La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 31 dicembre 2011

Bevagna: Valle Tamantina

La bottiglia di Sagrantino è come una cartolina dell'estate. Un vino nobile, ricco di profumi e sapori, tra tutti quell'inconfondibile gusto di amarene mature come cadute a terra e che da essa prenderebbero gli umori.
Il sagrantino è un piccolo gioiello cresciuto tra le colline dell'Umbria. Vitigno che ispira le leggende. Lo si dice arrivato nell'antichità dalla Grecia, descritto, sotto il nome di Itriola da Plinio il Vecchio. 
C'è chi lo dice venuto dall'Asia Minore, nella bisaccia di un francescano sulla strada di casa, chi ne fa risalire il nome ai sacramenti perché, come passito, è utilizzato durante l'eucarestia. 
E c'è anche chi ha voluto riconoscere una bottiglia di sagrantino sulla tavola imbandita del cavaliere di Celano dipinta da Benozzo Gozzoli nella chiesa di San Francesco a Montefalco.


Leggende a parte, il sagrantino è un vitigno legato alla sua terra. Sulle colline della valle umbra, attorno a Montefalco condivide con gli oliveti la bella campagna.
Ma non basta una buona terra per fare un buon vino. Bisogna saperlo allevare come dicono i francesi.
Noi l'abbiamo incontrato nelle terre di Bevagna risalendo sui colli dal piccolo borgo di Cantalupo.
È qui che abbiamo conosciuto Agostino, Argentina e la loro figlia Laura.
La loro casa è un magnifico balcone sulla valle tra Assisi e Foligno. Nelle loro terre si producono farro e cicerchia, ceci e lenticchie, olive e appunto, uva. L'olio e il vino sono la loro specialità. Ne sono fieri e hanno ragione di esserlo. Cose fatte con passione, di cui si è soddisfatti perché sono buone e non solo perché si vendono bene. 
Ad un paio di chilometri dalla casa, nascosto in una valletta circondata dal bosco, è il loro agriturismo della valle Tamantina. Un antico casolare è stato ristrutturato e accoglie il turista in cerca tranquillità. Si è accolti con un bicchiere del buon vino del posto. Agostino ha preparato un orticello nel quale, nella buona stagione, gli ospiti possono rifornirsi di verdure. 
Nelle serate estive ci si siede sull'uscio della casa. Solo gli uccelli e il fruscio del vento che si infila nel bosco rompono il silenzio.

sabato 24 dicembre 2011

Hermann Hesse: Le stagioni della vita

Magnifico è per i vecchi
il calore della stufa e il rosso di borgogna,
e infine una doce morte -
ma più tardi, non oggi!*
Le stagioni della vita è il titolo scelto per una piccola antologia di testi, spigolati tra i romanzi e i saggi di Hermann Hesse.
Riflessioni sul tempo che passa, dalle speranze della giovinezza al declino della vecchiaia, lungo il passaggio da un gradino all'altro dell'esistenza verso un autunno che appare troppo precoce.

Come ogni fior languisce e giovinezza
cede a vecchiaia, anche la vita in tutti
i gradi suoi fiorisce, insieme ad ogni
senno e virtù, né può durare eterna.*

E come, passando da un gradino all'altro, cambia per noi l'immagine del mondo così si modifica lo sguardo portato su un libro o uno scrittore. È il caso di Hermann Hesse. Spesso appiattito dai clichés, Hesse, malgrado la fama e i riconoscimenti, (o forse a causa di questi) è considerato grinzoso e impolverato. Filosofo per adolescenti o per adepti del new age.
Quello descritto è un mondo fuori dal tempo, nel quale è importante occuparsi dei fiori, i bambini ricevono in regalo una mela o una manciata di noci, nel quale la Storia arriva filtrata da un velo; irrompe a volte incomprensibile, e mette a soqquadro il presente.
È un atteggiamento di distacco dal reale che è stato rimproverato allo scrittore. Com'è possibile descrivere un universo di pace e di calma o di insignificanti discordie mentre la guerra infuria e gli uomini si massacrano.
Ma osservandolo meglio ci si accorge che quest'universo di tinte delicate può nascondere contrasti e rugosità. Dietro l'apparente armonia si fa luce la durezza nei rapporti umani, imbrigliati in modelli sociali immutabili, in ordini gerarchici che devono essere rispettati con stretta disciplina.
Anche se nei suoi scritti, soprattutto in quelli autobiografici, ciò trapela piuttosto che esporsi, ne emerge la realtà di un'infanzia che per lui non è stata sempre del tutto rosea. Destinato a studi teologici da una famiglia religiosa, ci vorrà una crisi, fino al tentato suicidio, prima di svincolarsi da una via tracciata da altri.
Troverà un senso alla vita nell'arte. E quest'ultima, che sia scrittura, pittura, musica, nella sua visione non deve essere solo distrazione o aspetto complementare nella vita dell'uomo. Ne deve essere il momento centrale. Attraverso essa, approfondendo la conoscenza di sé, può svilupparsi la coscienza dell'animo umano, la crescita della consapevolezza. L'arte non può sostituirsi alla politica ma quest'ultima da sola non è sufficiente, anzi, secondo Hesse è controproducente perché semplifica, tra il nero e il bianco, tutte le sfumature. Aderire ad un'ideologia significa per l'artista rinunciare alla propria libertà.
Per questo la posizione di Hesse, soprattutto nei momenti storici essenziali del ventesimo secolo, ha spesso suscitato perplessità. Durante la prima guerra mondiale rigetta il nazionalismo della Germania ma nello stesso tempo si presenta come volontario (non è accettato) nell'esercito. Assume posizioni pacifiste ma non si associa al movimento contro la guerra.
Ma Hesse non chiude gli occhi davanti alla catastrofe; al contrario, ne è coinvolto profondamente, sente la necessità di rimettersi in discussione:
venne per me la perdita della libertà e dell'indipendenza, venne la grande crisi morale prodotta dalla guerra, che mi costrinse a dare nuovi fondamenti a tutto il mio pensiero.*
Durante il periodo nazista aiuta e ospita i suoi compatrioti, tra i quali Thomas Mann, profughi in Svizzera. Eppure, nel secondo dopoguerra, fu considerato con sospetto dagli occupanti americani perché le sue opere non erano state censurate dai nazisti. In definitiva però l'immagine di uno scrittore indifferente alla società che lo circonda non è giusta. Perché nella sua concezione, se l'arte non può cambiare la società, essa può cambiare l'uomo.
I suoi interventi pubblici contro la guerra, contro il totalitarismo ma anche contro l'ideologia capitalista americana che secondo lui sarà la causa di un nuovo declino culturale e morale dell'Europa mostrano il suo coinvolgimento al fatto politico.
Hermann Hesse cercherà nelle filosofie orientali, nel taoismo e nel buddhismo, gli elementi per ordinare il suo pensiero. Demian, il Lupo della steppa, Narciso e Boccadoro, Siddhartha, nei personaggi dello scrittore è sempre centrale la dualità tra vita materiale e elevazione spirituale. Tema centrale anche nel Gioco delle perle di vetro, forse il romanzo chiave e che senza dubbio fu fondamentale per l'attribuzione del premio Nobel nel 1946.
Il pellegrinaggio in oriente, romanzo breve pubblicato nel 1932 è forse il modello più riuscito nel sintetizzare la poetica dello scrittore. È il racconto di un viaggio in cui i pellegrini attraversano lo spazio, tra la Svevia e l'oriente ma anche il tempo, dal medioevo al mondo moderno. Il narratore, H.H. ha come compagni di viaggio Mozart e Alberto Magno, Don Chisciotte e Paul Klee... È un divagare che in realtà non ha come meta i paesi dell'oriente ma appunto la trasformazione interiore del pellegrino, perdutosi senza saperlo e di nuovo alla ricerca di una meta che sembra poter essere raggiunta solo dopo essersi spogliati dall'ambizione della meta stessa. Racconto che è metafora dell'esistenza umana.
Ed ecco dunque che Le stagioni della vita raccoglie ed evidenzia, un po' come controcanto nella vita reale, questo viaggio di Hermann Hesse tra gli uomini e le cose del suo tempo. Annotazioni, racconti e versi che riuniti servono da commento alla sua opera e alle sue scelte di vita.

È facile esser giovane e agire bene,
e tenersi lontano da ogni meschinità;
ma sorridere, quando già rallenta il battito del cuore,
questo va appreso.*

*Hermann Hesse Le stagioni della vita a cura di VolkerMichels Ed.Mondadori 1988

sabato 17 dicembre 2011

Eremo di Sant'Onofrio sul Morrone

Fra' Pietro Angeleri da Isernia lo preferì agli ori di San Pietro e, dopo aver rinunciato nel 1295 al nome di Celestino V e alla carica papale, volle tornare quassù. 
Fu qui che era venuto a cercarlo il re di Napoli Carlo II D'Angiò per annunciargli il risultato del conclave e la sua elezione al soglio pontificio. Nelle lotte tra fazioni che infuriavano al suo interno la curia romana pensava di trovare in un mite e popolare monaco un papa docile e malleabile. Fra' Pietro accettò, forse a malincuore, di seguire il re a L'Aquila per l'incoronazione nella basilica di Collemaggio. Ma papa non lo sarà che per quattro mesi, estraneo alle beghe e agli intrallazzi di corte. 
Carlo aveva bisogno di un pontefice che ratificasse l'accordo con gli Aragonesi per riappropriarsi della Sicilia. Porterà Celestino V a Napoli, quasi come un prigioniero. Ma quest'ultimo lascerà la corte e tornerà sulla sua montagna. 
Un ultimo soggiorno che non durerà molto, il suo successore Bonifacio VIII lo preferiva prigioniero e lo farà rinchiudere a Fumone, nella Ciociaria non lontana dove morirà due anni dopo.
E chissà se Dante avesse veramente ragione a chiamarlo «vile» per il gran rifiuto e a condannarlo alle pene dell'inferno. Perché ci volle sicuramente un gran coraggio per abbandonare Roma e la sua corte e per tornare a fare l'eremita.
Queste montagne furono a lungo un luogo privilegiato per quei mistici che cercavano la solitudine e il raccoglimento. Luoghi sacri fin dall'antichità, nei quali i segni di una religiosità già precristiana, sono visibili qui vicino, nelle pitture rupestri o nei resti del tempio dedicato a Ercole Curino.
L'eremo di Sant'Onofrio è come incastonato sulle pendici del Morrone. Lo si vede da lontano a mezza costa, con il suo inconfondibile porticato aperto sulla valle.
Per arrivare all'eremo, ancora oggi meta di devozione popolare, si passa vicino all'abbazia del Santo Spirito, anch'essa fondata da Pietro Angeleri. L'imponente costruzione ai piedi della montagna è stata a lungo ridotta a penitenziario e solo da qualche anno è in via di restauro (sono ancora visibili le garitte di guardia).
La strada asfaltata sale fino ad un piazzale. Qui comincia il sentiero che, salendo a tornanti sale fino ai 630 metri dell'eremo. Una breve passeggiata che diventa più impegnativa se si vogliono raggiungere i resti dell'eremo di san Pietro, più in alto sulla montagna.

sabato 10 dicembre 2011

Miguel Torga

Ancora un libro che ho comprato (una ventina di anni fa) per caso. Mi succede spesso data la mia abissale ignoranza e dunque la facilità che ho di cadere su autori sconosciuti. È stampato da un editore francese, José Corti che, come il suo nome lo lascia intuire, si interessa alla letteratura iberica.
Les contes et les nouveaux contes de la montagne di Miguel Torga mi aveva attirato proprio per la mancanza di agghindamenti. Certo non è molto logico come criterio ma, come molti penso, un libro lo noto prima di tutto per la copertina. Però, sarà snobismo?, più è appariscente meno mi attira. E quella dell'edizione Corti è di un banalissimo beige, con modeste scritte verdi o nere. Le pagine intonse non hanno fatto che aumentare la mia curiosità.
Naturalmente non avevo mai sentito parlare dell'autore.
Dopo quel primo incontro ho trovato, questa volta non per caso, altre opere di Torga: Il senhor Ventura, La création du monde, Vendange; sempre in francese*, perché non conosco il portoghese e in italiano per quanto ne so, è stato tradotto poco.

L'universale è il locale meno i muri
Forse è l'aforisma più celebre di Miguel Torga.
Pare che dello scrittore portoghese, considerato nel suo paese un monumento letterario, si sia parlato ripetutamente nella stagione dei premi Nobel ma il suo nome è rimasto, e ormai per sempre, sulla lista delle ipotesi.
Nato nel 1907, Adolfo Correia da Rocha scelse lo speudonimo di Miguel in omaggio ai due grandi della letteratuta iberica: Cervantes e Unamuno. La torga è, in portoghese, l'erica, pianta rude e frugale, capace di resistere alle intemperie, aggrappata alla roccia della montagna. Perché per Miguel Torga la terra, la sua terra, era indispensabile nutrimento nella sua passione per la scrittura.
Dice ne «La creazione del mondo» (1985):
Sarei capace di vivere lontano dalla mia patria nella situazione di un emigrante che si guadagna il pane. D'altronde l'ho già fatto. Ma non potrei mai vivere lontano da essa come scrittore. Mi mancherebbero il dizionario della terra, la grammatica del paesaggio, lo Spirito Santo del popolo.
E in effetti, a soli tredici anni aveva abbandonato il liceo ed era partito, solo, per il Brasile dove, fino a diciotto anni, aveva lavorato come bracciante. Tornato in Portogallo e laureatosi in medicina, Torga passerà più di quarant'anni nel suo modesto ambulatorio di Coimbra curando i suoi pazienti e scrivendo. Comincia a pubblicare le sue prime poesie nel 1928 e continuerà, ancora poesie, racconti, romanzi e un imponente diario, quasi fino alla morte, nel 1995.
La sua professione non è estranea forse al fatto che egli osservi suoi simili con uno sguardo che solo in apparenza è freddo e distaccato ma che in realtà è lucido e sincero.
Un'opera senza compromessi in un paese che dal 1932 alla rivoluzione dei garofani del 1974, vivrà nella morsa della dittatura fascista. Miguel Torga pubblica tutti i libri a sue spese, in edizioni umili e senza fronzoli ma che gli permettevano di rivendicare la sua libertà di scrittore. Difficile posizione, tanto che tra il 1939 e il 1940 passerà anche qualche mese di prigione, costretto in seguito a far stampare le sue opere in Brasile per aggirare la censura.
Ma in portoghese, nel linguaggio popolare, torga vuol dire testardo. E lo scrittore lo era di sicuro, tanto da ironizzare quando uno dei suoi libri era sequestrato: La polizia, con la sua diffidenza professionale nei confronti della verità mi dice se sono o no sulla buona strada.
Trás-os-Montes, «aldilà dei monti» è una regione povera e isolata del nord est del Portogallo, abitata da contadini che vivono spesso nella miseria. È la Montagna, teatro di molte delle sue storie e soprattutto dei Contos da Montahna. Sono contadini quelli di Torga che ricordano a volte i cafoni di Ignazio Silone: schiacciati dalla prepotenza di chi è più forte, faticano a sopravvivere, e lo fanno senza speranze. Ma lo sguardo di Silone era più benevolo. Torga invece non nasconde le responsabilità di ogni uomo, neanche quella dello sfruttato. Le sue storie scrutano l'animo umano: storie amori impossibili e di gelosie, di rivalità e di discordie di pregiudizi e di superstizioni. Il destino sembra soverchiare, come un fato impietoso ogni speranza. Ma non è tutto nero il mondo di Torga, l'amicizia e la generosità, quest'ultima sopratutto quando spunta inattesa, illuminano i paesaggi della Montagna. Paesaggi dipinti con ammirazione, come nel racconto Le vendemmie ma nei quali la realtà della dura vita interrompe l'incanto:
Sparsa sul pendio, la squadra sembrava festeggiare un dio generoso e pagano piuttosto che lavorare. Le terrazze erano gli scalini dell'Olimpo, dove cresceva e poi era colto, lo spirito celeste. Una canzone era un inno di lode. E i panieri traboccanti, scendendo dai gradini di scisto sulle spalle dei devoti fedeli, in fila indiana, sonora e rituale, erano i doni del Signore colmo d'amore, che chiedeva solo allegria in cambio dei suoi frutti.
Sembrava che tutto, in quel paradiso sospeso, si muovesse ludicamente e religiosamente. Nessuna pena, nessun odio, senza inquietudini per il futuro. Allegra, l'anima di ogni pellegrino si abbandonava volentieri all'oblio collettivo capace di cancellare dal mondo le miserie e i disinganni. Era come un magico telaio che stesse tessendo la disumanizzazione. E bisognava che uno dei fili della bobina si ingarbugliasse, che ci fosse un intoppo nel ritmo del cerimoniale, per accorgersi che una volontà pratica era qui soggiacente, vigilante e profana. Vitorino non era ancora uscito dalla sua contemplazione quando Seara, l'intendente, gli gridò nelle orecchie:
-Sei sulla luna? Datti una mossa! In piedi e aspettami nella cantina, devi preparare un tino.**

La scrittura di Torga ha il carattere del suo autore; va alla sostanza, non si preoccupa degli abbellimenti. È un realismo che fino alla fine ha scavato nell'animo umano, cercando l'essenziale, cercando nell'uomo la verità.
 * Traduzione francese di Claire Cayron
**Contos da Montahna.(1941)

sabato 3 dicembre 2011

Santo Stefano di Sessanio AQ

Nella domenica di fine agosto molti turisti passeggiano nelle stradine e tra le bottegucce artigianali di Santo Stefano di Sessanio.
La bella esposizione, allestita in collaborazione con la Galleria degli Uffizi di Firenze contribuisce ad animare il borgo. Lo scopo è di raccogliere fondi per riparare i danni del terremoto; un gesto di solidarietà per riaffermare i legami tra la città patria dei Medici e questo villaggio, che fu avamposto montano, importante per il controllo della produzione della lana.
Il sisma del 2009 ha fatto crollare la torre medicea, deturpando il profilo inconfondibile del paese. 
Oggi una struttura in tubi di acciaio tenta di ricordare, in attesa della ricostruzione, l'antico simbolo. 
Ma i danni non solo solo quelli dell'antico monumento. Altri muri e archi sono pericolanti, puntellati e sostenuti da impalcature.
Anche senza aver fatto vittime il terremoto ha colpito duramente il paese.
Le strutture turistiche che avevano dato nuova vita il piccolo borgo continuano a funzionare ma le difficoltà non sono poche.
Difficile sopravvivere per questi paesi di montagna; una montagna bella ma rude soprattutto nel lungo inverno.
Come pensare ad un futuro che continui a far vivere il borgo e che però non lo trasformi in un villaggio vacanze.