La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 12 aprile 2015

Lucerna


Il ponte di legno, Kapellbrücke (ponte della cappella) distrutto da un incendio nel 1993 è stato ricostruito rapidamente ed è ancora il simbolo della città. Dicono gli svizzeri che sia, dopo il Cervino, il soggetto più fotografato del paese. Ed in effetti la sua immagine è indissociabile da quella di Lucerna.

Siamo nella Svizzera tedesca, sul bordo settentrionale del lago dei Quattro Cantoni. Verso sud, vicinissime, le Prealpi e il monte Pilatus che fa da sfondo al panorama della città. Più lontane e più elevate le Alpi sono ancora ampiamente innevate.
Ora che il sole è calato le montagne portano un'aria fresca.
Lucerna è un nodo stradale e ferroviario importante ma qui, sulle rive del lago, ha l'aspetto di un grande borgo. Il centro della cittadina ha conservato e tutelato le sue vestigia medievali. Spesso lo “stile” medievale ha ispirato costruzioni molto più recenti.
Le insegne delle banche e i vari istituti di credito completano lo stereotipo (non usurpato) della ricca regione paradiso della finanza. Bandiere e gonfaloni colorano le facciate di molti palazzi.

Le vie sono animate, dai tavoli dei bar e dei ristoranti arriva un chiacchiericcio discreto ma ben udibile. I traghetti fanno la spola collegando le rive del lago, molti turisti passeggiano tra le stradine e le piazzette.

giovedì 2 aprile 2015

Nuova letteratura venuta da altrove

Da qualche anno ormai un vento nuovo soffia sulla letteratura italiana. Lo soffiano scrittori venuti da altrove e che hanno scelto, malgrado tutto, di vivere in questo Paese e di scrivere in italiano.
Le nuova produzione è stata catalogata sotto la definizione di Letteratura Migrante ed ha anche una bella rivista on line http://www.el-ghibli.org/. È -dice la presentazione del sito- il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante.
Il termine è però riduttivo, comodo per cercare una nicchia in libreria ma anche un po' restrittivo, giacché rinchiude questa produzione in un concetto di genere. Perché questi sono scrittori diversi tra loro, nello stile e a volte anche nei propositi. Hanno conquistato uno spazio in libreria ma, prima di tutto, per la qualità e l'originalità della loro scrittura. Già, perché in definitiva si tratta di Letteratura, senza se e senza ma, di letteratura italiana.
Già negli anni 1990 erano uscite le prime opere scritte da autori immigrati in Italia. Erano nate nell'urgenza (e questa caratteristica resterà in parte anche nelle opere più recenti). Urgenza di raccontare, di spiegare, di far capire una realtà che era fino ad allora descritta unicamente da chi non la viveva. Fatti drammatici, come l'omicidio di Jarri Maslo, il giovane sudafricano assassinato a Villa Literno nel 1989 erano serviti da scintilla. In questa prima vague il migrante era più testimone che autore, almeno così pensavano gli editori che consideravano necessario affiancare al narratore uno scrittore “professionista”, capace di mediare un scritto troppo rozzo. Fu così che nacquero opere firmate da binomi: ricordiamo tra tutte Io venditori di elefanti di Pap Kouma e Oreste Pivetta, pubblicata nel 1990. Pap Kouma, di origine senegalese è oggi, tra l'altro, direttore della citata rivista El Ghibli.
Tra coloro che decidono di prendere così la parola ci sono dunque dei veri scrittori. Molti hanno fatto il gesto estremo dell'esilio e hanno ottenuto le cittadinanza italiana. Si tratta di un gesto estremo perché predice un non ritorno, un allontanamento definitivo sempre traumatico dal paese natale. E questo gesto, eminentemente politico ma anche ricco di implicazioni personali, ha avuto come motivazione-corollario l'appropriazione di una lingua che non è quella materna. Ciò non vuol dire rompere i ponti con il passato, tantomeno rinnegare la propria storia. Per dirla con le parole del filosofo francese Gilles Deleuze, è seguire une linea di cresta, in equilibrio tra due mondi, senza rinnegare il primo né adottare ciecamente il secondo, creando uno spazio nuovo che non è semplicemente una sintesi dei due.*
Cheikh Tidiane Gaye è di origine senegalese. Scrive romanzi (l'ultimo, pubblicato da Jaca Books nel 2013 è Prendimi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera), è traduttore in Italiano di Léopold Sédar Senghor ed è anch'egli poeta ormai riconosciuto, un poeta impegnato, anche politicamente. Cheikh Tidiane Gaye si definisce figlio oltre che di Senghor anche di Aimé Césaire da cui ha ripreso il concetto di negritudine. Rifiuta la categoria di poeta migrante. Ha scelto l'Italiano per passione, passione per le opere dei grandi autori del passato, a partire da Dante, fino a Leopardi e a Ungaretti. Cheikh Tidiane Gaye ha letto la poesia civile di Pasolini. Ecco come spiega la sua scelta linguistica: Quando partorisco i miei versi, le parole mi vengono in italiano. Mia madre vive in Senegal e spesso mi fa notare che non parlo più bene il wolof, c’è una mescolanza notevole di parole wolof e italiano. Cosa possiamo analizzare partendo da questa costatazione? Mi domando veramente chi sono, chi siamo? Ci stiamo “colonizzando” spontaneamente e/o linguisticamente? Per nulla, credo. A mio parere sono gli effetti dell’interculturalità e della multiculturalità. Ecco la bellezza dell’intercultura, l’unico strumento idoneo per “universalizzare” l’umanità e che permette di poterci arricchire l’un l’altro.
Sotto il titolo Rime abbracciate sono raccolte le sue ultime poesie, pubblicate insieme a quelle della poetessa Maria Gabriella Romani Kouacou, in edizione bilingue (Italiano/Francese) dall'editore L'Harmattan nel 2012.
Tra le voci più interessanti di questa nuova letteratura emerge anche quella di Kossi Kombla-Ebri. Nato nel Togo, dopo aver cominciato i suoi studi in Francia, è arrivato in Italia nel 1974 dove ha studiato medicina laureandosi all'università di Bologna. Attualmente vive e lavora in Lombardia.
Ricca e varia e la sua bibliografia: dal racconto al romanzo. Kombla-Ebri è anche l'inventore di un neologismo imbarazzismi che ha scelto come titolo per una raccolta di piccole storie di fatti quotidiani, che mettono in luce situazioni di razzismo ordinario, volontario o inconsapevole.
Per Kombla-Ebri scrivere in Italiano è un'evidenza. È la lingua delle persone che incontra e con cui parla ed è a loro che si rivolge con i suoi scritti. E da loro che vuole farsi capire. Migrare -spiega Kossi Kombla-Ebri- significa lasciare tre madri: quella corporale, la madre terra e la lingua madre. A differenza del Francese, lingua dei colonizzatori, verso l'Italiano non c'è rancore anche se abbandonare la propria lingua non è mai un passo agevole: ci si installa in una doppia assenza, dal paese natale e dal paese che ci accoglie. Aggiunge Kombla-Ebri, con un'immagine ricca di senso: L'emigrazione è come spostare un'anima da un corpo ad un altro.
Spesso chi sceglie di scrivere in una lingua diversa da quella natale non l'assume però nel suo filone ortodosso, si colloca invece in una dimensione minore della lingua. Non una lingua minore, ma che resta sui bordi, come in atto di resistenza; perché non è macchina di potere ma linea di fuga*. Quando si è al margine -dice Kossi Kombla-Ebri- si ha una visione più aperta del mondo, mentre se si è al centro non si vede ciò che è alle spalle.
La letteratura migrante ha sempre un ruolo costruttivo, quasi taumaturgico. Essa deve vincere la nostalgia, la saudade. Come nel pensiero presocratico dove l'Essere non esiste per sé ma nella sua relazione con gli altri.
Ecco quindi che nel contemporaneo di una società umana che sembra richiudersi, in cui l'altro è sinonimo di pericolo, queste voci sono necessarie, salutari, aprono una finestra sul mondo, permettono di cancellare stereotipi e pregiudizi. Che la lingua italiana, bistrattata tra premier autority e altri tic anglofoni serva da vettore in questo processo è un fatto estremamente positivo.

*Gérard Briche
Cheikh Tidiane Gaye: Vita
La vita è una strada
è una strada che accoglie il sole e la luna
la vita è blu
la vita è bianca
la vita è rossa
la vita ha più di due ali
vola, vola nei cieli blu
grigi
la vita non ha colore.

Essa è una duna di sabbia
che nasconde le nostre scritture
le nostre opere
i nostri sogni
e il nostro respiro.

La vita è una parola
la parola può diventare un’arpa per l’anima
ogni parola può essere una luna

la vita è:
il linguaggio che l’orologio non cont
eggia.