma la frontiera è chiusa ed egli si ritrova a Ceylon, solo, senza soldi per andare in Giappone. È come un naufrago, assalito dalla malattia e dalla depressione. Venti anni dopo, nel 1975, per « fare i conti » con questa esperienza, ne fa una narrazione melanconica e appassionante che, in una prosa poetica e desolata descrive la sua discesa fino quasi alla follia e il suo ritorno alla vita.
Tornando da un viaggio siamo come dei galeoni, carichi di pepe, noce moscata e altre spezie preziose, ma tornati in porto, non sappiamo che fare del nostro carico.

Corno Grande del Gran Sasso d'Italia: salita sulla vetta occidentale


Non si conosce con precisione l'itinerario seguito da Francesco De Marchi quando, il 19 agosto del 1573, salì sulla vetta occidentale del Corno Grande del Gran Sasso d'Italia. E probabilmente non fu neppure lui il primo a raggiungere quella cima; nessuno può dire se qualche cacciatore di camosci non l'avesse preceduto (anzi, il suo accompagnatore Francesco Di Domenico, cacciatore appunto, gli aveva assicurato di essere già salito lassù). Fatto sta che il racconto che il capitano bolognese ne fece, appassionante e dettagliato, ritrovato solo nel 1938, ha legato per sempre il suo nome a questa conquista, spodestando nell'immaginario collettivo, il teramano Orazio Delfico, fino ad allora considerato il primo e che era salito sulla vetta orientale nel 1794. De Marchi, grazie alla cronaca della sua impresa divenne in qualche modo, un po' come Petrarca sul Monte Ventoso, uno dei precursori dell'alpinismo moderno.
A 69 anni l'ingegnere aveva alle spalle una carriera militare di esperto in fortificazioni. Conosceva già l'Abruzzo per essere stato al servizio della corte romana dei Farnese che in questa regione avevano dei possedimenti e, a suo dire, l'idea di quella spedizione l'aveva avuta parecchio tempo prima:
Il detto Monte era trenta du’anni che io desiderava di montarci sopra per levar le dispute dell’altezze di altri Monti. Così andassimo d’Aggosto l’anno 1573, il signor Cesare Schiafinato milanese, e Diomede dall’Aqquila. Et andammo ad un Castello nominato Sercio, potemmo trovar nessuno che mai ci fusse stato, dico alla cima, ancorché questo castello sia il più presso verso l’Aqquila. Mi fu detto che vi erano certi Chacciatori di Camocce che vi erano stati sopra, e così dimandai à molti di loro e non trovai se non uno, nominato Francesco Di Domenico, il qual’era stato alla cima un’altra volta, e malamente vi voleva più tornare.
De Marchi riuscì a convincere Di Domenico e fu così che il gruppo partì da Assergi (Sercio) a cavallo, per raggiungere Campo Pericoli (Campo Priviti).Molto probabilmente si diresse verso la « Sella del Brecciaio », seguendo, almeno per un primo tratto, quella che oggi è considerata la via normale, ma non è esclusa un'altra via, magari più vicina all'attuale « direttissima » o al cosiddetto canale Bissolati. Sembrerebbe però che Di Domenico non ricordasse il percorso che diceva di aver già fatto e così la comitiva dovette cercare a lungo un passaggio praticabile per sbucare in vetta, raggiungendola infine dopo 5 ore e un quarto di tentativi. L'impressione però li ripagò di tutte le fatiche.Quand’io fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva che io fussi in aria, perche tutti gli altissimi Monti che gli sono appresso erano molto più bassi di questo.
In effetti attorno al Corno Grande il panorama spazia a 360 gradi sull'intera regione e ben al di là. In questa parte centrale, il gruppo del Gran Sasso svetta con la sua mole dolomitica tra tutte le montagne dell'Appennino, in generale più dolci e arrotondate. Quasi trecento metri separano la cima più elevata dalle altre appartenenti allo stesso gruppo ( il Corno Piccolo 2655 e il Pizzo Intermesoli 3635).
Addunque questo monte è veramente il più alto e il più orrido di tutti i monti d’Italia perche sendo alla cima si vede il Mare Adriatico, il Ionico, et il Tirreno, et se non vi fussero tanti monti trà mezzo si vederebbe ancora il Mar Ligustico.
Oggi la salita al Corno Grande non è più l'impresa epica delle origini e spesso, nelle domeniche estive, c'è folla sulla via. Nonostante tutto, scegliendo il giorno adatto, l'esperienza è magnifica.
Dal versante aquilano si parte a fianco dell'orto botanico e dell'osservatorio. Ci si inerpica per il sentiero che si dirige verso il visibile rifugio Duca degli Abruzzi per poi biforcare quasi subito a destra attraversando in diagonale le pendici del monte Portella. Sulla destra, (verso sud) il paesaggio spazia sull'altopiano di Campo Imperatore, chiuso in fondo dalle coste del monte Bolza, Capo la Serra, Guardiola. Dietro si intravede la cresta della Maiella. L'ampia prateria, ad un'altezza variabile tra i 1500 e i 1700 metri, risale dal nostro lato fino ai 2200 del punto di partenza dell'escursione. Sotto il sentiero il paesaggio è carsico, crepe di pietra bianca intagliano i prati sui quali una mandria di mucche pascola mostrando abile equilibrio.
L'ultimo tratto di sentiero, prima della sella si fa più ripido e roccioso, poi si sbuca sulla cresta che separa questo versante da Campo Pericoli.L'ampio anfiteatro è esposto a nord, come un gigantesco imbuto verso la val Maone. Adesso è deserto. In basso, sotto le pendici del Corno si vede il rifugio Garibaldi. Il più vecchio dei rifugi del Gran Sasso funziona dal 1886, ma la sua posizione fa sì che d'inverno è facilmente sepolto dalla neve. Fu per questo che si costruì il Duca degli Abruzzi, più visibile sulla cresta del Portella. Nell'ampia valle il sole che arriva di sbieco mette in evidenza le doline.
Il sentiero scende a destra verso il monte Aquila ma, quasi subito biforca. A destra, in salita, verso la sommità di questo monte o verso la sella di Corno Grande. La via normale è quella di sinistra che, attraversando come un'iperbole il lato orientale del Campo si inerpica nell'ultimo tratto su un grande brecciaio, salendo fino alla sella omonima. Siamo a circa 2500 metri di quota, la spalla del monte è un luogo di sosta, dove riprendere il fiato; di fronte è l'immensa parete orientale del Pizzo Intermesoli.
Il sentiero riprende a salire, aggirando la montagna verso nord. Alla Conca degli invalidi una traccia si stacca sulla destra: è la via che sale seguendo la dorsale occidentale, più rapida ma anche più esposta. Davanti a noi, con una lunga diagonale, il sentiero principale continua a salire, faticosamente, tra rocce e ghiaia fino alla cresta che protegge il ghiacciaio del Calderone.Le belle pareti del versante nord del Corno piccolo sono ancora nell'ombra. Si continua a salire, su rocce più solide, verso la cima. Il panorama è spettacolare, il sole colora di riflessi dorati le guglie del monte. Il cielo è di cobalto. Un gracchio vola in cerchio lasciandosi portare dal vento.

lunedì 18 ottobre 2010

Vegetariani

Pare che un giorno ad un congresso di vegetariani si contassero una sessantina di scuole di pensiero differenti. Diverse erano le motivazioni, diversi i regimi alimentari. Questo perchè il senso del termine « vegetariano » è assai vago. Non ha niente a che vedere con i vegetali, (per definire coloro che non si nutrono di alimenti di origine animale si usa l'aggettivo « vegetaliano » o più comunemente « vegan ».
Il termine vegetariano invece viene direttamente dal latino e significa « in buona salute » (come d'altronde nell'espressione « vivo e vegeto »). Un vegetariano è dunque colui che vuole mangiare in modo sano. Quanto alla maniera per raggiungere tale scopo, ognuno può scegliere la sua: dieta con pesce, senza pesce, con formaggi, senza formaggi ma con yogurt, verdure crude o cotte eccetera. Certi « vegetariani » poi mangiano anche carni bianche.
Ma fin qui le motivazioni per le scelte alimentari sono semplicemente dietetiche.
Ci sono invece coloro che scelgono di mangiare o non mangiare determinati alimenti per ragioni etiche. In questo caso la scelta è la conseguenza di una riflessione personale che può essere religiosa, politica o morale. A rigor di logica bisognerebbe cercare un altro termine che « vegetariano ». Infatti, è vero che è possibile che un vegetariano sia spinto da considerazioni composte da elementi sia dietetici che etici, (era il caso di Gandhi per esempio) ma, per essere precisi, se il rinunciare agli alimenti di origine animale è dettato solo da una riflessione etica, il tremine « vegetariano » è un po' restrittivo e non molto corretto. Tuttavia esso si è imposto e come tale è accettato.
Torniamo alle ragioni di quest'ultima categoria di persone. Abbiamo parlato di tre motivazioni essenziali:
Sorvoliamo, anche se con rispetto su quelle religiose: la credenza nella reincarnazione in altri esseri viventi è uno dei motivi più sovente evocati per la scelta di non cibarsi di animali. Ma anche alcuni ordini religiosi cristiani e cattolici adottano un regime vegetariano. E l'insegnamento francescano, se seguito nello spirito, porta ad un attenzione particolare al mondo animale.

Tra le ragioni più politiche possiamo accennare a ciò che, fino a qualche anno fa, era chiamato « terzomondismo ». In effetti mangiare carne aumenta lo sfruttamento dei paesi più poveri (per produrre 1 kg di proteine animali occorre sette volte lo spazio necessario per 1 kg di proteine vegetali); le grandi marche di carne in scatola allevano le loro mandrie in Africa; la foresta amazzonica è distrutta per permettere l'allevamento bovino. Impossibile nutrire tutta la popolazione mondiale con delle bistecche o peggio con degli hamburger. Se si vuole veramente ridurre il problema della fame nel mondo occorre riorientare la produzione dall'animale verso il vegetale (ma non per fabbricare i cosiddetti biocarburanti!)
La motivazione morale la ritroviamo in grandi uomini del passato più o meno recente: Plutarco, Pitagora, Ovidio, Leonardo da Vinci, Immanuel Kant, Jean Jacques Rousseau,Tolstoi, Gandhi, Einstein, Aldo Capitini, David-Henry Thoreau, Bertrand Russell tra gli altri.
Un filo diretto lega la loro concezione filosofica: mangiare carne non è un atto naturale. Esso è la conseguenza di una o più azioni violente: non solo quella dell'uccisione finale ma anche quelle insite nel sistema di allevamento o di caccia. L'errore principale dell'Uomo è di considerare gli altri esseri viventi come « cose » a sua disposizione. L'etologia moderna ha confermato ciò che antichi filosofi avevano già intuito: gli animali, secondo il loro sviluppo, sono capaci di sentire dolore, emozioni e sentimenti. La consapevolezza della realtà circostante non è una prerogatica unicamente umana e la « superiorità » intellettuale dell'Uomo non gli dà un diritto inalienabile sugli altri esseri.
C'è poi una questione di coerenza. In effetti tra coloro che mangiano carne, quanti sarebbero capaci di uccidere il bue, il maiale o l'agnello che, il più delle volte, essi cucinano solo dopo che altri ne hanno ridotto il corpo a forme irriconoscibili?
Ora evidentemente se le motivazioni che spingono al vegetarianismo sono di questo tipo è evidente che non si possono fare distinzioni tra gli alimenti se non secondo la domanda: è necessario uccidere o no perchè io possa mangiare questa pietanza. Alcuni si limiteranno ad abolire la carne, il pesce, le uova di pesce (storione o altro) e spesso anche il formaggio, quando prodotto con caglio estratto dello stomaco dell'agnello; altri, più radicalmente, spinti dalla volontà di respingere ogni sfruttamento animale, rinunceranno ad ogni alimento che abbia questa origine, anche a quelli che non sono la conseguenza di un atto violento: uova, yogurt o miele per esempio.
In ogni caso si tratta di una scelta certo impegnativa ma che non implica, come uno stereotipo diffuso lo lascia credere, la rinuncia ai piaceri del mangiar bene. D'altronde la dieta mediterranea, ricchissima di varietà e di sapori, e in gran parte « vegetariana ».
Riassumendo, se il non mangiare carne è una scelta soprattutto etica, essa si inserisce in una filosofia di vita che si manifesterà anche in altri campi. Qualunque sia il peso delle singole motivazioni, essere vegetariani significa voler ridurre il livello di violenza presente nel mondo.
-Occorre lavorare per ridurre il più possibile la sofferenza del mondo, anche se non potremo eliminarla del tutto.
-Il progresso spirituale ci porterà a smettere di uccidere altre creature per soddisfare i nostri bisogni materiali.
-Per me la vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un essere umano. Sarei restio ad ammazzare un agnello per sostenere il corpo umano. Trovo che più una creatura è indifesa, più ha il diritto ad essere protetta dall’uomo dalla crudeltà degli altri uomini. Ma colui che non è degno di tale opera non può offrire protezione. … Per riuscire a vedere faccia a faccia lo Spirito della Verità, universale e onnipresente, bisogna riuscire ad amare la più modesta creatura quanto noi stessi.
-Nel mondo c’è quanto basta per le necessità dell’uomo, ma non per la sua avidità
Gandhi (17 dicembre 1925).

sabato 16 ottobre 2010

Giacomo Leopardi

Una delle questioni che il critico Cesare Luporini pose nel proprio saggio dedicato a Giacomo Leopardi Leopardi progressivo (1980) è quella della valutazione del carattere della sua riflessione filosofica. Secondo lui Leopardi non può essere definito filosofo se si considera il suo mancato inserimento nell'evolversi storico di una riflessione teorica nella quale nuovi pensatori riflettono, reinterpretano e superano i concetti dei loro predecessori, all'interno di un momento conoscitivo-scientifico del « fare » filosofico.
In effetti il suo pensiero ha certo una componente di ricerca teorica ma sempre legata al vivere pratico dell'uomo, all'analisi concreta di situazioni umane e storiche. I due campi si influenzano vicendevolmente così che la scelta dei problemi scientifici è condizionata dal momento pratico e viceversa. Piuttosto un moralista dunque, secondo Luperini, nella linea che va da Erasmo a Montaigne fino a Kierkegaard e Nietzsche.
Leopardi, nei suoi scritti, si scagliò contro il Romanticismo in voga nel suo tempo ma in realtà il suo pensiero si inseriva prepotentemente in questa corrente.
Come le grandi figure del Romanticismo, egli sentì in modo drammatico lo scontro tra realtà storica e quotidianità della vita ma, e qui stava la sua opposizione, rifiutando la concezione estetizzante in voga tra i romantici.
E mentre nei momenti più alti della riflessione europea l'Uomo sostituiva Dio al centro della concezione dell'universo, Leopardi andava già oltre, precedendo in qualche sorta la crisi esistenzialista del XX secolo. Nietzsche riconoscerà in Leopardi un precursore. La finitudine del mondo modifica il rapporto tra le forze interne all'uomo e le forze del di fuori. Le forze esterne non sono più limitabili all'organizzazione gerarchica dell'universo. L'intervento di variabili non più riconducibili ad un ordine immutabile fa scaturire una forma che non è né dio né uomo. Su questo fondamento Nietzsche porrà il problema del « superuomo », capace, secondo la formula di Rimbaud, di farsi carico anche dell'animale e dell'informe.

martedì 12 ottobre 2010

Cartolina

Sulla piazza al mattino fa freddo. Il rumore dell’acqua della fontana risuona nello spazio vuoto. Si sente il ritmo dei passi di un uomo che scende da San Rocco, passando sotto l’arco che si apre nelle mura del paese. Il sole spunta ora e comincia a illuminare, dalla parte opposta, la valle di Natrella.
L'uomo arriva sulla piazza e si siede sugli scalini in pietra aspettando i primi raggi che lo scaldino mentre il fruttivendolo con il suo camion gli passa davanti, facendogli un cenno di saluto. Parcheggia e comincia a scaricare le cassette di frutta, allineandole al solito posto.
Un vecchio, appoggiandosi ad un bastone, scosta la tenda di plastica ed esce dal bar, scendendo con difficoltà i quattro scalini fuori dalla porta. Vede l’uomo seduto e si avvicina salutandolo.
Un vocio di bambini precede il loro apparire. Sono una decina, accompagnati da qualche adulto. Vestiti e zainetti colorati, si fermano vicino alla fontana mentre, dalla parte opposta arriva un pulmino giallo che si ferma li’ vicino. I bambini salgono, e il pulmino si allontana. Per qualche istante torna il silenzio.

giovedì 7 ottobre 2010

Ivan Turgenev: Memorie di un cacciatore

Possiedo questo libro da più di trent'anni.
Stavo tornando al paese, sulle montagne. Il treno, dopo una notte di viaggio, mi aveva lasciato nella città della costa da dove avrei preso la corriera per l'entroterra.
Ero arrivato al mattino e l'autobus sarebbe partito solo nel pomeriggio. Avevo quindi pensato di andare a trovare i miei zii che abitavano lì vicino. Ma non volevo presentarmi troppo presto e decisi quindi di fare una passeggiata sul lungomare. Il cielo era nuvoloso e dopo un po' comminciò a piovere. Sulla piazza vicino alla spiaggia c'erano delle grandi tende bianche e delle locandine annunciavano un mercatino di libri d'occasione. Entrai. Non c'era molta gente a quell'ora. I venditori stavano ancora disponendo i libri tirandoli fuori dagli scatoloni. Curiosavo tra i banchi senza cercare niente di preciso. Avevo tra le mani un libro che non conoscevo, rilegato in finta pelle verde con ghirigori dorati. Sembrava un'edizione di un qualche « club del libro », con un odore di legno, anzi, di matita, che ritrovo ancora oggi. La copertina era senza titolo, bisognava guardare il dorso per trovarlo: Memorie di un cacciatore di Ivan Turgenev. Conoscevo già qualche romanzo della letteratura russa e avevo già sentito parlare di Turgenev ma non avevo mai letto nessuna delle sue opere. Tra l'altro il titolo non aveva niente che potesse attirarmi. Stavo sfogliando il libro quando una ragazza (non so se libraia o cliente) che si trovava lì vicino mi rivolse la parola: « è magnifico! » mi disse.
Così andai a salutare i miei zii con Turgenev nello zaino e da allora ogni tanto ritorno nelle foreste e nei villaggi della Russia del XIX secolo.
Ivan Turgenev è conosciuto come scrittore realista e questo libro può senza dubbio essere inserito nella categoria. Nei 24 racconti qui riuniti egli descrive ed analizza personaggi di ogni strato sociale incontrati nel suo vagabondare nelle campagne russe: il nobile e il contadino arricchito, il vagabondo, il servo e l'intellettuale squattrinato. Il suo sguardo però si attarda piuttosto ad osservare il popolo, la sua miseria e i suoi pregiudizi, ma anche i suoi valori e la sua intelligenza.
Il tono non è mai né aggressivo né perentorio ed il libro non prende mai la forma dell'invettiva (forse proprio per questo, sorprendentemente, non fu censurato dalle autorità russe). Il narratore si tiene in disparte, di lui si saprà molto poco, (solo alla pagina 337 scopriremo il suo nome: Pëtr Petrovič) anche se non è difficile rilevare i tratti dell'autore. Eppure, attraverso la descrizione dei personaggi incontrati, emerge poco a poco una critica lucida e implacabile del sistema sociale dell'epoca.
Un libro « inchiesta » dunque, come si direbbe oggi, che fu inserito da molti critici nella corrente naturalista, ma non solo.
Le passeggiate attraverso boschi e colline sono un vero tuffo nella natura. La caccia sembra solo un pretesto per un'immersione in un mondo nel quale l'uomo sembra perdersi, sorpreso e affascinato da un sentimento panico. Le pagine in cui il narratore descrive il paesaggio che lo circonda sono senz'altro le più belle del libro.
E sorprendentemente, visto l'argomento iniziale, ma sicuramente non a caso, nell'ultimo racconto il narratore si rivolge direttamente ai non cacciatori con un testo nel quale la natura diventa l'unica protagonista e ciò già dal titolo: « La foresta e la steppa ».
La natura ha, nei racconti di Turgenev, le fattezze di un essere vivente, che respira, canta, si muove. Non semplicemente una tela di fondo ma un vero personaggio centrale che partecipa attivamente agli avvenimenti come in Ermolaj e la mugnaia:
[...]È passato un quarto d'ora. Il sole è tramontato, ma nel bosco c'è ancora luce; l'aria è limpida e trasparente; gli uccelli cinguettano ciarlieri; l'erba tenera brilla del vivido splendore dello smeraldo... Aspettate. L'interno del bosco si oscura piano piano; il color porpora del crepuscolo serale scivola lentamente sulle radici e sui tronchi degli alberi, sale sempre più su, passa dai rametti bassi, ancora spogli, alle immobili cime sonnacchiose... Ecco che anche le cime sono offuscate; il cielo rossastro si incupisce. L'odore del bosco diventa più penetrante, soffia appena appena una tiepida umidità; il vento, penetrato nel bosco, si acquieta intorno a voi. Gli uccelli si addormentano, non tutti all'improvviso, ma secondo le varie specie: ecco che tacciono i fringuelli, dopo qualche istante i capirossi, poi i verdoni. Il bosco si rabbuia sempre più. Gli alberi si confondono in compatte masse nereggianti; sul cielo azzurro spuntano timidamente le prime stelline.* [...]
Alberi e foglie, campi e fiori, la pioggia e il vento, lo spuntare del sole o un tramonto in una foresta, ogni cosa ha una reale concretezza. I rumori delle foglie mosse dal vento e la luce del sole che le colpisce, gli odori della terra bagnata dopo un temporale; tutti i sensi sono stimolati.
[...]mi sdraiai e presi ad ammirare il gioco pacifico delle foglie che si intrecciavano sul lontano cielo luminoso. È meravigliosamente piacevole stare sdraiato supino nel bosco e guardare in alto! Vi sembra di guardare in un mare senza fondo che si estende sotto di voi, sembra che gli alberi non si levino dalla terra, ma, al pari di radici di piante gigantesche, scendano verso il basso, piombino in quelle onde chiare come il vetro; le foglie sugli alberi ora sono trasparenti come smeraldi, ora si scuriscono in un verde dorato, quasi nero. Da qualche parte, lontano, in cima a un rametto sottile, una fogliolina isolata si staglia immobile contro un lembo azzurro di cielo trasparente, e lì accanto ne dondola un'altra che ricorda con il suo movimento quello di un pesce nell'acqua, tanto il suo moto appare spontaneo e non provocato dal vento. Le nuvole rotonde e bianche navigano piano come magiche isole subacquee, ed ecco che all'improvviso tutto questo mare, quest'aria radiosa, questi rami e queste foglie bagnati di sole cominciano a fluire, a tremolare di un brillio fuggevole e si leva un balbettio fresco, trepidante simile al fitto sciabordio di un improvviso incresparsi dell'acqua. Non vi muovete, guardate: la sensazione di gioia, tranquillità e dolcezza che avvertite nel cuore non si può esprimere a parole. Guardate: quell'azzurro profondo, limpido fa affiorare sulle vostre labbra un sorriso altrettanto innocente; come le nuvole in cielo, e quasi insieme ad esse, scorrono in lenta sequela nella vostra anima i ricordi felici e vi sembra che lo sguardo si allontani sempre più e vi attragga con sé in quell'abisso tranquillo e splendente, credete che non sia più possibile liberarsi da quella sommità, da quella profondità... *
Il cielo diventa mare, gli elementi si sciolgono e si confondono in un universo fatto di colori di suoni e di emozioni. Il narratore interpella direttamente il lettore e quest'ultimo, come attirato dalla prosa ritmata e melodica, ha l'impressione di penetrare in uno spazio ormai indefinito che lo sottrae per qualche istante alla realtà.
Passaggi di vera poesia, simili nell'effetto a brani di musica sinfonica, capaci di sollecitare altro che la semplice ragione.
*Traduzione di Maria Rosaria Fasanelli

giovedì 30 settembre 2010

Monte Prena (Gran Sasso d'Italia)

Per molti è uno dei pochi luoghi ancora selvaggi del Gran Sasso.
Visto da sud, il monte Prena (2561m.) si stacca dalla piana di Campo Imperatore con la sua mole rocciosa e frastagliata. La cresta si allunga a ovest con la cima dell'Infornace, le Torri di Casanova (a Isola del Gran Sasso chiamate « Cimette di Santa Colomba») fino al Brancastello. Qui il crinale comincia a scendere dolcement fino all'intaglio del vado di Corno (1924m.), importante via di collegamento tra i due versanti della montagna.
A est del Prena il profilo della cresta cambia radicalmente e le forme arrotondate del mammellone del monte Camicia contrastano decisamente con le rocce del monte vicino.
Al chilometro 48 della statale che attraversa l'altipiano una strada sterrata si dirige verso nord-ovest. La carrareccia, lunga più di quattro chilometri, fu costruita negli anni Trenta e doveva permettere, in periodo di autarchia, lo sfruttamento della lignite presente sul territorio. L'arrivo dei Tedeschi, nel 1943 interruppe un progetto di miniera che non sarà mai più ripreso. Ai nostri giorni la strada è in pessime condizioni; ormai da tempo abbandonata alla sua sorte a primavera si trasforma a tratti in torrente.
Dopo aver compiuto, in salita, un'ampia curva verso est, la sterrata arriva ai ruderi di quelli che avrebbero dovuto essere i forni e le baracche per gli operai addetti all'estrazione del bitume. Qualche centinaio di metri prima di queste rovine il sentiero per il vado di Ferruccio si stacca sulla sinistra, inerpicandosi in uno stetto intaglio per poi attraversare un vallone sempre più ampio il cosiddeto Altare di monte Camicia. La via sale a poco a poco sulle pendici sud occidentali di questo monte. A sinistra è la valle della Fornaca con al centro un paio di colli che la separano in due. Su uno di questi, a 1768 metri di quota, era, fino a qualche anno fa, il bivacco Lubrano. Spazzato via da una tormenta oggi non ne restano che le fondamenta.
Risalendo in diagonale, il sentiero si inerpica più rapidamente sboccando poi sulla parte più orientale del largo vado. Da qui lo sguardo spazia sul versante teramano, in fondo è l'Adriatico, verso nord i monti di Campli, quelli della Laga. Dopo aver attraversato, nel senso della lunghezza il vado verso ovest, la via ricomincia a salire in direzione del vallone a nord del Prena.
Si arriva così al Piano d'Albruno e poi, piegando verso sud si risale rapidamente sulla cresta del monte. Ancora qualche metro verso ovest per trovare infine la croce di vetta. Il panorama è splendido, il blu del cielo contasta con il verde dei prati e il bianco delle rocce. Queste ultime formano guglie e pinnacoli, altre sono in sorprendente equilibrio simili a complicate sculture. Lo sguardo spazia a 360 gradi, dal Velino al Sirente, dalla Marsica alla Majella, fino alla costa abruzzese.