La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 29 dicembre 2012

John Steinbeck: Furore

Il chiosco centenario (era li dal 1911) che, aggrappato ad una delle colonne del porticato di piazza Carlo Felice a Torino, vendeva libri usati a lettori dalle modeste risorse, ha ormai chiuso definitivamente i suoi battenti in legno. Gli eredi del fondatore, Giovanni Battista Frogola hanno, da tempo, aperto una libreria lì vicino, sotto i portici della stessa piazza e l'ultimo gestore della bancarella è stato sfrattato dal comune, in nome di una strana modernità che sembra mal sopportare queste reliquie del passato.
Fu lì che comprai per 5000 lire, (il prezzo di copertina era di L.25) un libro della collezione Letteratura edito da Valentino Bompiani: Furore di John Steinbeck.
L'edizione (la settima) è del 1941, XX dell'era fascista come lo precisa il frontespizio. E sorprende un po' scoprire che in quel tempo, dopo vent'anni di dittatura, mentre il paese era in guerra e già erano evidenti i segni della catastrofe, qualcuno pensasse alla pubblicazione del romanzo di uno scrittore come Steinbeck; singolare soprattutto che il MinCulPop, il ministero della cultura popolare incaricato di controllare ogni pubblicazione, non avesse trovato nulla da ridire.
Nel 1940 il regime aveva bloccato l'edizione di Americana, l'antologia curata da Elio Vittorini e alla quale avevano collaborato anche Pavese e Montale e ne aveva permesso la diffusione solo dopo aver imposto una prefazione molto critica nella quale Emilio Cecchi definiva gli Stati Uniti come un paese che, traviato da un falso ideale di benessere, brancola cercando la propria unicità etnica ed etica.
Per Vittorini invece, la letteratura americana esprimeva libertà ed energia, qualità sconosciute in un'Italia chiusa e ridotta ad un'autarchia anche culturale.
Il romanzo di Steinbeck aveva sicuramente questi attributi. Era uscito negli Stati Uniti nel 1939, solo un anno prima quindi, e nel '40 aveva vinto il premio Pulitzer e John Ford ne ne aveva tratto un film.
Furore racconta la storia dei contadini della scodella di polvere, la Dust Bowl, quella regione al centro degli Stati Uniti che nel 1930 fu colpita da una terribile siccità. È la storia degli Okies costretti ad emigrare verso la California scacciati dalla miseria e dalla fame. 
Il titolo originale The Grapes Of Wrath ( I grappoli dell'ira) è tratto da una poesia della scrittrice newyorchese Julia Ward Howe ma, risalendo più lontano, evoca un passo dell'Apocalisse di San Giovanni.
La citazione dell'Apocalisse non è solo aneddotica. Fin dalle prime pagine Furore ci trascina con un soffio biblico: una piaga divina si abbatte sull'Oklahoma. Un sole di piombo brucia la terra, rare nuvole appaiono e poi scompaiono lasciando non pioggia ma solo polvere e desolazione.
Una notte il vento impazzò, zappò furiosamente la terra attorno alle radici del granoturco, e il granoturco si mise a lottare per difesa contro il vento agitando le sue foglie indebolite, ma nella lotta le radici risultarono denudate delle zolle di terra protettrice ed ogni pianta risultò inclinata nella direzione del vento.
L'alba venne, ma non il giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che emanava una scialba luce crepuscolare, e col progredire delle ore il crepuscolo ripiombò nella tenebra e il vento fischiò ed urlò sul granturco abbattuto.*
Impossibile resistere al cataclisma. Di fronte ad esso gli uomini, le donne e i bambini, diventano creature umane, esseri umani; l'umano non è che aggettivo, sono esseri viventi, vittime della catastrofe naturale al pari degli altri animali e delle piante.
Ma se gli abitanti di queste terre sono costretti a partire non è solo a causa della siccità. Non è solo la Natura ad essere responsabile del fallimento dei contadini: La banca o l'anonima, intende... vuole... ha bisogno...esige.* 
I latifondisti arrivarono sul posto, o più spesso i loro rappresentanti. Arrivarono in berlina, e saggiavano con le dita la terra povera, e qualche volta facevano eseguire dei sondaggi.*
Furore racconta la storia di un'America proletaria, sconfitta dai grandi meccanismi economici contro i quali questi contadini non possono battersi: È doloroso dicevano i rappresentanti, ma l'Anonima non è responsabile di questa situazione. Voialtri vi trovate su terreni che non vi appartengono. Fuori di qui, in un altro Stato, adesso che viene l'autunno potete mettervi a cogliere il cotone. Potete magari ottenere il sussidio. Perché non andate in California?* 
È una storia di emigrazione, cantata da Woody Guthrie o più recentemente da Bob Dylan e da Bruce Springsteen (The Ghost of Tom Joad), che assomiglia a tutte le altre storie di uomini e donne messisi in cammino alla ricerca di pane e lavoro.
Gli Okies di Steinbeck assomigliano come due gocce d'acqua a tutti gli emigrati di tutti i tempi, le pagine di questo libro sembrano parlare di un mondo quanto mai attuale e che noi conosciamo bene:
Ora gli emigrati sono trasformati in mendichi. Quella gente che aveva vissuto di stenti sui magri prodotti d'un pezzo di terra mediocre, adesso ha l'intero Occidente in cui spaziare. E lo rovistano da un capo all'altro, e le strade sono convertite in fiumane di gente, e gli argini dei corsi d'acqua sono presidiati da falangi di straccioni.*
E come sempre gli abitanti del posto non sono disposti ad accogliere quest'orda di miserabili, difendono la propria casa, il proprio benessere, la propria tranquillità: 
Ed ecco che nel West subentra il panico, ora che i nomadi vanno moltiplicandosi sulla strada. I proprietari sono terrorizzati. Individui che non avevano mai provato la fame, ora vedono questa fame per la prima volta negli occhi degli affamati. Individui che non avevano mai desiderato nulla con vero ardore, ora vedono per la prima volta la rossa fiammata del furore che l'indigenza accende in fondo agli occhi dei mendichi. Ed ecco i frolli cittadini, e i fiacchi abitatori dei sobborgh, organizzarsi a difesa, e dinnanzi all'imperioso bisogno di rassicurare se medesimi persuadersi di essere buoni e chiamare cattivi gli invasori; perché quando si decide a prendere le armi per ammazzare il prossimo, è buona regola che l'uomo pensi così.*
Senz'altro questa storia ci ricorda qualcosa.
*Traduzione di Carlo Coardi.

mercoledì 12 dicembre 2012

Robert Louis Stevenson: In viaggio con un asino nelle Cévennes

Uno dei primi libri, se non sbaglio, che ha fatto scoprire Stevenson agli amanti dello stile- ricco di affascinanti dimostrazioni della sua tendenza a vedere il mondo come una bohème non proprio raffinata, ma glorificata e pacificata. Ricordo benissimo di aver provato alla lettura, ormai più di dieci anni fa, l'impressione di vedere il viso dell'autore, allora sconosciuto dal pubblico, apparire ai miei occhi per la grazia di uno stile.
Henry James

Camminare con un asino non è solo avere accanto un animale da soma capace di portare i bagagli o eventualmente i bambini. L'animale, dall'intelligenza non comune, diventa un singolare compagno di viaggio; compagno da capire, da accettare con le sue qualità e la sue particolarità. L'andatura lenta permette di apprezzare l'aspetto meditativo del camminare, impregnarsi nell'ambiente circostante senza lasciarsi sopraffare da un eventuale aspetto agonistico o semplicemente sportivo del trekking. Il carattere specifico dell'animale spinge il camminatore ad instaurare con lui una relazione di comprensione e di compassione intesa non come "pietà" dell'uomo nei confronti di specie inferiori ma come possibilità comune di confrontarsi con il reale e di capirlo. (Ralph R. Acampora). 
È un'attività che si sta sviluppando anche in Italia dove sono abbastanza numerose le strutture che propongono animali e assistenza per esperienze di questo tipo. A Tagliacozzo, in Abruzzo abbiamo conosciuto Il Casale le Crete http://www.casalelecrete.it/index.htm, gestito da appassionati sostenitori del camminare lento che mettono a disposizione i mansueti compagni par escursioni sul vicino monte Velino. È un'idea che viene dalla Francia ed il precursore ne è probabilmente lo scrittore scozzese Robert Louis Stevenson che fece conoscere la sua esperienza in un libro diventato celebre: In viaggio con un asino nelle Cévennes. 
Nel 1978, in occasione del centesimo anniversario del viaggio di Stevenson, è stato creato un percorso che ricalca, il più esattamente possibile, quello dello scrittore scozzese. 
L'itinerario Stevenson è diventato un richiamo turistico, un tentativo di rivitalizzare, anche economicamente, questa regione della Francia ricca di attrative per gli amanti di spazi naturali ancora abbastanza preservati. Attraverso le valli e i colli delle Cévennes, si possono percorrere numerosi sentieri, sostando anche nei molti gites d'étape pronti ad accogliere il viandante. Percorsi che possono essere, per l'appunto, effettuati anche in compagnia degli asini che le strutture del luogo mettono a disposizione. 
Il massiccio delle Cévennes, propagine meridionale del massiccio Centrale, culmina ai 1669 metri del monte Lozère. Non è quindi alta montagna; il territorio però, assai impervio, spesso boscoso, è di difficile accesso e ciò ne ha preservato il carattere selvaggio, rude e nello stesso tempo suggestivo. Robert Louis Stevenson è stato qui nell'autunno del 1878. Un periodo della sua vita piuttosto complicato, in cui, per riassumere, aveva voglia di cambiare aria. Il suo viaggio nelle Cévennes durò una dozzina di giorni. Percorse il massiccio da nord a sud, partendo da Monastier per arrivare a Saint Jean du Gard. Non fu un viaggio di tutto riposo. Improvvisi e torrenziali acquazzoni (caratteristici della regione), percorsi apparentemente semplici che si trasformavano in labirinti, indicazioni sbagliate, misero a dura prova la volontà del camminatore. Stevenson aveva comprato un'asina, grigia e grande come un topolino, e l'aveva chiamata Modestina, a causa della prima impressione che gli aveva procurato il suo carattere. I rapporti con la sua compagna non furono subito ottimi. I due non si capivano. Modestina (senz'altro perché caricata male) camminava molto lentamente. Molte erano le occasioni per fermarsi: un cardo saporito, la porta aperta di una casa, un asino del sesso opposto. Stevenson, non molto paziente, per farla avanzare la batteva, magari a malincuore ma in modo assai violento. A poco a poco però Modestina diventa una vera e propria compagna di avventura. I'io del narratore si trasforma in noi, l'asina partecipa alle decisioni dell'uomo, esprime il suo parere, impone il suo punto di vista. Non a caso il titolo del libro che racconta questa spedizione mette in avanti l'accompagnatore rispetto al luogo.
Il somaro non ama la strada diritta, preferisce prendere la via che si perde tra i campi, preferisce sostituire il vagabondare al percorso segnato. Il viaggio si trasforma in erranza, riserva sorprese e svela un mondo affascinante. Stevenson ama le notti passate sotto le stelle, i momenti in cui il giorno si spegne o quando la prima luce appare e la realtà sembra trasformarsi. Feci un giro d'orizzonte, per sapere in quale parte dell'universo mi ero appena svegliato. Ulisse arenatosi ad Itaca e l'animo in preda alla dea non si era smarrito così piacevolmente. Avevo cercato un'avventura per tutta la mia vita, una semplice avventura senza passione, come quelle che capitano ogni giorno ad eroici viaggiatori e ritrovarmi così, un bel mattino, per caso, all'angolo di un bosco del Gévaudan, straniero al mondo circostante come il primo uomo sulla terra, continente perduto, era come trovare la realizzazione di una parte dei miei sogni quotidiani.

Nessuna locanda, nessun albergo, neanche il più accogliente, potrà competere con un cielo di stelle e con lo spettacolo di un'alba che spunta tra i colli:

Quando mi svegliai di nuovo (domenica 29 settembre) molte stelle erano scomparse. Solo le più brillanti compagne della notte ardevano ancora, visibili sopra il mio capo. Lontano, verso est, scorsi una fine foschia luminosa sull'orizzonte, come era stato per la via lattea, quando mi ero svegliato la volta prima. Il giorno era vicino. Accesi la lanterna e, alla sua tenue luce, misi le scarpe e abbottonai i gambali, poi ruppi un po' di pane per Modestina, riempii una borraccia alla fontana e accesi il fornellino ad alcol per fare bollire un po' di cioccolata. Le nebbia bluastra si stendeva nel vallone dove avevo piacevolmente dormito. Presto una larga stiscia arancione, con sfumature d'oro, avvolse le creste dei monti del Vivarais. Una gioia grave si impadronì del mio animo di fronte a questo graduale e dolce spuntar del giorno.
E quando Modestina sarà dicharata «inabile», Stevenson concluderà un viaggio impossibile da proseguire senza l'animale che ne era diventato elemento essenziale. 
Il racconto di Stevenson è ricco di paesaggi, di riflessioni e di aneddoti, spesso intrisi di intelligente ironia o autoironia anche se non esente da una certa misoginia. I personaggi incontrati, in una regione carica di storia (le lotte tra cattolici e protestanti Camisardi la cui comunità è ancora presente e vivace), la natura, descritta con sapienza e con sensibilità, le considerazioni e le meditazioni del viaggiatore, immergono il lettore nello spazio naturale, ne fanno sentire i suoni e gli odori, l'umidità della sera e il caldo del sole, il rumore del vento e i gridi degli animali. 
Alla ricerca di un contatto panico con il mondo, come dice Stevenson in un passagio, diventato ormai celebre, del libro: Io non viaggio per andare in qualche posto ma per viaggiare; viaggio per il piacere di viaggiare. L'essenziale è muoversi; provare un po' più da vicino le necessità e i rischi della vita, lasciare il soffice letto della civiltà e sentire sotto i piedi il granito terrestre con, a volte, la lama tagliente della selce.

martedì 4 dicembre 2012

Gran Sasso d'Italia: Il ghiacciaio de Calderone

Salire sulla montagna più imponente del massiccio del Gran Sasso è un'esperienza sorprendente. Le crode e le guglie trasformano l'Appennino: abbiamo l'impressione di ritrovare qui un angolo di Dolomiti scivolato a sud.
Il punto di vista di eleva, nettamente, aldilà di ogni altra cima circostante, l'orizzonte si allarga all'infinito verso un mare Adriatico che si vede chiaramente e un Tirreno che si intuisce.
Il calcare delle rocce brilla al sole e quasi si confonde con le ultime chiazze di neve che hanno resistito, protette dall'ombra.

Rivolta verso nord, sul versante teramano, la cresta del Corno Grande racchiude, come in uno scrigno il ghiacciaio del Calderone.
Si continua a chiamarlo così, anche se ormai è stato declassato a semplice nevaio: uno degli esempi, numerosi, delle conseguenze dei cambiamenti climatici.
Una scomparsa più o meno lenta, secondo le annate, ma che sembra irreversibile. Il ghiacciaio più meridionale d'Europa aveva sottratto questo «titolo» nel XX secolo al Corral del Veleta, nella Sierra Nevada, in Spagna, quando quest'ultimo si era estinto. Ormai sembra seguirlo sulla stessa via.
Pare che il Calderone, così come lo vediamo oggi, sia relativamente moderno. Un antico, grande ghiacciaio, occupava tutto il vallone che va verso i Prati di Tivo ma, scomparso da tempo, si sarebbe riformato solo a partire dal XV secolo.
Ne parla De Marchi nella relazione alla sua prima celebre scalata:
Tutti quelli che non sono stati alla cima dicano che vi è una Fontana in cima. Dico che non vi è Fontana nessuna, ma che vi è bene un gran vallone tra il Monte di Santo Niccola et il Corno Monte, dove sempre vi è la nieve alta quindeci o venti piedi, e più in alcun luocho dove la nieve e ghiaccio sta perpetuamente.
Si arriva quassù salendo dal Rifugio Franchetti, oppure, se si arriva da Campo Imperatore, seguendo la via normale verso la vetta Occidentale per poi deviare verso il passo del cannone.
Ma si può osservare il Calderone anche dalla cresta che sale verso la cima.
È uno spettacolo straordinario; non solo i colori ma anche i suoni sono inconsueti, portati lontano dall'aria rarefatta.

venerdì 23 novembre 2012

Bernard Ollivier: La lunga marcia


Bernard Ollivier è puntiglioso al limite della mania.
Ha deciso di percorrere a piedi l'antica via della seta, partendo da Istambul e dirigendosi verso l'oriente. Vuole fare il percorso a piedi e quando è costretto, per cause di forza maggiore, ad accettare un passaggio, il giorno dopo torna indietro e riprende la sua marcia esattamente dal punto in cui l'aveva interrotta.
Il viaggio verso la Cina è stato preparato da una prima lunga camminata che da Parigi lo ha portato a Santiago di Compostella. Più di 2300 chilometri sulle traccie dei pellegrini che, fin dal medioevo, per devozione o per scommessa personale si recano sulla tomba di San Giacomo.
Ollivier ha dunque alle spalle un sostanzioso allenamento ma per la sua nuova avventura le condizioni saranno ben più difficili. Non più le tranquille campagne francesi e spagnole ma un mondo a lui sconosciuto, spesso scosso da conflitti, da tensioni politiche, sociali, economiche.
Sul treno che lo porta verso Istambul, dove ha deciso di stabilire il punto di partenza della sua lunghissima camminata, Ollivier riflette e rimugina sul senso della sua impresa. In molti, familiari e amici, hanno tentato di dissuaderlo: ha più di sessant'anni, sono avventure che mal si adattano ad una persona sulla soglia della vecchiaia: Mai come in questo momento, di fronte alla notte nera, ho dubitato della riuscita del moi progetto.
È in seguito ad un periodo di crisi personale che l'ex giornalista ha deciso di mettersi in cammino. Arrivato all'età della pensione è rimasto solo, dopo la morte della moglie, i figli ormai adulti, una vita professionale ormai terminata. Decide di mettersi in cammino per sfuggire al senso di depressione che cominciava ad angustiarlo.
Siamo nel 1999, il millennio è al termine. Per Ollivier è l'inizio di un lungo viaggio che, in quattro tappe, lo porterà dalle porte dell'Europa alla Cina.
Attraversare l'Anatolia è la prima impresa. Tremila chilometri di marcia, attraverso lande desolate, su strade sconosciute, sotto un sole cocente. Ogni incontro può trasformarsi in festa o in pericolo. I terribili cani da pastore kangals ma anche i jandarmas (gendarmi turchi) o i banditi pronti ad aggredirlo mettono a dura prova la sua resistenza. Sono però gli incontri di persone accoglienti e amichevoli, spesso dalle straordinarie risorse che, superando la barriera della lingua, lo ricaricano e danno un senso alla sua prova.
Il viaggiatore impara poco a poco a spogliarsi del superfluo. Camminare con uno zaino per chilometri in un paese sconosciuto fa sentire il peso di ogni oggetto, fino ad allora considerato indispensabile ma che in realtà non lo è; fa apprezzare il cibo quando, dopo giorni di privazioni, la pietanza, un po' più elaborata, diventa una prelibatezza; fa capire l'importanza di un incontro dopo ore e ore di solitudine.
Si è potuto osservare, soprattutto nei pellegrini, che quando si raggiunge la media di trenta chilometri al giorno, l'allenamento fisico neutralizza la percezione del corpo. In quasi tutte le religioni, la tradizione del pellegrinaggio ha come obiettivo essenziale, attraverso il lavoro dell'essere fisico, l'elevazione dell'anima: i piedi sul suolo, ma la testa vicino a Dio. Da qui l'aspetto intellettuale del camminare che i beoti non sospettano.
La prima tappa si concluderà in modo forzato: una malattia lo costringerà a tornare a casa per curarsi. Il viaggio però, alla frontiera tra Turchia e Iran, è solo interrotto e, l'anno seguente, Bernard Ollivier ritroverà la forza e la motivazione per riprenderlo, esattamente dal punto in cui era arrivato, in direzione di Samarcanda.
Deserti, montagne, villaggi perduti, popoli dai modi di vita sconosciuti e dai codici sociali differenti. Il cammino è una scoperta continua, nel bene e nel male: la via della seta di cui parlano i libri non esiste più, qualche caravanserraglio spesso ridotto a rovina è la sola testimonianza rimasta di quell'epopea. Spesso il mondo moderno è arrivato solo con i suoi aspetti negativi: inquinamento, armi, conflitti.
L'ultima tappa è la più difficile. Attraverso la Cina, il camminatore è sempre più solo. Gli incontri sono rari e sempre più all'insegna del commercio che dell'amicizia: In Asia centrale camminavo tra amici. Eccomi ormai a casa di fornitori.
La motivazione che lo aveva messo in cammino comincia a scemare e il morale è sempre più basso.
In quest'ultimo lungo tratto attraverso le immense pianure cinesi, il viaggio di scoperta e di incontro sembra cambiare senso, si trasforma in un atto di volontà, una sfida personale: Camminare, accamparsi, mangiare, dormire, poi camminare ancora, questo è adesso il mio viaggio. La voglia di abbandonare è spesso molto forte: Come occupare lo spirito in questo vuoto cosmico, in mezzo al nulla, in cui niente attira il moi interesse? Il racconto di Ollivier si fa più introspettivo, la curiosità per il mondo circostante lascia il posto ad un esame personale, ad una ricerca in se stesso del senso del suo agire.
Ollivier arriverà a Xian, al termine di una passeggiata di 12000 chilometri.
Come spesso accade il viaggio lo ha cambiato.

La Fondazione Seuil, fondata da Bernard Ollivier nel 2000, si impegna ad aiutare giovani delinquenti a ritrovare il proprio equilibrio dopo una "lunga marcia". Insieme a un accompagnatore, in due si recano per quattro mesi in un paese straniero, di cui non conoscono la lingua. Percorrono duemilacinquecento chilometri con lo zaino in spalla attraverso sentieri o strade secondarie europee, con un solo obbligo: non portare con sé musica registrata. Fanno campeggio, fanno la spesa e cucinano. E camminano. Il viaggio, organizzato in totale accordo con i genitori, i giudici e gli educatori, può costituire per giovani dai sedici ai diciotto anni un'alternativa al carcere.La fondazione è finanziata, oltre che dai contributi dei soci, dai diritti d'autore di questo libro.

mercoledì 14 novembre 2012

Alta valle del Tirino

Come terra che bolle
Al sole bruciano i colli.
La ginestra si piega
Agitata dal vento,
Dissemina il giallo del fiore
Resiste
Per ora, nell'ultima estate.
Passa veloce una cornacchia
Retta dallo scirocco,
Nel volo immobile,
Si allontana, poi piomba nel vallone
E scompare.

Un'altra si posa,
Sulla macerina.
Dal calcare che i licheni fanno di ruggine.
Mani antiche
Hanno accatastato quelle pietre
Liberando poveri pascoli
E campi di miseria.

Sorprendente mondo e senza tempo
Rimasto uguale
Oggi, come quando Bruto Sceva
E i Vestini si battevano in questi campi polverosi.
Come quando greggi transumanti
E scarponi chiodati
Ne calpestavano la terra.

Più lontano è passato un fuoco
E ha lasciato un'impronta scura.
Brillano di verde
Come sopravvissuti ora pacati
Dopo la paura
Gli alberi fratelli.
Passa il giorno
Le ombre si dilatano e scavano le valli.
Con il sole che declina, cala il vento
Un momento di silenzio
E l'odore del modesto timo
Si spande nell'aria.
Meraviglioso mondo
Abbandonato
Duro e ostile nei lunghi inverni
Scarno ma vivo
Nella sera d'estate.

domenica 4 novembre 2012

Bevagna: 25 aprile 2012


I turisti e gli abitanti della cittadina sono assai numerosi nelle vie del centro medievale e già affollano i tavoli dei caffé. 
Il chiacchiericcio generale è sottolineato ogni tanto dallo scampanellare di un ciclista. Le antiche pietre dei monumenti circostanti si scaldano e si colorano al sole. Chiese e palazzi offrono begli scorci mai monotoni.
 Entrando nella chiesta di San Silvestro costruita nel 1195 da Maestro Binello dice l'epigrafe (come la dirimpettaia San Michele) e mai terminata, si lascia il brusio per un silenzio secolare. 
L'ambiente è austero e suggestivo. Poche decorazioni, come nel più antico stile romanico; una scalinata centrale porta all'altare mentre, dalle navate laterali si scende alla cripta. Su un lato, la base del campanile, mai costruito.
Uscendo, ritorniamo nel presente. Oggi Piazza Silvestri è animata. In questo venticinque aprile si ricorda il sessantasettesimo anniversario della Liberazione.
Una piccola banda musicale intona le note delle canzoni della Resistenza.
Qualche anziano, forse tra gli ultimi reduci di quell'epopea, sfoggia fieramente un fazzoletto tricolore.

L'Associazione Nazionale Partigiani ha organizzato, nella settimana dedicata alla Pace, una corsa a piedi che, in sei tappe, riunisce i monumenti ai caduti delle frazioni circostanti.
Per i meno intraprendenti una passeggiata su un tratto del percorso, può essere sufficiente. È una giornata primaverile, le nuvole corrono veloci e, a momenti, coprono il sole, ma l'aria è calda e nella campagna i colori sono vivi.
Fuori dal borgo l'animazione sembra lontana. Dopo aver superato su un ponticello il fiume Timia che con un largo giro, scorre attorno alle mura, la strada si allontana dal paese, salendo sulle colline. Da qui Bevagna appare tranquillamente distesa tra prati fioriti.

sabato 27 ottobre 2012

Mario Luzi: da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini

Costa dei trabucchi
Stasi - morta l’immagine,
a picco, in se medesima. A piombo
caduta la visione, decomposta in brani,
esatta l’insolazione.
Occhio verde del fiume -
è luglio - tra il fogliame;
vetro pigro-fluente,
verde, verde liquame.
Canne, erba, muschio, fiume,
verderame, verde quasi bitume.
Specchio di chiari cieli,
dov’è radura, di nubi.
Delizia nello stare,
pigrizia nell’andare
dell’acqua, delle creature.
Oh estate, minima stazione
d’immensa verità. Nume.
 

domenica 14 ottobre 2012

Castel del Monte: passeggiata notturna


Fu sul colle oggi detto appunto della battaglia che l'esercito romano, condotto dal console Bruto Sceva, sconfisse i Vestini. Erano le terre di Aufinum, l'attuale Ofena. (Gli archeologi hanno rinvenuto i resti di un insediamento con tre cinte murarie e lo hanno chiamato per questo Città delle tre corone). Poi questo borgo fortificato venne abbandonato.
La Storia racconta che, a poche centinaia di metri, mille anni dopo, alla fine del X secolo gli abitanti di Marcianisci, un villaggio formatosi nei pressi della chiesa di San Marco, nell'omonima piana, decisero di abbandonare le loro case per rifugiarsi in luoghi più sicuri. Troppo frequenti erano le scorrerie dei barbari si dice. In un primo tempo si spostarono di poco, sulle pendici di un altro modesto colle lì vicino. Pensavano forse, che la posizione fosse più facile da proteggere. Ma la precauzione non fu più sufficiente nel secolo successivo e anche queste abitazioni furono abbandonate. Gli abitanti si allontanarono. Alcuni salirono sul monte dove poi sarà costruita la rocca di Calascio, altri risalirono le pendici sul lato nord della valle, dove costruirono un borgo fortificato, il Ricetto, primo nucleo del paese di Castel del Monte.
Se questo racconto è vero, o almeno verosimile, nessuno sa però perchè quegli antichi abitanti decisero di separarsi. Chissà come avvenne questa prima, anche se breve, migrazione? Parenti, amici, vicini? Perché ci fu chi salì su un colle e chi su un altro? Seppur non enorme, la distanza tra i due gruppi era notevole. Perché lasciare così, senza motivo, la gente con cui si era vissuto fino ad allora. Quale disaccordo li spinse a dividersi? 
Nel silenzio della sera il paese appare deserto. La luce dei lampioni illumina di un tono caldo il selciato e i muri di pietra. 
Il vento fa cigolare un'imposta che, ad una raffica un po' più forte sbatte con un colpo secco. Un gatto sguscia rapidamente dalla porta vuota di una casa abbandonata e si perde tra le stradine. 
Più che durante il giorno, gli scorci sembrano appartenere ad un tempo indefinito; le ombre cancellano i dettagli della modernità; riportano il borgo al momento della sua costruzione, quando, pietra su pietra, a partire dalla sommità del colle, si costruì questo groviglio di abitazioni, una addossata all'altra, con intrichi di viuzze e passaggi ad arco, a copiare il declivio del monte.
Solo la voce di televisore acceso, per un attimo, ci riporta nel presente, con il suo dialogo incongruo, caratteristico nella sua inetta banalità.
Nella parte più bassa del paese la facciata della chiesa, più chiara, è una larga vela su un lato della piazzetta. Al centro di quest'ultima, come un monumento, sta un pozzo in pietra. 
Su uno dei lati della piazza, un muretto fa da balcone sulla valle. La valle di San Marco è nel buio.Le luci di un paese lontano luccicano come ad intermittenza. 
Sotto le mura, in basso, il boschetto freme nel vento e si colora a tratti in macchie più chiare.
Siamo in estate ma l'aria e fresca e qualcuno ha acceso un camino. 
Un odore di fumo e di resina si infila sotto l'arcata dello sporto e si mescola a quelli della legna accatastata al riparo e dell'umidità del muro.
Percorriamo le lunghe scalinate che hanno visto passare secoli e generazioni di montanari. Ad uno slargo, il personaggio del monumento all'emigrante con la sua valigia in bronzo è ancora pronto a partire.

giovedì 4 ottobre 2012

Attorno al monte Capo di Serre

Un'iscrizione, all'interno della chiesa parrocchiale di Castel del Monte, cita un'altra chiesa, dedicata a Sant'Angelo presente sul territorio. Ma nessuno sa se effettivamente, in passato, l'edificio esistesse veramente. Oggi solo un'edicola, eretta nella parte più orientale del paese fuori le mura, conosciuta con questo nome, invita il passeggero ad una sosta e alla preghiera.
Monte Capo di Serre
Qui la strada, abbandonate le ultime case, si trasforma in mulattiera e si inerpica verso le pendici di monte Capo di Serre (1771 metri) e il valico omonimo. È il cammino verso il versante pescarese del Gran Sasso: verso il Voltigno, le terre di Carpineto della Nora, Villa Celiera. Una larga enclave tra il territorio casteldelmontese e quello di Villa Santa Lucia appartiene però al comune di Ofena, situato molto più in basso nella valle del Tirino.
Dopo circa un chilometro, la mulattiera, ormai quasi sentiero, biforca. Prendendo a destra si scende verso la valle e si arriva rapidamente ad un antico fontanile in pietra, ormai asciutto: lo Stincone. 
La fonte dello Stincone
Oggi abbandonata, la sorgente era nel passato un punto d'acqua importante, vicino ai campi seminati della valletta.
Dall'altro lato del bivio, la via sale verso il valico per raggiungere rapidamente e sfiorare sulla sella la strada asfaltata che va verso Capo Imperatore.
Castel del Monte dalla cresta del monte
Per salire sul monte conviene però lasciare il sentiero un centinaio di metri prima della strada e piegare a destra continuando a salire, senza via segnata, in un largo passaggio tra gli alberi della pineta. 
Giunti su un primo colle (sotto di noi è la valle del Tirino) si segue tra i mughi la cresta verso sinistra fino alla vetta di Capo di Serre. 
Sul versante opposto: la Vallestrina e, a destra il monte Meta
Bel panorama da una parte sulla zona orientale di Campo Imperatore, dall'altra verso la valle del Tirino.
Scendendo verso la Vallestrina
La faggeta attraversata
Dal lato opposto si scende verso la Vallestrina, attraversando una faggeta. Di fronte è la punta di monte Meta (1784metri).
Attraversiamo la valletta fino a ritrovare la carrareccia che, salendo dal rifugio Ricotta, continua verso est.
"Coppi del Pacino"
La seguiamo per un tratto ma verso sinistra, per poi attraversare il pianoro del Pacino, e risalire verso Capo la Serra. Aggirato il monte, scendiamo verso il paese, ritrovando la via dell'andata.
Il percorso in verden verde

domenica 23 settembre 2012

Monte Bolza estate 2012

Il silenzio è il rifugio universale, il seguito di tutti i discorsi noiosi e di tutti gli atti stupidi, un balsamo su ognuno dei nostri dispiaceri, ugualmente benvenuto dopo la sazietà o la delusione; lo sfondo che il pittore non può cancellare, che sia maestro o mediocre nella sua arte e che, qualsiasi pallida figura facciamo, resta sempre come il nostro rifugio inviolabile, nel quale nessum malore può raggiungerci, in cui nessuna personalità ci disturba. H.D. Thoreau.
Ritorno sul monte Bolza. Quasi una tradizione.
La montagna che fa da corona al borgo di Castel del Monte si distingue dalle altre che circondano il paese per le erte rocce granitiche che contrastano con i colli arrotondati del paesaggio circostante. 
Lasciando Castel del Monte che appare sotto la pineta
Tuttavia non è una meta molto ambita. Il picco, a sud della piana di Campo Imperatore, non supera i duemila metri e non attira gli appassionati della performance. Eppure la sua posizione ne fa un punto panoramico d'eccezione. Qualcuno lo ha definito uno dei più bei panorami d'Abruzzo.
La Rocca di Calascio, sempre ben visibile.
Dalla sua cima si ammirano le catene più importanti della regione: Maiella, Sirente, Velino e naturalmente Gran Sasso. Il cucuzzolo si vede da lontano. Già sullo stradone che da Popoli va verso L'Aquila, nella bassa valle del Tirino, si riconosce il profilo inconfondibile della montagna che poi accompagna quasi costantemente il viaggiatore che sale da Ofena e Villa Santa Lucia.
Salendo, il panorama si apre sulla valle del Tirino
I più anziani abitanti del luogo lo chiamano (lo chiamavano) monte Corno, forse per la sua somiglianza con il fratello maggiore (il Grande) alle sue spalle. La stessa forma trapeziodale anche se di dimensioni ovviamente diverse. È il punto più orientale di una serra che si chiude, sul lato opposto, con il meno severo, monte Coccia, sulle carte Cima di Bolza, il punto più alto (1927 metri) della barriera che separa qui il versante rivolto verso la piana di Navelli da quello di Campo Imperatore.
La via di salita è, nella prima parte, la stessa del Sentiero Italia. Si allontana dal paese in corrispondenza della chiesetta di San Donato, a lato di una bella pineta. Il sentiero sale rapidamente sulla costa del monte Licciardi, allontanandosi dalla strada bianca che, più in basso a sinistra si dirige verso fonte Frenda.
Arrivati sul dosso tra Bolza e Licciardi la mulattiera scende leggermente, aggirando il monte verso il Guado della montagna, là dove la via scende verso Campo Imperatore. È da qui che abitualmente si sale, lasciando il sentiero e inerpicandosi a sinistra sulle pendici del monte, da questa parte più erbose e meno ripide.
C'è però una via più diretta. Quando il sentiero scavalca il crinale, invece di continuare verso il Guado si punta direttamente sul Bolza. 
Dal crinale, si lascia il sentiero. Appare monte Camicia
Qualche vecchio segno, difficilmente visibile però, indica il cammino ma sarà piuttosto un imponente ed evidentissimo masso a servire da riferimento. 
Dal pietrone si vede la strada che sale a Capo la Serra
Scavalcato il pietrone si continua a salire fino ad un primo colle (chiamiamola anticima). Da qui, senza cambiare direzione si scende per qualche metro per poi riprendere la salita indicata da una fin troppo evidente freccia rossa.
La via è indicata da una freccia.

Si sale con qualche modestissimo passaggio in arrampicata, per arrivare rapidamente sulla cima, annunciata da una figurina sacra in terracotta fissata sulla roccia. 
Lì vicino è anche una targa della polisportiva di Castel del Monte.
Nelle giornate più limpide il belvedere è sorprendente.
La Maiella, il Morrone, le montagne della Marsica.

















Il Sirente, i Simbruini

















Il Velino

















Il Corno Grande, il Prena

















Monte Prena e Monte Camicia











Verso Vado di Sole