La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 26 febbraio 2011

La miniera di Castel del Monte

Salendo da Castel del Monte verso Campo Imperatore sulla Statale 17 bis, dopo circa 3 chilomentri, a qualche decina di metri della seconda delle transenne che chiudono la strada in periodi di forte innevamento, si trova sulla destra uno spiazzo panoramico. La vista è bella sull'alta valle del Tirino, con tutt'attorno la Maiella il Sirente e il Velino a fare da sfondo e la sagoma inconfondibile della Rocca di Calascio sul suo colle. 
Le Rocca e il Sirente















Su un masso c'è una lapide in memoria di Orazio Giuliani, ingegnere e podestà di Castel del Monte durante il fascismo. Potrebbe sembrare un'iniziativa nostalgica, in realtà la lapide fu eretta negli anni novanta del secolo scorso dall'amministrazione comunista del paese.
La Rocca e il Velino
Si voleva ricordare, con una volontà di recupero storico, un avvenimento considerato importante della vita locale: il tentativo di sfruttamento di una miniera di scisti bituminosi presenti nella zona orientale di Campo Imperatore. La lapide cita il verso di una canzonetta scritta per l'occasione: Finita la rotabile inizia la miniera (andiamola a sfruttare la bella pietra nera).
Erano gli anni Trenta, più precisamente il 1936. La guerra coloniale in Etiopia aveva prosciugato le casse dello stato e aveva avuto tra le altre conseguenze la promulgazione, da parte della Società delle Nazioni, di sanzioni economiche contro l'Italia. Il regime fascista decise di lanciare una campagna per l'autarchia. Tra le iniziative, più o meno velletarie (raccolta delle fedi d'oro o fusione di statue e cancellate per recuperarne il metallo), alcune cercheranno di fruttare le povere risorse energetiche presenti sul territorio.


Fu così che Orazio Giuliani vinse un concorso organizzato dal governo e che si cominciò la costruzione delle infrastrutture necessarie (strada, baracche per gli operai, locali per i forni) per quella che avrebbe dovuto essere la prima attività industriale di Castel del Monte.
La lapide in questione non si trova sul sito della miniera. Per arrivare a quest'ultima bisogna superare il valico di Capo la Serra e continuare per qualche chilometro. Poco dopo la fonte della Macina (nella zone detta dei macelli) una sterrata si stacca sulla destra in direzione del monte Prena.










 Oggi però la strada che collega la 17bis al sito della miniera è abbandonata alla sua sorte e quasi impraticabile. E delle costruzioni non resta che qualche muro diroccato.
Perchè nel 1943, dopo la caduta del regime, Mussolini venne sì a Campo Imperatore ma per altri motivi. Poi, con l'occupazione tedesca, i lavori vennero abbandonati.
E della miniera non se ne parlò più.









Per arrivare alle rovine, pretesto per una  una passeggiata di circa un'ora, si può partire da fonte Vetica e costeggiare monte Camicia verso nord ovest, in direzione del Colle dell'omo morto. Non c'è sentiero ma è difficile sbagliare. Dopo aver attraversato il fiume di ghiaia della Fornaca si passerà vicino al masso aragonese, altra vestigia interessante (ma questa è un'altra storia). Un po' più in alto si vedono i resti della miniera.

sabato 19 febbraio 2011

Albert Camus: Il primo uomo

La marca francese Facel Vega voleva competere, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con le più lussuose automobili inglesi: Bentley, Jaguar, Rolls Royce. Fu su una di queste macchine, finita contro un platano di Borgogna sulla strada verso Parigi il quattro gennaio del 1960, che morirono Michel Gallimard, nipote dell'editore Gaston, e Albert Camus che, solo tre anni prima, aveva ricevuto il premio Nobel per la letteratura.
Camus, con in tasca il biglietto del treno per la capitale, aveva deciso all'ultimo momento di fare il viaggio con l'amico Michel.
Lo scrittore Jean Rouaud farà notare più tardi che la Facel Vega pur essendo un'auto dai mille difetti aveva però una qualità essenziale: non prendeva mai fuoco. Fu quindi grazie a questa particolarità che si poté estrarre dai rottami contorti dell'auto la borsa con il manoscritto del romanzo a cui Camus stava lavorando. Il libro sarà pubblicato molti anni dopo, nel 1994, prima in Francia e poi in molti altri Paesi con il titolo Il primo uomo.
Anche se il narratore si chiama Jacques Cormery, (in effetti il cognome è quello della nonna paterna dell'autore) si tratta di un testo profondamente autobiografico, certamente il più personale tra gli scritti di Camus. Il manoscritto non era ancora che una bozza redatta a mano e sarà sua figlia Catherine a dattilografarlo, con fatica, tanto che alcune parole sono rimaste indecifrate.
Nonostante questo però, il romanzo non è solo una curiosità letteraria. I capitoli, anche se disuniti lasciano intuire facilmente quale sarebbe stato il risultato finale di quella che doveva essere, nelle intenzioni dello scrittore, la prima parte di una trilogia. Ed è forse proprio la mancanza delle « rifiniture » a dare allo scritto un carattere più grande di immediatezza e quindi di spontanea sincerità.
Camus ritraccia i momenti essenziali della propria vita: ripercorre il viaggio sulle tracce del padre, mai conosciuto perchè morto durante la prima guerra mondiale quando egli aveva solo un anno; descrive la vita di miseria con la madre e la nonna, gli anni della scuola, con un omaggio al suo maestro elementare grazie al quale poté continuare gli studi; parla con affetto dell'Algeria, paese dell'infanzia, al quale resterà sempre legato.
Impegnato nella Resistenza e poi nel dibattito intellettuale del secondo dopoguerra, sia come giornalista che come autore di saggi e di opere teatrali, Camus è una figura importantissima, certamente essenziale nel mondo intellettuale del XX secolo. Non si definiva filosofo, piuttosto artista perché diceva penso piuttosto secondo le parole che non secondo le idee. Eppure i suoi scritti, per il loro spessore, costruiscono concetti nuovi e disegnano una visione dell'Uomo profonda e sentita. E ciò non solo nei saggi ma anche nei romanzi dovevano essere, secondo lui, filosofia in immagini.
I rapporti con Sartre, suo contemporaneo e figura di prua tra i filosofi francesi, furono in un primo tempo di amicizia ma divennero ben presto conflittuali. Per Camus l'impegno politico per la libertà e per l'emancipazione umana non poteva chiudere gli occhi di fronte alla repressione stalinista e non esitò quindi a condannare il regime quando cominciarono ad apparire le prime informazioni sui gulag. Per Sartre, compagno di strada dei comunisti, questo fu quasi un tradimento e da allora divenne molto critico nei suoi confronti. L'uscita de L'uomo in rivolta nel 1951, attaccato dai comunisti e dagli intellettuali vicini a Sartre (Merleau Ponty, Breton), poi la pubblicazione di un articolo estremamente duro sulla rivista Les temps modernes aggravarono definitivamente i rapporti già conflittuali tra i due.
Era un'idea differente se non opposta dell'impegno politico a separare i due uomini e questa diversa concezione teorica sconfinava nel campo filosofico. Da un lato la lucidità razionale di Sartre che fondava sul materialismo marxista l'analisi della società, un'analisi senza scarti, né tentennamenti, nemmeno di fronte all'evidente carattere autocratico del regime sovietico; dall'altra l'uomo in rivolta, (Io mi rivolto, quindi noi siamo diceva Camus), che non accetta compromessi a scapito della libertà, nemmeno nel nome dell'emancipazione sociale, che non voleva chiudere gli occhi di fronte alle derive staliniste e che, non a caso, sarà vicino al movimento anarchico libertario.
Ma non erano solo le idee ad opporli. I due intellettuali appartenevano a mondi lontanissimi l'uno dall'altro. Sartre di origine borghese, frequenta scuole prestigiose, arriva primo all'agrégation, concorso per professori di filosofia, assume ben presto lo statuto di filosofo ufficiale, teorico dell'Esistenzialismo, riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo.
Camus è figlio di una madre poverissima che mantiene la famiglia facendo pulizie e lavando i panni degli altri. Una madre analfabeta a cui Camus dedicherà il suo ultimo libro: a te che non potrai mai leggerlo, ancora più isolata dal mondo a causa di una forte sordità. Dopo la morte del marito vivrà una vita di fatica e di stenti. Nella famiglia di Camus è la nonna a prendere il comando. Con severità, non esitando ad educarlo a suon di botte, gestendo le spese con una parsimonia che poteva sembrare avarizia ma che invece era solo la conseguenza di una grande indigenza.
È un universo in cui la cultura è un mondo estraneo, altre sono le preoccupazioni quotidiane. Albert Camus, finite le elementari dovrebbe cominciare a lavorare per aiutare la famiglia, ed è solo grazie al maestro Louis Germain, che per molti versi avrà per lui un ruolo di padre, e che riuscirà a convincere la nonna, che il ragazzo potrà, grazie a una borsa, continuare gli studi.
Il primo uomo è il racconto profondo e toccante e di questa storia. Per chi vuole conoscere Camus è senz'altro il libro più importante. La narrazione affianca una lucidità estrema ad una delicata sensibilità personale. Come ad esempio nel racconto di quel giorno, alla fine dell'anno scolastico, della consegna dei premi agli alunni più studiosi. Per la madre e la nonna era l'unico momento di contatto con un mondo, quello della scuola, a loro estraneo. La loro partecipazione alla cerimonia era fatta di orgoglio ma soprattutto di apprensione. Arrivavano con molto anticipo:
come fanno sempre i poveri che hanno pochi obblighi sociali e pochi piaceri, e che hanno paura di non essere precisi. Coloro che non sono favoriti dal destino non riescono a non credersene in qualche modo responsabili e sentono che non bisogna aggiungere a questa generale colpevolezza altre piccole mancanze...
Un libro coinvolgente, che non può lasciare indifferenti e che, a lettura finita, non si ha voglia di abbandonare.

sabato 12 febbraio 2011

Olanda


 Sul bordo del canale un airone cinerino, indifferente ai passanti, scruta l'acqua alla ricerca di una preda. Tra le viuzze del paesino qualcuno rivernicia una barca con colori vivaci. Tre donne, sedute ad un tavolo davanti alla casa, parlano e ridono insieme.

Paradossalmente, il mare è spesso nascosto. Certo l'acqua è sempre presente. Canali, chiuse, fiumi, ponti. Ma sovente l'orizzonte è chiuso da una lunga diga che lascia solo presagire la presenza del mare aperto. Bisogna salire sulla cresta per vederlo. Perchè qui il mare più che guardarlo lo si sorveglia. Lungo la strada ogni tanto un cartello luminoso dà l'altezza della marea e precisa di quanti metri l'acqua sovrasta i campi.
Il ricordo dell'alluvione del 1953 che fece più di 2000 morti è ancora vivo.


Una sconfinata pianura è interrotta a tratti da isolate fattorie e dalle pale delle centrali eoliche, moderni mulini a vento.
Non ci sono linee elettriche, ogni nucleo di abitazioni è autonomo.

Nei paesi e nelle città le biciclette sono dappertutto Vicino alle stazioni ferroviarie si estendono smisurati parcheggi, a volte anche a più piani. Si vede che non è una moda. Non si passeggia in bicicletta, almeno non solo, spesso si va di fretta. Se si è passanti bisogna fare attenzione.


Poi eccolo il mare. La lunghissima diga di 32 chilometri sembra inoltrarsi nel largo. Da una parte l'Ijsselmeer, dall'altra il mare del Nord. Una strada, o piuttosto un'autostrada, passa sullo sbarramento. A metà percorso una sosta per turisti: un bar chiuso, solo un distributore di bibite funziona. Il luogo ha l'aria abbandonata. Qualche pullman è sul parcheggio. Un vento impetuoso spazza l'acqua.
















I colori sono saturi. Il verde dei prati contrasta con il blu scuro dell'acqua e con quello più chiaro del cielo.
















Più a sud le coltivazioni di fiori tagliano il paesaggio con tinte che sembrano innaturali.


domenica 6 febbraio 2011

Dino Buzzati: Bàrnabo diventa Budda

Ma sono come Bàrnabo
aspetto anch'io i briganti
e sulle crode lascio i miei pensieri.
G.I.





















Bàrnabo ha un'esistenza felice. 
È stato assunto come guardiaboschi e vive con i suoi compagni ai piedi delle montagne di San Nicola. Il loro compito è quello di sorvegliare una vecchia polveriera che era utilizzata durante la costruzione della nuova strada, progetto ormai abbandonato.
La vita scorre sempre uguale, le stagioni passano, le giornate di caccia e le feste nel paese vicino ne interrompono la ripetitività. I guardiaboschi, un po' come i soldati della Fortezza Bastiani nel deserto dei Tartari, aspettano un nemico che non arriva. Bàrnabo però è contento; ama i boschi, le montagne e i loro paesaggi rocciosi. I suoi colleghi lo trattano con un po' di sussiego e lui vorrebbe fare qualcosa per conquistarne la stima. Ma, nel tran tran quotidiano, le occasioni sembrano mancare.
Poi un giorno i banditi arrivano davvero e Antonio Del Colle, il capo dei guardiaboschi è ucciso.
La squadra si organizza e cerca gli assassini. Bàrnabo ha l'occasione di vendicare Del Colle ma nel momento cruciale, atteso da tempo, la paura ha il sopravvento e non spara.
Sarà radiato dal corpo e dovrà abbandonare le montagne per fare il contadino in pianura. Solo dopo anni riuscirà a tornare lassù. Le guardie sono state trasferite nel paese vicino; serve qualcuno per occuparsi della casa tra i boschi e per accogliere, ogni tanto, la pattuglia quando farà la sua ronda. Bàrnabo accetta, spera ancora che tutto possa tornare come prima.

Spesso nelle storie di Dino Buzzati il fantastico si mischia al reale in modo particolare. Non è presentato come un mondo estraneo, non è fantascienza. Al contrario, sembra proprio assumere sembianze realistiche. In qualche sorta Buzzati sembra mostrarci un mondo in cui la realtà è più vasta di quella percepita dalla ragione e ingloba aspetti al di là del razionale.
A volte la narrazione si muta quasi in fiaba, come nel Mistero del bosco vecchio, e i personaggi sono alberi, venti e gnomi, altrove il realismo è più predominante ma anche in questi casi sempre traspare una possibile presenza enigmatica che agisce e influenza gli avvenimenti.
Come in Bàrnabo delle montagne, il primo romanzo dello scrittore. Qui il fantastico è nell'atmosfera più che nella storia. Montagne e boschi sembrano esprimere la loro presenza, commentando le azioni degli uomini. I riflessi del sole sulle rocce, il vento che scuote gli alberi sottolineano e intervengono, accompagnando le scelte di Bàrnabo.
Gli uccelli osservano e giudicano. La cornacchia ferita trovata sulle crode e che ha assistito alla sconfitta di Bàrnabo lo ha forse seguito nel suo esilio in pianura. È la stessa che, quieta, si posa una sera sul davanzale della finestra? Sembra voler dire qualcosa. È la voce di quattro anni prima, la stessa che era risuonata nella foresta dopo il misterioso colpo di fucile e che era salita anche tra le pareti altissime, rimandata di eco in eco.
Anche la luce si esprime, considera e valuta. Ritornato nella casa dei guardiaboschi Bàrnabo ha aperto le finestre. La luce, che non era più abituata ad entrare si è disposta malamente, con delle spiacevoli ombre.
Perchè questo ritorno sembra trasformarsi in una disfatta completa. Quand'era in pianura Bàrnabo viveva nella speranza di tornare, di riavere il suo posto, riscattare il suo sbaglio. Poteva pensare che lassù le cose fossero restate come un tempo. Adesso che vede la casa vuota, che si accorge che tutto è finito, che non sarà mai più guardiaboschi sente che tutto è rimasto come prima, ma non è la stessa cosa. Per quanto si sforzi, neppure nelle giornate più belle Bàrnabo sa trovare la bellezza di certe mattine quando era guardiaboschi.
Definitivamente solo, cercherà di rivivere i tempi passati ma il rimpianto e il rimorso lo tormentano e lo attristano.

Non si può non provare simpatia per Bàrnabo. Ha vissuto a lungo rimpiangendo una punizione che in fondo credeva meritata. Ha voluto tornare sulle montagne di San Nicola sapendo che, anche nel migliore dei casi, sarebbe restato solo per lunghi mesi. Fino all'ultimo ha creduto di poter indossare di nuovo la divisa dei guardiaboschi. Perchè aveva l'impressione che solo così avrebbe ritrovato la felicità di un tempo e la sua vita avrebbe avuto uno scopo.
I guardiaboschi hanno promesso di venire e lui ha preparato con tanta cura la cena per accoglerli. Eppure Bàrnabo aspetterà invano, è ancora un'illusione, nessuno si farà vivo. Quando scopre il suo errore, lui che fino ad allora ha accettato ogni cosa con sottomissione, lascia esplodere la sua collera.
Allora un tremito improvviso scuote Bàrnabo; si alza di scatto balbettando parole confuse nello stanzone solitario. Poi afferra le molle del focolare e giù un terribile colpo sul tavolo spaccando un piatto in due pezzi. Perchè aveva fatto di tutto...
Tutto sembra perso. I momenti felici del passato non torneranno nemmeno per una sera. Bàrnabo vede la sua vita come un fallimento. Anche le montagne sembrano ostili. Poi, quando ha perso ogni speranza, ritrova i banditi.
Può finalmente riscattare la sua paura, uccidendoli e vendicando il suo capo. Riaquistando la stima dei suoi compagni. Chissà se sono gli stessi che hanno ucciso Del Colle? Bàrnabo pensa di sì. Ma in fondo che importa. Li ha sotto tiro, questa volta non trema.
Ma Bàrnabo non spara:
Stavolta non è per paura, ma qualcosa si è davvero fermato, qualcosa è rimasto indietro con la fuga del tempo. Barnàbo in silenzio ha un sorriso. Il suo fucile si abbassa, le sue mani sono allentate. Si sente un'aria felice tra le crode inondate di sole. Lontani profumi della foresta.
Bàrnabo ha capito. Ha trovato la via.