La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



martedì 29 luglio 2014

Paolo Rumiz: Morimondo


Morimondo è il titolo di un libro dello scrittore triestino Paolo Rumiz. Il racconto di un viaggio lungo il Po, in uno dei luoghi paradossalmente meno conosciuti d'Italia. Paradossalmente, perché tutti sanno che cos'è il Po, forse ne sanno la lunghezza e le regioni attraversate: le dense e popolose contrade del cuore economico del paese. Ma pochi conoscono l'universo che si nasconde dietro questo grande monosillabo. Gli uomini hanno da tempo voltato le spalle al più lungo fiume della penisola. Torino è l'unica città che sembra accoglierlo, ma anche qui il fiume è maltrattato. Lungo tutto il percorso, ferrovie, strade ed autostrade lo attraversano senza attardarsi, senza considerarlo nient'altro che un ostacolo, da superare velocemente. Il corso d'acqua è una discarica per detriti e veleni. Scopriamo nelle pagine del libro che non esiste nemmeno una carta dettagliata sui tratti navigabili e sulle secche e che il tragitto si farà spesso in una sorta di aqua incognita. Maltrattato, sfruttato e avvelenato, il Po sembra però resistere all'incuria e all'aggressione della civiltà moderna, resta uno spazio a parte, singolare e incantatore. Non proprio un'oasi faunistica né un parco naturale ma un universo più complesso e multiforme. Paolo Rumiz, giornalista scrittore e viaggiatore, ed i suoi compagni di viaggio, incontrano nel loro divagare personaggi singolari, a volte eccentrici ed anticonformisti quasi malgrado loro. C'è il traghettatore filosofo, figura di un altro tempo e che ricorda quello che salva il manzoniano Renzo Tramaglino al di là dell'Adda; c'è Aldo Manotti, autoproclamatosi Re del Po, che vive in simbiosi con il fiume e che, con tronchi e rami recuperati sulle rive, realizza sculture magiche e proteiformi. Ma ci sono anche i gli amici della brigata Folgore in tenuta paramilitare o i misteriosi pirati rumeni che navigano di notte a luci spente, di cui molti parlano ma che nessuno sembra aver visto.

Dalla mappa uscirono le memorie di mitologiche ostesse e lamenti funebri simili a quelli greci: odori, suoni, canti, voci, traffici, mestieri ed eventi che potevano essere del Volga, ma anche del Mississippi; mirabolanti registri di sconosciuti parroci, maestri e farmacisti di luoghi mai sentiti, testamenti di vecchi giramondo per i quali il fiume era stato l’unico amore duraturo

La spedizione di Rumiz e dei suoi compagni parte in canoa dalle rapide di Staffarda, là dove le acque del Pian del Re diventano finalmente percorribili, poi, quando il torrente si allarga e diventa fiume, abbandona le canoe per i più tradizionali barcé ed infine, per l'ultimo tratto, adotta il Gatto Chiorbone, un originale clipper con un albero pieghevole per passare sotto i ponti.

Il viaggio ha come unica certezza il punto d'arrivo: la foce del fiume. Il percorso, che sembra a prima vista obbligato, è invece una continua scoperta, una perenne invenzione. Lo spazio del fiume è uno spazio chiuso; gli argini nascondono alla vista anche i paesi più vicini, segnalati a volte solo dalla cima di un campanile che spunta dietro la riva. Gli abitanti del Po sono uomini e donne che vivono in un mondo a parte, seppur vicino a quello della terraferma; le regole e le abitudini, ma anche i valori, sembrano differenti. Per loro, e poi per Rumiz, il fiume diventa un personaggio vivente, il nome perde l'articolo, è semplicemente Po, qualcuno da ascoltare e con cui dialogare.

Ma perché questo titolo enigmatico? Morimondo è il nome di un'abbazia cistercense, situata tra Vigevano e Abbiategrasso, non lontano dal Ticino, ma non proprio luogo fluviale. È qui che Paolo Rumiz aveva visto una misteriosa donna vestita di nero. Una nera signora, incontrata altre volte nel corso dei suoi viaggi: in un bazar di Kabul, sulla strada per Vienna, tra le brughiere della Slovenia. Una donna che sembra accompagnarlo sulle strade del mondo, sempre pronta a ricordargli qual è il suo destino, il destino di tutti. Ed è questa stessa donna che risorge dai ricordi mentre si cerca un nome per battezzare un barcé: Poi mi venne il nome, Morimondo, e ricordai. Venne all’improvviso e non lo dissi a nessuno. La donna di Morimondo, che apparirà ancora sulla riva del fiume, diventa personaggio chiave, invisibile ed onnipresente, di questa moderna odissea.

lunedì 28 luglio 2014

John Vaillant: La tigre

Primorje o Territorio del litorale è il nome della regione della Siberia orientale stretta tra il mar del Giappone e la Cina. Si trova a più di 14000 chilometri da Mosca, là dove la ferrovia transiberiana percorre l'ultimo tratto verso il sud prima di arrivare a Vladivostok. È una regione in parte montagnosa, ampiamente coperta da foreste e ricca di risorse naturali. Abitata fin da tempi ancestrali da popoli indigeni, dai costumi simili a quelli degli indiani d'America e che per secoli hanno vissuto in simbiosi con la loro terra. Il territorio, appartenente geograficamente alla Marciuria cinese, entrò a far parte dell'impero russo nella metà del XIX secolo e poi, dopo varie vicissitudini, nel 1922 fu conquistato definitivamente dalle forze bolsceviche.
Per i pionieri russi l'estremo oriente siberiano ha rappresentato un mondo nuovo da conquistare, con una graduale colonizzazione simile per molti versi a quella americana verso il Far west. Attualmente gli occidentali, russi soprattutto, ma anche ucraini o bielorussi, rappresentano il 90% della popolazione.
Il Territorio del litorale è anche la regione in cui vive ancora la tigre dell'Amur, uno dei più grandi e maestosi mammiferi terrestri. Un animale impressionante, lungo fino a tre metri e che, può, nei capi più imponenti, superare i 300 chili di peso. La caccia intensiva ha ridotto progressivamente il numero di esemplari e l'area occupata da questo felino. Dal secondo dopoguerra la caccia è stata vietata e l'estinzione sembra, almeno per il momento, se non evitata almeno ritardata.
John Vaillant è statunitense e vive in Canada a Vancouver. Scrittore viaggiatore e giornalista indipendente, racconta in questo libro una storia drammatica e affascinante. Il corpo di Vladimir Markov, cacciatore bracconiere viene ritrovato smembrato vicino alla sua capanna nella foresta attorno al villaggio di Sobolonje. Interviene l'Ispettorato tigre con a capo Jurij Trush, incaricato di svolgere l'indagine. Infatti tutto sembra indicare che Markov sia stato divorato da una tigre. La tigre, si dice da queste parti, non attacca l'uomo se non in casi particolari. La brutalità dell'azione lascia pensare ad una vendetta. Perchè dunque l'animale ha scatenato la sua collera su Markov e sul suo cane?
Il libro di John Vaillant comincia come un poliziesco ma in realtà non è un romanzo; le fotografie dei protagonisti ce ne convincono. È una storia vera, risalente al 1997.
Eppure nella narrazione seguiamo l'inchiesta di Jurij Trush come la trama di un giallo. Trush ha un compito molto difficile: fare in modo che la coesistenza tra le tigri e gli uomini si svolga senza incidenti. Difendere le une dagli altri e viceversa. La tigre è una preda pregiata, per la pelliccia ma anche per la carne e le ossa a cui si attribuiscono proprietà curative particolari. Ma è un animale pericolosissimo ed estremamente intelligente, capace di ricordare un torto subìto e di fare di tutto per vendicarlo. La tigre che ha attaccato Vladimir Markov sembra voglia uccidere ancora; Trush deve fermarla e, prima di tutto, scoprire che cosa ha provocato la collera della belva.
Qualcuno ha paragonato questo libro a Moby Dick. In effetti c'è la lotta tra l'uomo e l'animale, lotta che assume caratteri universali; il duello tra l'uomo e una belva che sembra adottare sentimenti e strategie simili a quelli umani: l'odio, la collera, il desiderio di vendetta. Una storia che, come quella della balena bianca, va molto al di là del semplice racconto di cacciatori e prede. Ma questo libro non è un romanzo e Vaillant non ha scritto l'equivalente forestale di Moby Dick come lo afferma una recensione; se non altro, e soprattutto, perché manca nella forma lo slancio poetico della prosa di Melville.
Ma se La tigre non è Moby Dick non è nemmeno solo la storia a cui ho accennato fin qui. Questo libro è molto di più. Vaillant fa delle profonde incursioni in campi diversi: la Geografia, la Storia, l'Antropologia e soprattutto l'Etologia. Il racconto degli avvenimenti drammatici svoltisi sulle rive del fiume Bikin si inserisce in un discorso molto più ampio e vario, tra il romanzo e il saggio. La tigre è un'opera ricca di spunti, intelligente ed accattivante che ci guida alla scoperta di un mondo arcano e misterioso, un universo in cui i rapporti tra uomini e natura sono retti da leggi primordiali e implacabili
Sospesa tra gli alberi, quasi impigliata, pende una falce di luna. Il pallido alone dissemina di ombre la foresta innevata, rendendola ancor più indistinte all'uomo che la sta attraversando e che ora prosegue a intuito, oltre che a vista. È a piedi e da solo, a parte il cane che gli trotta davanti, impaziente di prendere finalmente la via verso casa. Intorno a loro, sopra la boscaglia di sterpi, neri tronchi di quercia, di pino e di pioppo intrecciano nel buio del cielo una lacera volta di rami. Esili betulle, più candide della neve, sprigionano una parvenza di luce, ma è come la pelliccia di un animale in inverno : gelida fuori, scalda solo se stessa. Tutto è silenzio, nel letargo di questo mondo glaciale.

John Vaillant : La tigre Einaudi 2012. Traduzione di Duccio Sacchi

venerdì 18 luglio 2014

La rocca di Calascio

Una semplice torre di avvistamento, costruita, si pensa, intorno all'anno Mille a 1460 metri di quota. In un luogo di grande importanza strategica, da dove era possibile sorvegliare un ampio territorio e, in seguito, controllare una delle principali vie di transumanza verso la Puglia: il tratturo Magno.

I più antichi documenti citanti la rocca e il suo abitato risalgono però al XIV secolo, solo un po' più recenti rispetto a quelli che per primi evocavano l'abitato di Castel del Monte. Per questo si pensa che i due insediamenti abbiano la stessa origine: l'abbandono o almeno lo spopolamento, dell'abitato di Marcianisci o piuttosto di un insediamento successivo già meglio protetto dalle incursioni barbariche, situato nella piana sottostante di San Marco.

Attorno al primo torrione a pianta quadrata si costruirono successivamente quattro altre torri cilindriche, più piccole e collegate da mura con merlatura ghibellina a coda di rondine.
Ma la Rocca non divenne mai un vero castello, restando di dimensioni piuttosto limitate anche quando divenne proprietà di potenti famiglie, i Piccolomini prima, i Medici poi. Si edificò invece, sul crinale sottostante, un borgo fortificato, strettamente connesso al torrione.
Una piccola chiesa a pianta ottagonale, risalente al XVI secolo si trova un po' isolata dal borgo e dalla fortificazione e completa il sito.
Santa Maria della Pietà
Il paese si sviluppò e raggiunse una certa agiatezza, soprattutto grazie al commercio della lana, ma finì poi per essere quasi completamente abbandonato dopo il terremoto del 1703 e, definitivamente, nel secondo dopoguerra quando gli ultimi abitanti scesero nel sottostante paese di Calascio.
Calascio con più in alto il borgo di Rocca Calascio e la Rocca
Attualmente l'abitato di Rocca Calascio, compreso nel territorio del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, vive una seppur timida rinascita.
Quella che per molti abruzzesi è “la Rocca” per antonomasia, è certamente uno dei monumenti più sorprendenti e affascinanti della regione. Scenografia austera e incontaminata, ideale per molti film girati quassù, sagoma inconfondibile par manifesti turistici ma anche per un francobollo da cinquanta, ormai preistoriche, lire.
Non è la costruzione in sé ad attirare l'attenzione. O meglio, la torre attira sì il viaggiatore che, magari percorrendo una delle strade dell'ampia valle sottostante, si propone una visita per vedere da vicino quell'intrigante montagna coronata. In realtà però molte sono le roccaforti e i castelli ben più complessi e interessanti di quella semplice e modesta struttura quadrangolare. Nessuno però si trova in un sito così straordinario e singolare. Quasi un rifugio alpino; una costruzione umana integrata alla montagna e che ne rileva la cresta in un ultima parete rocciosa. Le principali montagne della regione circondano e fanno da sfondo ad un panorama straordinario: Il Gran Sasso, il Velino, il Sirente, i monti Marsicani, la Maiella. Ogni ora del giorno e ogni momento dell'anno propongono uno spettacolo unico e ammaliante. 
La Rocca davanti al monte Velino
L'aurora colora la Rocca e la cresta del monte Sirente
L'inverno è rude quassù, quando il vento non trova ostacoli e si scaglia contro le potenti mura. Allora la neve si accumula e il paesaggio si trasforma in uno scenario fiabesco. L'estate è la stagione della ginestra che ha saputo resistere al clima ed ora colora di giallo il crinale.
Sullo sfondo, davanti ai ruderi dell'abitato della Rocca,  Forca di Penne, valico del Tratturo Magno, a destra le pendici della Maiella