La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



lunedì 30 dicembre 2019

Alberto Caeiro, Il guardiano di greggi


Non ho mai sorvegliato greggi
Ma è come se lo facessi
Il mio animo è simile a un pastore,
Conosce il vento e il sole
E va, mano nella mano, con le stagioni,
Seguendo la propria strada, l’occhio aperto.
Tutta la pace di una Natura spopolata
Accanto a me viene a sedere.
Ma sono triste, come un tramonto è triste
Nella nostra immaginazione,
Quando il tempo sconfina, al fondo del piano
E che si sente la notte entrata
Come una farfalla dalla finestra.
Ma è appagamento la mia tristezza
Perché essa è naturale e giusta
Ed è quello che deve essere nell’animo
Quando pensa che esiste
E che delle mani colgono fiori a sua insaputa.
D’un semplice rumore di campanacci
Al di là della curva del cammino
I miei pensieri acquistano gaiezza.
Il mio solo rimpianto è di saperli contenti
Perché se non lo sapessi
Invece di essere contenti e tristi
Sarebbero gioiosi e contenti.
Pensare è scomodo come camminare sotto la pioggia
Quando il vento è più forte e sembra che la pioggia aumenti.

venerdì 13 dicembre 2019

Castel del Monte, ricordo di una nevicata.


Penso che, per me come per molti, sia impossibile, risalendo con il pensiero verso gli anni dell’infanzia, d’identificare un momento preciso in cui situare i primi fatti realmente vissuti e che, avendo resistito alle vicissitudini e alle peripezie della vita sono ancora oggi presenti nella nostra memoria. Più andiamo indietro nel tempo, più ci inoltriamo in un’età nella quale l’esperienza personale – l’evento realmente conosciuto - si amalgama e si stempera nel racconto udito da altri e che, a poco a poco, abbiamo ricostruito nella nostra mente fino ad assumerlo come frutto di una testimonianza viva che ci appartiene.
Così è della prima casa in cui ho abitato della quale non ho molti ricordi. Anzi, sicuramente sono ricordi di seconda mano, di storie raccontatemi da altri più che vissute.
Sono nato in un giorno di autunno ormai inoltrato e ho passato nel paese d’origine solo tre inverni. I miei genitori avevano affittato una modesta abitazione in quello che ancora oggi si chiama “Rione Orientale”. È un nome che mi è sempre piaciuto; fa pensare ad un mondo lontano e un po’ favoloso ma è anche un po’ incongruente associato com’è alla montagna rude su cui era stato costruito.
Ancora oggi i luoghi non sono cambiati; si entra nel paese antico passando sotto l’arco di San Rocco, addossato alla chiesa omonima. La casa è poco lontano, dopo una stradina che, lasciata la piazzetta scende verso il centro del borgo. È in cima ad una scalinata esterna che dal basso verso l’alto si allargava verso due porte, una vicina all’altra. Noi stavamo a sinistra e la porta accanto era quella di una donna che io ricordo anziana ma che probabilmente non lo era. I miei genitori si erano installati lì dopo il loro matrimonio ed era in quella casa che io ero nato.
Mio padre che fino ad allora si era accontentato di mestieri poco proficui, era stato costretto, dopo la mia nascita a cercare un lavoro più redditizio e, come molti altri, era partito per una regione del nord dove a quei tempi le fabbriche cominciavano ad assumere abbastanza facilmente.
Io ero restato con mia madre, nell’attesa di una sistemazione meno precaria e di un ricongiungimento programmato. La vita scorreva tranquillamente, mia madre aiutava le sua che aveva una piccola attività, faticosa e, anch’essa, poco redditizia. Quando usciva per andare da lei o per fare qualche commissione mi lasciava solo e, per evitare che facessi capricci e farmi capire che non dovevo allontanarmi, mi dava un incarico di grande responsabilità dicendomi di fare la guardia alla casa e di non fare entrare nessuno. Così quando una volta la vicina mi chiese di prendere un po’ di brace dalla stufa per accendere il suo fuoco io, perentorio, le impedii di entrare cosciente dell’incarico ricevuto: nessuno era nessuno. Naturalmente quando la donna raccontò la storia a mia madre ci furono commenti ironici nei miei confronti e io, vedendo i sorrisi complici delle due donne, non ero proprio convinto di potermi ritenermi orgoglioso per aver rispettato il mio difficile incarico, cosciente di non aver capito qualcosa che si era tramato alle mie spalle.
Ogni tanto toccava a me “andare a fare la spesa”. Mia madre mi affidava il portamonete con qualche spicciolo e io mi recavo in una delle due macellerie che, vicino alla piazzetta erano una di fronte all’altra. Naturalmente non sapevo contare e dopo aver chiesto quello che mi era stato detto, davo il portamonete alla padrona della bottega che prendeva i soldi corrispondenti. Io ero fiero di questi piccoli-grandi incarichi a tal punto che un giorno, incontrata nel negozio una zia, non la salutai nemmeno, tutto preso dal mio dovere. Naturalmente quest’ultima si offese e mia madre dovette poi scusarsi per il mio comportamento.
Il secondo inverno passato lassù fu particolarmente nevoso.
Eravamo, mi pare, verso fine dicembre, la neve era cominciata a scendere silenziosamente durante la notte e la mattina copriva già ogni cosa. Solo l’impronta di qualche passo rompeva l’uniformità del manto bianco e lasciava apparire le pietre arrotondate dell’antico selciato. Uno zio, il fratello di mia madre, era passato velocemente per assicurarsi che tutto andasse bene e poi era andato nella sua bottega che era poco lontana. Affacciato alla porta, guardavo affascinato quel paesaggio bianco per me nuovo ed intrigante. Più tardi il vento si levò e dovetti rinunciare velocemente a quello spettacolo, richiamato da mia madre che giustamente voleva preservare il caldo della stufa.
Per tutta la giornata la bufera continuò impetuosa, la neve si incollava ai vetri della finestra lasciando la stanza quasi nel buio. Andammo a dormire molto presto, non erano tempi di televisione e la radio stentava ad arrivare fin lassù.
Il mattino seguente la bufera era cessata ma la neve continuava a cadere. Mia madre, che voleva andare a fare qualche spesa, aprì la porta e si accorse stupita che la scalinata era quasi completamente coperta, uscire era impossibile.
La genitrice non si perse d’animo. Non avevamo molte riserve ma di farina ce n’era abbastanza. Chembrenne (fare la pasta a mano) fu dunque la soluzione che le venne facilmente et ovviamente in mente.
Passammo così due giorni, completamente isolati e senza notizie del mondo esterno. Il terzo giorno finalmente spuntò il sole. Aprimmo la porta. L’aria era tersa e il cielo brillava di uno splendido blu, ancora più acceso dal contrasto con lo spesso manto bianco che copriva ogni cosa. La scalinata era completamente coperta e la neve arrivava quasi alla soglia della nostra casa. Era impossibile attraversare quello spazio.
Fu lo zio a venire da noi. Sentimmo bussare alla porta e lo vedemmo, sorridente e felice, con ai piedi un paio di sci, con i quali aveva attraversato il paese ed era arrivato fino all’uscio superando agevolmente e senza sforzo il dislivello che in tempi normali era il piano inferiore.

giovedì 5 dicembre 2019

Gran Sasso d'Italia, Sella di Fontefredda

È in Abruzzo che è nata l’idea di un movimento wilderness italiano che avesse come scopo la salvaguardia dei “luoghi selvaggi” ancora presenti nella penisola.
E probabilmente non è un caso. Forse suo malgrado – la regione è stata ed è ancora un po’ snobbata dal turismo di massa – gli spazi naturali sono qui numerosi e vari. Ma già nel lontano passato questa terra era considerata come uno spazio selvaggio e inesplorato. Da sempre essa ha accolto monaci ed eremiti provenienti anche da altre regioni e che hanno trovato tra le sue montagne e le sue valli, soprattutto quelle della Majella, luoghi impervi e solitari nei quali insediarsi.
È anche vero che l’ambiente montano, e questo vale in modo più generale, rappresenta un luogo emblematico per chi cerca spazi preservati e, se non inesplorati, almeno incontaminati. Chi va in montagna lo fa spesso e soprattutto per ritrovare quel contatto diretto con la natura che altrove manca.
L’Abruzzo è una regione relativamente piccola ma ricca di aree preservate e non è un caso se molti film ambientati in tempi o continenti lontani hanno questo territorio come tela di fondo.
Il massiccio del Gran Sasso, per le sue caratteristiche geografiche e geologiche, è da questo punto di vista un luogo significativo e affascinante. Attorno all’imponente roccia del Corno Grande, spazi vari e multiformi appagano la vista. La piana di Campo Imperatore, così isolata, anche visivamente da ogni centro abitato, può riecheggiare epopee medievali o le ampie praterie americane. Certo le dimensioni non sono equivalenti e, anche adottando la definizione di “Piccolo Tibet” che Fosco Maraini trovò con successo per questo altipiano, non possiamo dimenticare che poca cosa sono i venti chilometri di lunghezza del Campo confrontati ai 2500 chilometri dell’altopiano tibetano. Ma, anche se la presenza di una strada asfaltata abbastanza comodamente percorribile, toglie al sito una parte del suo carattere “selvaggio”, per il camminatore che vi si avventura è facile provare impressioni ed emozioni di piacevole meraviglia. (vedi qui)
Qui lo “spaesamento” è sicuramente il frutto dalla sensazione di dismisura che si apprezza nel momento in cui un punto di riferimento conosciuto appare sproporzionato rispetto alla vastità dell’ambiente circostante. Questa sensazione è poi accentuata dai suoni, sorprendentemente vicini quando, portati dal vento, che contrastano con la lontananza della loro origine.
Altre zone sono meno estese e meno immediatamente evidenti ma forse proprio per questo altrettanto o forse, più suggestive. Il vallone d’Angora (o d’Angri) per esempio, con la sua vegetazione rigogliosa e la sua avifauna specifica. Di accesso non facilissimo, la forra nasconde scorci seducenti per i quali il termine “selvaggio” non è certo un luogo comune. (vedi qui)
Anche le pendici del versante sud del monte Prena attraggono per il loro carattere proprio. Qui è spazio roccioso ricco di pinnacoli, rocce in bilico e di altre sculture naturali a costituire un ambiente dolomitico, lunare. (vedi qui)
Io vorrei suggerire un luogo meno immediatamente spettacolare, forse perché meno impervio e nascosto: la sella di Fontefredda. L’ampio valico erboso si scopre salendo la costa tra i monti Tremoggia e Siella. Il sentiero che sbuca dalla pineta di Fonte Vetica, si inerpica velocemente anche con stretti tornanti, per poi allungarsi verso un ampio pratone, sul quale spesso domina il vento. Si arriva così alla sella. Per la maggior parte degli escursionisti questo è solo un passaggio, tra i due versanti della catena montuosa o, più sovente, per affrontare la salita verso il monte Camicia. Verso occidente è il grande panettone del monte Tremoggia dal lungo crinale spesso punteggiato da numerose stelle alpine, verso oriente il meno imponente monte Siella. Un ampio vallone precede l’arrivo sulla cresta. Qui il vento è più impetuoso, risale dalla costa adriatica, spazza l’erba e fischia. Occorre fermarsi più di un attimo, lasciare correre lo sguardo dall'erba più vicina fino alle creste e poi più lontano, là dove gli altri massicci montuosi della regione chiudono la vista. Ed è questo andare e venire dello sguardo, tra il concentrarsi sull'immediata vicinanza e il perdersi verso l'azzurra lontananza a riempire lo spirito.
Chiunque abbia viaggiato in luoghi selvaggi avrà provato qualcosa del genere, una fugace, cocente percezione del disinteresse del mondo. In piccole dosi entusiasma. Provata per intero annichila. (Robert Macfarlane)