La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



martedì 24 luglio 2012

Medioevo in Umbria

B. Gozzoli: S. Francesco predica agli uccelli (particolare) Museo civico di Montefalco

Ciò che sorprende in questa regione, ma di certo si potrà osservare anche altrove, è la presenza del medioevo. Presenza che non è solo nelle vestigia, qui meglio conservate che altrove: borghi, mura, torri, pievi, toponimi, ma richiamata e rifiorita in decine di manifestazioni, celebrazioni, competizioni, certami, feste popolari.
Senza citare le più famose, ogni cittadina, ogni villaggio ha la sua: Palio della spada, Gioco delle porte, Palio del fantasma, Corsa all'anello, Palio dei terzieri...
Spesso il sacro ed il profano si associano, (a Gubbio per esempio con la corsa dei ceri) sempre però riportati ad un'epoca storica non meglio definita che medievale.
È un medioevo da favola, lontano da una realtà che, per la maggioranza della popolazione del tempo doveva essere molto dura: violenze, soprusi, miseria, fame, epidemie erano il pane quotidiano della gente, almeno nei periodi più bui. Certo perché il termine medioevo ingloba mille anni di storia. È molto riduttivo appiattire un periodo così lungo e complesso in un'immagine fissa.
Ma da dove viene il fascino per questo mondo mitico, fatto di mestieri tradizionali, di sfilate in costume, di piatti rustici e di simulacri di tornei e giostre?
Forse quello che si cerca è un ritorno al piccolo. «Nuclei mondo» che ruotavano attorno a spazi estremamente limitati. Il forestiero era colui che veniva da fuori della porta del villaggio dove, al di là dei campi e dei pascoli, cominciava la foresta appunto. Lo spazio vitale era, almeno così ci appare oggi, a misura d'uomo. Paradossalmente, da quando il globo terrestre ha perso quasi completamente l'inesplorato e lo sconosciuto, il piccolo ambiente limitato in cui la maggioranza della gente vive e opera quotidianamente sembra meno sicuro perché il "fuori" appare più incombente e incontrollabile; appaiono più numerose le deflagrazioni possibili, capaci di scuotere l'ordine dello spazio vitale.
Così si rimpiange un tempo in cui si conosceva, si credeva conoscere, tutto l'universo. E l'universo era il villaggio, i suoi abitanti, i suoi animali. Anche il soprannaturale aveva aspetti concreti, si poteva toccare con mano.
Oggi, nelle angosce e nelle fobie degli uomini, paradossalmente, rassicura l'immagine staccata da un affresco di chiesa gotica, il concreto del colore e della materia che si può toccare.

martedì 10 luglio 2012

Da Tagliacozzo a Balsorano lungo la Val Roveto (2)

Civita d'Antino ebbe il suo momento di fama tra la fine del IXX e l'inizio del XX secolo. Nel 1877 Kristian Zahrtmann un pittore danese in viaggio in Italia, si innamorò di questi luoghi, facendone la sede di una scuola d'arte estiva che attirò altri artisti scandinavi e ispirò una stagione creativa molto ricca. Il terremoto del 1915 che distrusse la Marsica mise fine all'esperienza. Oggi una targa la ricorda all'ingresso del paese.
Da Civita torniamo al fondovalle e proseguiamo il nostro viaggio. Brevemente, perché ci fermiamo quasi subito nella riserva naturale di Zompo lo Schioppo. 
Siamo nel territorio del comune di Morino. Nella riserva naturale si può ammirare tra l'altro una suggestiva cascata che dà il nome al parco a che è considerata, con i suoi 80 metri, la più alta dell'Appennino centrale. 
Nella riserva, gestita da Legambiente è possibile fare belle e facili passeggiate. Ci dirigiamo verso la cascata attirati dal rumore. Il nome vuole in effetti fare riferimento al fragore dell'acqua che zompa dalla montagna e schioppa come una fucilata (almeno è questa la poetica spiegazione del toponimo) fenomeno che fu ammirato anche da Alexandre Dumas nel suo viaggio in Italia. Noi ci accontentiamo di osservarlo da lontano.
Arriviamo a Balsorano vecchio che è già quasi sera. Il paese, ricostruito poco lontano, fu distrutto dal terremoto del 1915, il più catastrofico (fece più di 32000 morti) tra i molti che continuano a colpire la regione.
Alcune case sono rimaste come allora, come in una tragica istantanea fotografica, quando, in qualche secondo la vita quotidiana degli abitanti fu interrotta, per molti definitivamente.
Nella sera, quando le ombre si allungano e un silenzio più profondo si installa, il senso di abbandono è più forte. 
La natura ha quasi riconquistato il luogo. A tratti i vecchi muri diroccati invasi da piante e erbe, assumono un aspetto naturale, come speroni rocciosi staccatisi dalla montagna. 
Un cane che abbaia lontano e una luce che si accende in una delle rare case ancora abitate sono i soli segni di vita.
Sul paese il castello Piccolomini incombe, massiccio.
Da questo lato corona lo sperone roccioso con la sua solida e imponente massa merlata. Le mura sembrano sorgere naturalmente dalla roccia sottostante che ora appare rossastra.
Il castello, oggi adibito ad albergo ristorante, si può visitare, attraversando il giardino rigoglioso e decadente che si trova sull'alto lato. Ma noi siamo arrivati troppo tardi, il cancello è ormai chiuso. Ci sediamo su un banco e mangiamo il formaggio immeritato: troppa grascia avrebbe detto l'amico incontrato qualche ora prima al momento dell'acquisto.
Poi prendiamo la via del ritorno.

mercoledì 4 luglio 2012

Da Tagliacozzo a Balsorano lungo la Val Roveto (1)

In questa parte della Marsica i monti Simbruini separano l'Abruzzo dal Lazio. Fino all'unità d'Italia era qui che passava la frontiera tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Ancora oggi è possibile trovare i cippi di confine in pietra con gli emblemi dei due Stati. Meno impervia delle altre catene montuose della regione, quella dei Simbruini è coperta di boschi, soprattutto faggete, interrotti da ampie radure destinate al pascolo. Sul versante nord orientale nasce il fiume Liri che lungo la valle Roveto scorre verso la Ciociaria. 
Da Tagliacozzo prendiamo la strada che si inerpica fino ai 1500 metri della frazione Marsia. L'aspetto dell'abitato non è certo dei più attraenti: un grande palazzone (albergo?) villette sparse molte costruzioni dal dubbio gusto o mai terminate; ovunque un senso di abbandono e di degrado.
Ci allontaniamo rapidamente dallo scempio per una bella passeggiata nei bei boschi circostanti. Ogni tanto, da un'apertura tra gli alti alberi, appare un brillante panorama sulla valle sottostante. I pianori sono piacevoli e soleggiati, spesso di un verde vivo e rigoglioso, ogni tanto qualche traccia di cinghiali che anche qui sembrano essere molto numerosi.
Torniamo verso Tagliacozzo e prendiamo la strada che porta a Petrella Liri, una frazione della vicina Cappadocia, non lontano dalle sorgenti del fiume. Un cartello indica l'ingresso per le grotte «di Beatrice Cenci» protagonista del truculento romanzo di Francesco Domenico Guerrazzi. In realtà il Guerrazzi, nella sua narrazione, si era sbagliato di paese. È a Petrella Salto, in provincia di Rieti che la vera Beatrice fu segregata dal padre... ma tant'è, si direbbe che la letteratura sia più reale della storia.
Continuiamo il nostro viaggio verso Caspistello. Quasi incastrato tra i Simbruini e la dorsale del Fucino il paese si presenta in un suggestivo panorama ricco di colori contrastanti tra il verde che lo circonda. 
È una valle assai stretta, ricca di acque e dalla vegetazione rigogliosa. Anche i borghi, quelli più vicini al fondovalle, sembrano piuttosto animati e vivi. Anche qui l'emigrazione è stata forte ma non come nelle zone più impervie della regione e non ha da desertificato i luoghi.
Ci fermiamo per comprare pane e formaggio in un negozietto sulla via. Un anziano (ma nemmeno troppo) signore presente nel locale si lancia in considerazioni filosofiche sui tempi andati quando si stava peggio... ma si stava meglio, il formaggio non si comprava a etti ma a grammi eccetera eccetera. Chissà, probabilmente in questi casi si rimpiange solo una giovinezza che più non è.
Dopo aver superato Civitella Roveto ci allontaniamo dal Liri per risalire la strada che porta a Civita d'Antino, adagiata su un pianoro, a quasi mille metri, sulle pendici del monte Alto. È uno dei rari borghi situati sul crinale sinistro della valle. Alla caduta dell'impero romano, quando le popolazioni anche qui si «arroccarono» per sfuggire alle incursioni barbariche, gli abitanti della valle scelsero piùttosto il versante destro, senz'altro perché più ricco di sorgenti.