La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 26 marzo 2011

Il grande silenzio

Nel 1984 il regista tedesco Philip Gröning prepara il progetto per un documentario sulla Grande Chartreuse, il monastero benedettino sulla montagna omonima nel Delfinato francese. Scrive ai monaci per avere l'autorizzazione. Nel 1999, dopo quindici anni, riceve la risposta e l'accordo della comunità.
Il film si può fare ma a determinate condizioni: nessun commento, nessuna musica aggiunta, nessuna illuminazione artificiale; il regista sarà solo a fare le risprese. Philip Gröning accetta, anche perché questi vincoli in realtà corrispondono alla sua idea di partenza per il film.
Così passerà sei mesi nel monastero, condividendo la vita dei suoi abitanti.
Ogni monaco partecipa alle funzioni collettive, ha un tempo personale di preghiera e di meditazione ed ha poi un attività personale: falegname, giardiniere, sarto. L'attività di Gröning sarà la realizzazione del documentario. Filmerà ore ed ore a volte alla luce di una candela o a quella del fuoco di una stufa. Il risultato sarà un film di una grande intensità e di una bellezza semplice e spoglia.
La lenta ripetizione delle azioni, le lunghe sequenze su attimi di immobilità, richiedono allo spettatore la disponibilità ad un'esperienza sicuramente inconsueta. Senza questa disponibilità l'unico sentimento ad imporsi sarà la noia. Ma se si accetta di condividere, anche solo attraverso le immagini, il quotidiano dei monaci senza a priori, e al di là dell'aspetto religioso, si rimarrà sorpresi e affascinati dal film.
Un silenzio cha sembra venire dalla notte dei tempi e che il regista racchiude in quasi tre ore di documentario. Solo i rumori della natura circostante (ruscello, vento, uccelli), quelli della vita quotidiana, i canti durante le funzioni e qualche raro parlottio, fuori dalle mura del monastero, lo interrompono.
Le stagioni si succedono, con il ritmo lento della preghiera e del lavoro. Philip Gröning integra questa ripetizione nel montaggio del film, segue, ad uno ad uno, i monaci nella loro giornata. Le didascalie, che appaiono di tanto in tanto, non sostituiscono le parole assenti, esse si ripetono uguali, come il succedersi delle preghiere e delle azioni. Il regista attarda il suo obiettivo su dettagli che riempiono lo schermo: una goccia d'acqua che si stacca da un piatto appena lavato, ancora acqua, quella dell'acquasantiera, la fiamma di una candela nel buio della notte. In un mondo che sembra essersi fermato solo qualche oggetto, quasi anacronistico (un computer, le bottiglie d'acqua di plastica) situa l'azione nella modernità.
I monaci sono osservati nella loro umanità, non come esseri trascendenti. E così li vediamo durante un'escursione giocare sulla neve come bambini, o discutere intensamente, fuori dalle mura, sulla necessità di lavarsi le mani prima delle funzioni. Una serie di primi piani dei loro volti sospende l'azione del film. Nel silenzio e nell'immobilità questi dicono più di molte parole, rivelando caratteri e umori.
Le immagini di fiori, neve, cielo stellato, nuvole, fanno da contrappunto a quelle del monastero.
La fissità della macchina da presa è necessaria perché evita allo spettatore il sentimento di intrusione; non si ha mai l'impressione di violare uno spazio privato. E dell'umano mondo estrerno (un gruppo di turisti in visita ) filmato da lontano, le voci non sono che brusio indecifrabile, così da sottolineare la distanza che separa questo luogo di solitudine dalle vicende terrene.
Filmando la vita dei monaci Gröning si era fissato come scopo quello di osservare come la struttura del tempo può cambiare chi ha scelto una vita di preghiera ripetuta perpetualmenete, in un luogo che non si lascerà mai. Alla fine dell'esperienza egli stesso sente di essere cambiato:
Ogni nozione di peccato, di colpa e di redenzione è assente. Ci sono solo grazia, gratitudine e leggerezza. Se ne esce liberati dalla paura, dominati dalla fiducia. Non si ha nemmeno più paura di morire.

venerdì 18 marzo 2011

Vallone d'Angora

Nel 2010 l'amministrazione del comune di Farindola ha lanciato un appello per la salvaguardia del fiume Tavo. Lo scavo del traforo del Gran Sasso che ha provocato un notevole abbassamento della falda acquifera e le captazioni per rifornire gli acquedotti del pescarese lo hanno praticamente prosciugato, riducendolo ad un rigagnolo.
Farindola
Questo corso d'acqua ha la sua sorgente nella parte più orientale di Campo Imperatore, in località Pietrattina, e scorre nel vallone d'Angora uno dei luoghi più belli e suggestivi tra queste montagne.
Il vallone è un vero e propio canyon, scavato dalle acque di scolo del ghiacciaio che in tempi remoti occupava la piana. 
Spettacolari pareti rocciose e una folta vegetazione sono il rifugio per uccelli rapaci che qui hanno trovato un luogo isolato e protetto.
Vicino al vado di Sole, il vallone d'Angora (o d'Angri) è la sola possibilità di «uscita» dall'altopiano in questa parte orientale che non sia un valico. 
Dal vado di Sole
Si può lasciare l'auto in prossimità del non lontano rifugio San Francesco. Il percorso però, quando si scende nel canyon, non è facile. Il sentiero è poco visibile e a tratti abbastanza impervio. Rarissimi sono i camminatori che si avventurano da queste parti e d'altronde il più delle volte lo seguono nell'altro senso, salendo da Farindola per sboccare su Campo Imperatore.
Nel vallone d'Angri
Ricordo che un giorno accennai ad un amico, abitante di Castel del Monte, la mia intenzione di fare una passeggiata nel vallone:  
E pazze -mi disse- èllejo ce ijaòme a arruuà re cetegligle quande nascijane che quà defétte brutte.
(Sei matto, laggiù ci andavano a buttare i bambini quando nascevano con qualche grave imperfezione.)
Pascoli a Pietrattina

sabato 12 marzo 2011

D.H.Lawrence: Paesi etruschi

Qualche anno fa, più precisamente nel 2006, si scoprì che alcune delle tombe della necropoli etrusca di Veio erano abitate. Occupate abusivamente da qualcuno che, in mancanza di meglio, le aveva trasformate in precarie abitazioni.
I giornali parlarono di uomini come topi con un misto di incompren- sione e di disprezzo. Certo non deve essere divertente vivere in tali condizioni, non fu certo una scelta di vita. E quelle tombe erano già state profanate da tempo, saccheggiate di ogni cosa preziosa dai proprietari dei terreni o svuotate per riempire i musei.
Chissà che cosa ne avrebbe pensato David Herbert Lawrence, che era stato da queste parti e che aveva visitato le necropoli nel 1927.
Lo scrittore inglese, viaggiatore indefesso, aveva già fatto il giro del mondo e soggiornato più volte l'Italia. Nel 1926 si era stabilito a Scandicci, anche alla ricerca di un clima più salubre per la tubercolosi che lo aveva colpito.
Il suo interesse per gli etruschi non era recente. Lawrence più che da scienziato li osservava come un appassionato, un colto dilettante capace però di approfondire i suoi studi come i migliori esperti. Le sue teorie sull'interpretazione delle loro sculture e pitture sono state a volte discusse e contestate ma quello che nonostante tutto colpisce e che attrae è la sua volontà di ridare un aspetto vivente e soprattutto un senso alla storia di questo popolo.
Del viaggio del 1927, fatto in compagnia dell'amico Earl Brewster, Lawrence scrisse un resoconto, pubblicato nel 1932 in Inghilterra, dopo la sua morte quindi, e solo nel 1985 in Italia con il titolo Paesi Etruschi.
Era certo un sogno, forse uno degli ultimi di un romanticismo ormai fuori tempo, quello di voler ritrovare gli etruschi nell'Italia degli anni Venti. Perchè in definitiva era questo lo scopo del pellegrinaggio selvaggio che lo scrittore aveva intrapreso per visitare le necropoli di Cerveteri, Tarquinia Veio e Volterra.
Lawrence vedeva negli etruschi non il popolo rozzo e arcaico, sconfitto e assimilato dal superiore mondo romano, descritto dalla maggior parte degli storici, al contrario, per lui queste genti, la cui origine resta un mistero, avevano avuto una cultura complessa, ricca di simboli e di riferimenti, i cui valori multiformi non si erano totalmente spenti con l'arrivo della Roma imperiale.
Per questo apprezzava tra i dipinti delle tombe di Tarquinia, piuttosto l'«ingenuità» arcaica e considerava meno importanti quelli che secondo lui erano già toccati dall'infusso romano.
Per Lawrence la civiltà etrusca non era mai scomparsa completamente. Come un fiume sotterraneo aveva continuato ad irrigare la cultura dei popoli di questa parte dell'Italia centrale: negli affreschi di Giotto si intuiva, secondo lui, l'eredità artistica di quel mondo.
Ma nell'Italia del 1927 il regime di Mussolini si è ormai installato al potere. Mentre Lawrence è a Volterra il podestà sostituisce il sindaco e lo scrittore sopporta a malinquore quella che, a suo parere, non è che l'ennesima, ingiusta prevaricazione della Roma imperiale sulle genti italiche. È stizzoso dunque, quando, durante il suo viaggio, si trova ad assistere a queste cerimonie fasciste. Perché non salutano all'etrusca piuttosto che alla romana?
Eppure proprio questa concezione della cultura, che lo porta a rigettare la dittatura, sfocia in un atteggiamento considerato da alcuni ambiguo: l'idea di un popolo possessore di una superiorità intrinseca, genetica si direbbe oggi. Sono, si disse, equivoci riferimenti a concetti razziali e una visione elitista della storia intrisa di un irrazionalismo anti illuminista.
Giudizio forse troppo severo.
Resta il racconto di quel viaggio. Un racconto suggestivo perché non da erudito ma da scrittore, osservatore attento non solo del mondo del passato ma anche degli uomini a lui contemporanei. Attento e critico ma senza la vena di altezzosa superiorità che si ritrova a volte nei resoconti dei viaggiatori del nord Europa.
E infatti il racconto di Lawrence finisce a Volterra, con un ultimo sguardo non sul mondo antico ma sulle moderne carceri della città. La storia di due detenuti che avevano scolpito due copie delle loro teste, mettendole nelle brande per ingannare i secondini mentre loro scavavano la via di fuga: Il direttore, che amava molto il suo ostello di malfattori perse il posto, anzi, fu buttato fuori a calci. Strano anche questo. Dovevano dargli un premio per avere due pupilli così in gamba, scultori di pane.

sabato 5 marzo 2011

Camminare per vivere

 Né città né campagna. La metropolitana ha qui un lungo tratto aereo. Passa su un nastro di cemento sostenuto da pesanti piloni e interrotto dalla stazione, anch'essa sopraelevata. Sparsi qua e là palazzotti di mattoni rossi e di vetro, sedi di ditte e società varie. Un ristorante, aperto nella zona per accogliere i molti impiegati che lavorano nei dintorni. Qualche prato e un intrico di strade e autostrade con gli immancabili centri commerciali nei paraggi. 
Fu nel 1970 che si decise la creazione di una nuova città. Nuova solo in parte perchè si riunirono tre comuni che già esistevano. Si costruirono altri quartieri, molte imprese si installarono nella zona. Ma, sul vasto territorio, le zone urbane continuarono ad essere separate tra loro da ampi spazi: prati, parchi, campi coltivati. Ancora oggi è una città in cui il solo vero centro è un grande supermercato.  
Né città né campagna dunque. Soprattutto dopo le ore di chiusura degli uffici, rari sono i pedoni. Si è tentato di dare al posto un aspetto più attraente, meno artificiale, ma è difficile. Anche facendo «fiorire la città» come dicono i cartelli del comune. E ormai nella regione la moda è ai fiori di campo. Terrapieni, giardinetti, scarpate; le fioriture selvatiche hanno sostituito, come decorazione, i più classici tulipani o forsizie. Arriva l'autunno e una rapida falciata fa piazza pulita dei resti di erbacce, fino allla primavera seguente.  
Davanti alla stazione della metropolitana c'è una rotonda con al centro un complicato ornamento di cespugli e alberelli. E da qualche anno anche lo spazio che separa, lì vicino, le due carreggiate dello svincolo dell'autostrada si trasforma a primavera in un'aiuola di fiorellini multicolori.
Poi un giorno un uomo si installa al semaforo. Non sembra un barbone. È vestito in modo decoroso, porta uno zainetto sulle spalle. Ha con sé un cartello che tiene all'altezza del petto, con su scritta la richiesta di qualche moneta. I giorni passano, le settimane, ed è sempre lì, dal mattino alla sera. Aspetta che il semaforo passi al rosso e si incammina verso la fine della coda di automobili in attesa. Non dice niente, nessun gesto di preghiera o di domanda, avanza lentamente, guarda in faccia gli automobilisti e mostra il suo cartello con la richiesta di aiuto.  
Qualcuno gli dà una moneta, altri fanno finta di non vederlo, sperando magari che il semaforo rapidamente diventi verde.  
Quando le automobili ripartono l'uomo torna al punto di partenza. Aspetta vicino al semaforo fino al rosso successivo. Poi ricomincia. Sono una trentina di metri, percorsi centinaia di volte. Senza volerlo, dove c'era l'aiuola ha tracciato un sentiero, netto, preciso. Per riposarsi attraversa la strada e si siede nella scarpata, nascosto agli sguardi degli automobilisti. Mangia qualcosa poi torna al suo posto e si rimette in cammino.  
Poco lontano un gruppetto di persone con scarponcini da marcia e bastoncini di alluminio passa, seguendo le indicazioni del percorso natura che va verso il parco urbano.