La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 30 aprile 2011

Piteglio e Popiglio

L'Appennino pistoiese è coperto di boschi. Soprattutto castagni e robinie, con qualche pineta che dà un tono più scuro alla macchia. Solo più in alto, verso l'Abetone, si vede qualche spruzzata di neve. Popiglio e Piteglio sono uno di fronte all'altro, separati dalla valletta dove scorre il torrente Lima.
Piteglio da Popiglio
I due paesi si assomigliano, spiccano le pietre scure e le torri quadrate trasformate in campanili. Popiglio è una frazione, Piteglio la sede comunale. Entriamo nel municipio alla ricerca di un atto di nascita del 1918. L'ufficiale di stato civile, una signora molto gentile che sta lavorando nel locale adibito ad «Archivio storico», cerca tra i registri e lo trova subito. La vecchia e bella calligrafia dell'inizio del secolo scorso è trasformata in qualche minuto in caratteri informatici sputati da una stampante elettronica. Così, nel giro di qualche istante, un secolo di storia è passato.
Piteglio
Popiglio da Piteglio
Usciamo, contenti di aver trovato quello che cercavamo. Il sole comincia a scaldare le antiche pietre scure che lastricano le stradine. Qualche anziano passa e saluta. Davanti all'ambulatorio due donne aspettano con i loro bambini. Nella parte più alta del paese sta la massiccia torre quadrata e vicino la pieve con un bell'albero accanto.
La valle della Lima separa i due paesi
Per andare da Piteglio a Popiglio, vicini in linea d'aria, bisogna attraversare la valle sottostante. Ci fermiamo per vedere i due ponti che sono le curiosità locali. 
Il primo è una bella costruzione del 1300 ed è legato al nome di Castruccio Castracani che lo fece costruire sulla strada tra le terre di Lucca e le montagne di Pistoia. È un bell'arco in pietra, elegante nella sua asimmetria. Vicino è l'antico posto di dogana.
Il secondo ponte è molto più moderno. Permetteva agli operai di Popiglio di attraversare più rapidamente il greto del torrente per andare sul luogo di lavoro dall'altro lato. È una passerella sospesa, ricostruita recentemente, fatta di cavi di acciaio e di grate su cui passare. Il vento lo fa ondeggiare un po'.
Si risale verso Popiglio e sulla piazza ci fermiamo alla bella pieve romanica (romanico almeno l'esterno perché l'interno è stato modificato) di Santa Maria Assunta. Sulla lunetta della porta laterale è un sorprendente soldato con spada e scudo. 
Lasciando il paese e continuando verso l'alto il panorama si allarga sulla valle. Si arriva infine alle due torri di Popiglio. Dovevano far parte di una fortificazione di guardia al confine tra Lucca e Pistoia. Sono state restaurate (ricostruite) recentemente.

domenica 24 aprile 2011

Goethe: Viaggio in Italia

È a partire dalla fine del Seicento che si comincia a parlare di grand tour. Si trattava di una sorta di viaggio di studio che i giovani aristocratici del nord Europa effettuavano per completare la loro formazione culturale. Partivano, spesso accompagnati da un precettore, per visitare le città e i monumenti e per ammirare le opere artistiche fino ad allora studiate sui libri. Le destinazioni del viaggio erano di solito la Francia, l'Olanda, i paesi tedeschi e l'Italia. Solo i più intrepidi, e raramente, si spingevano fino in Grecia.
Ma anche l'Italia viene scoperta poco a poco. I primi viaggiatori si fermavano nelle città del nord: Verona, Venezia, Ferrara. Le difficoltà, il pericolo e la lunghezza degli spostamenti sconsigliavano la visita delle regioni più meridionali. Un secolo più tardi, il resoconto di qualche intrepido che si era spinto fino a Napoli o in Sicilia, e le scoperte archeologiche, aprirono la strada ad altri viaggiatori che cominciarono a frequentare le regioni del sud Italia. Si ricercavano i siti nei quali si potesse ancora aver la sensazione di ritrovare la civiltà del passato nel suo ambiente naturale.
Anche Goethe, nel 1786, parte per l'Italia. Aveva già 36 anni ed era un personaggio conosciuto e riverito, non solo nel suo paese ma in tutta Europa. Dal 1775 viveva alla corte di Carlo Augusto, duca di Weimar.
Più che una partenza, il 3 settembre, la sua sembra una fuga. Dopo aver fatto tappa a Karlsbad in Boemia, mette capo a sud, passa il Brennero, arriva a Trento per poi proseguire sempre verso sud.
È un viaggio singolare, senza un programma preciso. Goethe si ferma a Verona e Vicenza, poi a Padova e a Venezia. Va a Bologna, attraversa rapidamente la Toscana (non resta a Firenze che 3 ore), visita Assisi e si ferma a Roma per poi continuare verso Napoli.
J.H.W. Tischbein: Ritratto di Goethe nella campagna romana 1787
Lo spirito con cui affronta l'impresa rispecchia i suoi interessi culturali. Snobba i monumenti e l'arte troppo intrisa, secondo lui, di dottrina cattolica. Disdegna il barocco ma anche il gotico e cerca le opere del mondo classico, romano e, più a sud, greco. Così ad Assisi, non entra nemmeno nella basilica di San Francesco e nel suo resoconto non accenna neppure agli affreschi di Giotto. Si attarda invece lungamente davanti al tempio di Minerva, descrivendone la struttura e il sito e provando ad immaginare l'ambiente originario del luogo.
Goethe è un camminatore. Lascia che il vetturino prosegua da Santa Maria degli Angeli verso Foligno e Terni, egli percorre a piedi la salita verso le pendici del Subiaco e la città francescana, poi va, sempre a piedi fino a Foligno. Visita Spoleto (l'acquedotto romano in primo luogo) prima di arrivare a Roma.
Dice di essere in Italia per imparare, sulle orme dei suoi celebri predecessori:
Roma è un mondo e ci vogliono anni per accorgersene. Trovo felici i viaggiatori che vedono e passano! Questa mattina mi sono venute in mente le lettere che Wilckelmann scriveva dall'Italia. Con quale emozione ne ho intrapresa la lettura! Sono trentuno anni che, in questa stessa stagione , egli arrivò qui, povero, matto più di me. Anch'egli nutriva il serio ardore tedesco per gli studi solidi sull'antichità e dell'arte. Come superò le difficoltà bravamente e bene! Quanto è grande per me in tale luogo la memoria di un tale uomo!
La sua concezione del viaggio anticipa quelle dei moderni adepti di questa occupazione:
Bisogna, per così dire, nascere di nuovo, e si deve guardare alle proprie antiche idee come alle proprie scarpe da bambino.
E in effetti a poco a poco il suo atteggiamento cambia. Sembra perdere un po' di quell'altezzosità che, da intellettuale riverito e ammirato, portava con se. Comincia ad interessarsi alle persone che incontra. E anche all'ambiente naturale. Sale tre volte sul Vesuvio che sembra incuriosirlo più di Pompei. Il soggiorno si prolunga. Nel porto di Napoli vede partire la nave per la Sicilia e decide, dopo qualche esitazione, di proseguire per quell'isola. Aveva previsto un tour di qualche mese. Resterà in Italia quasi due anni.
La collezione numismatica del principe Torremuzza a Palermo lo entusiasma: Oggi la Sicilia e la Magna Grecia mi fanno sperare una nuova e più libera vita. Su questo soggetto mi abbandono a delle riflessioni generali ed è una prova che sono ancora poco esperto su di esso; ma, a poco a poco, imparerò anche questo come il resto.
Perché per Goethe il viaggio di formazione si è trasformato, poco a poco, in viaggio di rinascita. Pensa di aver ritrovato lo spirito degli antichi, fino allora imitati ma adesso riportati in vita. Così, di ritorno a Napoli dalla Sicilia, scrive al suo amico Herder:
Per ciò che riguarda Omero, sembra che una benda sia caduta dai miei occhi. Le descrizioni, i paragoni, ci sembrano poetici e, nondimeno, sono più naturali che non si dica, ma trattati con una sincerità, un candore che spaventano. Anche le favole più strane hanno una naturalezza che non ho mai sentita così come in vicinanza delle cose descritte. Permettimi di descrivere in poche parole il moi pensiero: gli antichi rappresentavano l'esistenza e noi, abitualmente, l'effetto.Essi descrivono l'orribile, noi descriviamo orribilmente. Essi il piacevole, noi piacevolmente ecc.Da ciò viene tutto il manierato, lo sforzato, la falsa grazia, l'ampollosità affettata. Poiché si cerca l'effetto e si lavora sull'effetto, non si crede mai di poterlo rendere abbastanza sensibile. Se questo che dico non è nuovo, per lo meno una nuova occasione me l'ha fatto vivamente sentire. Ed ora rive e promontori, golfi e baie, isole e lingue di terra, rocce e coste sabbiose, colline boscose, soavi prati, campi fertili, giardini adorni, alberi coltivati, vigne pendenti, monti avvolti nelle nuvole e pianure sempre ridenti, rupi e scogli, mare che tutto circonda con mille cambiamenti, tutto questo è presente nel moi spirito,e, per me ora l'Odissea è una parola vivente.

venerdì 15 aprile 2011

Tagliacozzo

Dalla piazzetta di Scurcola Marsicana, sulle pendici del monte San Nicola, il panorama è bello sui Piani Palentini. 
Forse fu proprio tra questi campi che, il 23 agosto 1268, il sedicenne Corradino di Svevia perse l'ultima battaglia della sua brevissima vita. I francesi di Carlo D'Angiò erano meno numerosi ma finirono per avere il sopravvento grazie a Alard de Valéry che suggerì al suo principe uno stratagemma per sconfiggere l'esercito imperiale. Mentre i tedeschi, credendo di aver vinto, saccheggiavano il campo nemico, Carlo, restato fino ad allora nascosto con 800 cavalieri, piombò sugli avversari sbaragliandoli. Più con l'astuzia (senz'arme) che con la forza dice Dante nel XXVIII canto dell'Inferno.
Bisogna però percorrere ancora più di 4 chilometri per arrivare a Tagliacozzo, paese che ha dato il nome alla battaglia. L'antica via Valeria (proseguimento verso le terre dei Marsi della Tiburtina) è qui un lungo rettilineo.
 Tagliacozzo si inepica sul monte Bove restringendosi come il vertice di un triangolo. La montagna è spaccata in due da una profonda fenditura. Sembra che sia questa caratteristica ad aver ispirato il nome del paese.


















Più in basso bei palazzi signorili, con un aria di malinconica decadenza, e piazzette animate da villeggianti romani; verso l'alto case più modeste in un ambiente sempre ricco di fascino.

Sotto i balconi fioriti di gerani, il fiume Imele sembra quasi un torrente alpino. 















La salita è ripida. A poco a poco si allontanano i rumori. Più si sale più il paese sembra tranquillo e appartato. In alto, fuori dal paese, l'ultimo edificio è la modesta chiesetta del Calvario, un tempo meta di pellegrinaggi.
Nel cortile dell'ex convento francescano
















Il Velino al tramonto

sabato 9 aprile 2011

John Steinbeck: I pascoli del cielo

Al confine tra Umbria e Marche, la torre di Salmaregia, frazione di Nocera umbra è al centro di una valletta sorprendente. Il silenzio è interrotto dagli uccelli e dall'abbaiare di un cane. Prati e campi coltivati, delimitati da boschi di belle e maestose querce brillano di colori vivi. Un gruppetto di case si aggrappa attorno alla torre, ma non si vede nessuno. Solo la strada asfaltata che attraversa la valle ci dice che il tempo è passato da quando Salmaregia era di guardia tra queste montagne.

È attraversando questa valletta che mi sono venuti in mente, magari con un'associazione d'idee un po' facile e frivola, I pascoli del cielo di John Steinbeck:
I campi si stendevano a grandi scacchi verdi e gialli: era maturo il grano, e le colline dall'altra parte avevano un colore scuro che sfumava nell'azzurrognolo. [...]
Una brezza soffiava su dalla valle, a intermittenze, leggera come il sospiro di un dormiente.
I missionari spagnoli in America non andavano sempre per il sottile quando si trattava di covertire gli indiani. E spesso conversione era sinonimo di manodopera a buon mercato. Così nel 1776, mentre si costruiva una missione carmelitana in California, quando un gruppo di indigeni decise che quel lavoro non faceva per loro e se la diede a gambe, fu inseguito sulle montagne dai soldati spagnoli e riportato al cantiere in catene.
Ma fu in quell'occasione che uno dei soldati, cacciando un cervo, trovò una valle straordinaria:
Una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi. Al cospetto di tanta bellezza il caporale si sentì commosso..."Madre di Dio!" mormorò. "Questi sono i verdi pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!
È da qui che parte Steinbeck per il suo romanzo I pascoli del cielo pubblicato nel 1932.
In effetti più che un romanzo si tratta di dieci racconti che hanno come filo conduttore quella valle paradisiaca scoperta per caso. Storie drammatiche di personaggi in lotta contro un destino avverso. Affranti da un fato che sembra volere far scontare loro la bellezza del posto. Una serie di ritratti ricchi di vita, caratteri singolari presi in un conflitto, spesso irrazionale contro le vicissitudini travolgenti dell'esistenza.
Gli abitanti della valle vivono convinti che ogni favore del cielo dovrà essere scontato. Così quando la moglie di Edward Wicks, detto lo Scroccone, si rende conto della bellezza della figlia appena nata, invece di gioia prova spavento: La bellezza di Alice era troppo straordinaria per non avere qualche inconveniente. I bambini belli finiscono molte volte per diventare brutti uomini o brutte donne.
Anche la vita di Helen van Deventer si svolgeva sotto il peso di un sentimento acuto e perenne di tragedia.[...] Sembrava ch'essa avesse bisogno di tragedia per vivere e il destino non la lasciava insoddisfatta, gliene procurava.
Che dire poi della bella e malinconica storia di Junius Maltby e di suo figlio Robert Louis (come Stevenson) detto Robbie. Vivono felici, in un universo tutto loro, in cui leggere un libro o raccontare una storia seduti sul ramo di un sicomoro è più importante che zappare un campo. Fino al giorno in cui il regalo di qualche vestito da parte di chi credeva fare del bene svela loro la povertà che fino ad allora non vedevano.
La bella prosa di Steinbeck, con il suo realismo epico, è intrisa di un'ironia che spesso sfiora il sarcarsmo. Uno sguardo penetrante nelle piccolezze ma anche nella grandezza umana, in un mondo dove nessuno è mai banale. Una critica acerba dei soprusi e delle prevaricazioni sociali, sempre con attenzione e empatia verso l'umanità oppressa.
Fu Elio Vittorini a tradurre e a fare pubblicare questo libro da Einaudi (nel 1940!). E anche se oggi sembra facile criticare la sua traduzione per alcune imprecisioni, che però tutto sommato restano secondarie, bisogna soprattutto ricordare che leggere e tradurre Steinbeck nell'Italia del fascismo e della guerra non era certo una banalità. Nel provincialismo autarchico dell'epoca, si trattava di un atto non solo culturale ma anche politico.

venerdì 1 aprile 2011

Spello Assisi: il sentiero degli ulivi

Intra Tupino e l'acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d'alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole. 
Ce ne mette di tempo Dante prima di nominare Francesco. 
Quante circonlocuzioni. E quante circonvoluzioni: arriva ad Assisi dopo aver fatto una cartografia del territorio. 
Spello
E come al solito non ha gerarchie quando parla di luoghi o di fiumi; così, nello stesso canto, cita il Gange e il Tevere, il Topino e il Chiascio: l'acqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, (il monte Ingino di Gubbio per i distratti), senza dimenticare l'Arno (non lontano dalla Verna delle stimmate).
Questo Sole-Francesco che nasce ad oriente per illuminare il mondo (da Perugia si vede il sole sorgere verso Assisi), gran camminatore, percorrerà in lungo e un largo le vie dell'Umbria, seguito dai compagni, primo tra tutti Bernardo che si scalzò prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve esser tardo.
Alle pendici del monte Subasio, Spello prende il sole. I mattoni ocra delle case medievali ne restituiscono il calore. Fuori dalla porta romana la piazza è animata.

Bisogna risalire tutto il paese fino alla sommità del borgo per trovare il sentiero che continua verso il monte. Fra gli ulivi il panorama spazia su tutta la valle umbra, tra le sfumature di verde ed il giallo del grano. Di fronte, più scuri, i monti Martani fanno da sfondo.
Le strada taglia la costa occidentale, prima in bella salita poi alternando falsipiani e discese. Si sale oltre i mille metri (1124) del Sasso Piano per poi ridiscendere verso Assisi. Dopo aver attraversato boschi e prati, lungo tutto il versante occidentale del Subasio si arriva nella città dall'eremo delle carceri.
È difficile immaginare in Assisi la città medievale in cui visse Francesco di Pietro Bernardone.
Negozi di souvenir con le immancabili statuine di fraticelli gaudenti, ristoranti e pizzerie aspettano i pellegrini turisti che vanno e vengono dalla basilica alla piazza del comune.
Occorre aspettare la sera, quando le ombre si allungano e il paese si svuota per ritrovare un po' di silenzio.