La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 31 dicembre 2011

Bevagna: Valle Tamantina

La bottiglia di Sagrantino è come una cartolina dell'estate. Un vino nobile, ricco di profumi e sapori, tra tutti quell'inconfondibile gusto di amarene mature come cadute a terra e che da essa prenderebbero gli umori.
Il sagrantino è un piccolo gioiello cresciuto tra le colline dell'Umbria. Vitigno che ispira le leggende. Lo si dice arrivato nell'antichità dalla Grecia, descritto, sotto il nome di Itriola da Plinio il Vecchio. 
C'è chi lo dice venuto dall'Asia Minore, nella bisaccia di un francescano sulla strada di casa, chi ne fa risalire il nome ai sacramenti perché, come passito, è utilizzato durante l'eucarestia. 
E c'è anche chi ha voluto riconoscere una bottiglia di sagrantino sulla tavola imbandita del cavaliere di Celano dipinta da Benozzo Gozzoli nella chiesa di San Francesco a Montefalco.


Leggende a parte, il sagrantino è un vitigno legato alla sua terra. Sulle colline della valle umbra, attorno a Montefalco condivide con gli oliveti la bella campagna.
Ma non basta una buona terra per fare un buon vino. Bisogna saperlo allevare come dicono i francesi.
Noi l'abbiamo incontrato nelle terre di Bevagna risalendo sui colli dal piccolo borgo di Cantalupo.
È qui che abbiamo conosciuto Agostino, Argentina e la loro figlia Laura.
La loro casa è un magnifico balcone sulla valle tra Assisi e Foligno. Nelle loro terre si producono farro e cicerchia, ceci e lenticchie, olive e appunto, uva. L'olio e il vino sono la loro specialità. Ne sono fieri e hanno ragione di esserlo. Cose fatte con passione, di cui si è soddisfatti perché sono buone e non solo perché si vendono bene. 
Ad un paio di chilometri dalla casa, nascosto in una valletta circondata dal bosco, è il loro agriturismo della valle Tamantina. Un antico casolare è stato ristrutturato e accoglie il turista in cerca tranquillità. Si è accolti con un bicchiere del buon vino del posto. Agostino ha preparato un orticello nel quale, nella buona stagione, gli ospiti possono rifornirsi di verdure. 
Nelle serate estive ci si siede sull'uscio della casa. Solo gli uccelli e il fruscio del vento che si infila nel bosco rompono il silenzio.

sabato 24 dicembre 2011

Hermann Hesse: Le stagioni della vita

Magnifico è per i vecchi
il calore della stufa e il rosso di borgogna,
e infine una doce morte -
ma più tardi, non oggi!*
Le stagioni della vita è il titolo scelto per una piccola antologia di testi, spigolati tra i romanzi e i saggi di Hermann Hesse.
Riflessioni sul tempo che passa, dalle speranze della giovinezza al declino della vecchiaia, lungo il passaggio da un gradino all'altro dell'esistenza verso un autunno che appare troppo precoce.

Come ogni fior languisce e giovinezza
cede a vecchiaia, anche la vita in tutti
i gradi suoi fiorisce, insieme ad ogni
senno e virtù, né può durare eterna.*

E come, passando da un gradino all'altro, cambia per noi l'immagine del mondo così si modifica lo sguardo portato su un libro o uno scrittore. È il caso di Hermann Hesse. Spesso appiattito dai clichés, Hesse, malgrado la fama e i riconoscimenti, (o forse a causa di questi) è considerato grinzoso e impolverato. Filosofo per adolescenti o per adepti del new age.
Quello descritto è un mondo fuori dal tempo, nel quale è importante occuparsi dei fiori, i bambini ricevono in regalo una mela o una manciata di noci, nel quale la Storia arriva filtrata da un velo; irrompe a volte incomprensibile, e mette a soqquadro il presente.
È un atteggiamento di distacco dal reale che è stato rimproverato allo scrittore. Com'è possibile descrivere un universo di pace e di calma o di insignificanti discordie mentre la guerra infuria e gli uomini si massacrano.
Ma osservandolo meglio ci si accorge che quest'universo di tinte delicate può nascondere contrasti e rugosità. Dietro l'apparente armonia si fa luce la durezza nei rapporti umani, imbrigliati in modelli sociali immutabili, in ordini gerarchici che devono essere rispettati con stretta disciplina.
Anche se nei suoi scritti, soprattutto in quelli autobiografici, ciò trapela piuttosto che esporsi, ne emerge la realtà di un'infanzia che per lui non è stata sempre del tutto rosea. Destinato a studi teologici da una famiglia religiosa, ci vorrà una crisi, fino al tentato suicidio, prima di svincolarsi da una via tracciata da altri.
Troverà un senso alla vita nell'arte. E quest'ultima, che sia scrittura, pittura, musica, nella sua visione non deve essere solo distrazione o aspetto complementare nella vita dell'uomo. Ne deve essere il momento centrale. Attraverso essa, approfondendo la conoscenza di sé, può svilupparsi la coscienza dell'animo umano, la crescita della consapevolezza. L'arte non può sostituirsi alla politica ma quest'ultima da sola non è sufficiente, anzi, secondo Hesse è controproducente perché semplifica, tra il nero e il bianco, tutte le sfumature. Aderire ad un'ideologia significa per l'artista rinunciare alla propria libertà.
Per questo la posizione di Hesse, soprattutto nei momenti storici essenziali del ventesimo secolo, ha spesso suscitato perplessità. Durante la prima guerra mondiale rigetta il nazionalismo della Germania ma nello stesso tempo si presenta come volontario (non è accettato) nell'esercito. Assume posizioni pacifiste ma non si associa al movimento contro la guerra.
Ma Hesse non chiude gli occhi davanti alla catastrofe; al contrario, ne è coinvolto profondamente, sente la necessità di rimettersi in discussione:
venne per me la perdita della libertà e dell'indipendenza, venne la grande crisi morale prodotta dalla guerra, che mi costrinse a dare nuovi fondamenti a tutto il mio pensiero.*
Durante il periodo nazista aiuta e ospita i suoi compatrioti, tra i quali Thomas Mann, profughi in Svizzera. Eppure, nel secondo dopoguerra, fu considerato con sospetto dagli occupanti americani perché le sue opere non erano state censurate dai nazisti. In definitiva però l'immagine di uno scrittore indifferente alla società che lo circonda non è giusta. Perché nella sua concezione, se l'arte non può cambiare la società, essa può cambiare l'uomo.
I suoi interventi pubblici contro la guerra, contro il totalitarismo ma anche contro l'ideologia capitalista americana che secondo lui sarà la causa di un nuovo declino culturale e morale dell'Europa mostrano il suo coinvolgimento al fatto politico.
Hermann Hesse cercherà nelle filosofie orientali, nel taoismo e nel buddhismo, gli elementi per ordinare il suo pensiero. Demian, il Lupo della steppa, Narciso e Boccadoro, Siddhartha, nei personaggi dello scrittore è sempre centrale la dualità tra vita materiale e elevazione spirituale. Tema centrale anche nel Gioco delle perle di vetro, forse il romanzo chiave e che senza dubbio fu fondamentale per l'attribuzione del premio Nobel nel 1946.
Il pellegrinaggio in oriente, romanzo breve pubblicato nel 1932 è forse il modello più riuscito nel sintetizzare la poetica dello scrittore. È il racconto di un viaggio in cui i pellegrini attraversano lo spazio, tra la Svevia e l'oriente ma anche il tempo, dal medioevo al mondo moderno. Il narratore, H.H. ha come compagni di viaggio Mozart e Alberto Magno, Don Chisciotte e Paul Klee... È un divagare che in realtà non ha come meta i paesi dell'oriente ma appunto la trasformazione interiore del pellegrino, perdutosi senza saperlo e di nuovo alla ricerca di una meta che sembra poter essere raggiunta solo dopo essersi spogliati dall'ambizione della meta stessa. Racconto che è metafora dell'esistenza umana.
Ed ecco dunque che Le stagioni della vita raccoglie ed evidenzia, un po' come controcanto nella vita reale, questo viaggio di Hermann Hesse tra gli uomini e le cose del suo tempo. Annotazioni, racconti e versi che riuniti servono da commento alla sua opera e alle sue scelte di vita.

È facile esser giovane e agire bene,
e tenersi lontano da ogni meschinità;
ma sorridere, quando già rallenta il battito del cuore,
questo va appreso.*

*Hermann Hesse Le stagioni della vita a cura di VolkerMichels Ed.Mondadori 1988

sabato 17 dicembre 2011

Eremo di Sant'Onofrio sul Morrone

Fra' Pietro Angeleri da Isernia lo preferì agli ori di San Pietro e, dopo aver rinunciato nel 1295 al nome di Celestino V e alla carica papale, volle tornare quassù. 
Fu qui che era venuto a cercarlo il re di Napoli Carlo II D'Angiò per annunciargli il risultato del conclave e la sua elezione al soglio pontificio. Nelle lotte tra fazioni che infuriavano al suo interno la curia romana pensava di trovare in un mite e popolare monaco un papa docile e malleabile. Fra' Pietro accettò, forse a malincuore, di seguire il re a L'Aquila per l'incoronazione nella basilica di Collemaggio. Ma papa non lo sarà che per quattro mesi, estraneo alle beghe e agli intrallazzi di corte. 
Carlo aveva bisogno di un pontefice che ratificasse l'accordo con gli Aragonesi per riappropriarsi della Sicilia. Porterà Celestino V a Napoli, quasi come un prigioniero. Ma quest'ultimo lascerà la corte e tornerà sulla sua montagna. 
Un ultimo soggiorno che non durerà molto, il suo successore Bonifacio VIII lo preferiva prigioniero e lo farà rinchiudere a Fumone, nella Ciociaria non lontana dove morirà due anni dopo.
E chissà se Dante avesse veramente ragione a chiamarlo «vile» per il gran rifiuto e a condannarlo alle pene dell'inferno. Perché ci volle sicuramente un gran coraggio per abbandonare Roma e la sua corte e per tornare a fare l'eremita.
Queste montagne furono a lungo un luogo privilegiato per quei mistici che cercavano la solitudine e il raccoglimento. Luoghi sacri fin dall'antichità, nei quali i segni di una religiosità già precristiana, sono visibili qui vicino, nelle pitture rupestri o nei resti del tempio dedicato a Ercole Curino.
L'eremo di Sant'Onofrio è come incastonato sulle pendici del Morrone. Lo si vede da lontano a mezza costa, con il suo inconfondibile porticato aperto sulla valle.
Per arrivare all'eremo, ancora oggi meta di devozione popolare, si passa vicino all'abbazia del Santo Spirito, anch'essa fondata da Pietro Angeleri. L'imponente costruzione ai piedi della montagna è stata a lungo ridotta a penitenziario e solo da qualche anno è in via di restauro (sono ancora visibili le garitte di guardia).
La strada asfaltata sale fino ad un piazzale. Qui comincia il sentiero che, salendo a tornanti sale fino ai 630 metri dell'eremo. Una breve passeggiata che diventa più impegnativa se si vogliono raggiungere i resti dell'eremo di san Pietro, più in alto sulla montagna.

sabato 10 dicembre 2011

Miguel Torga

Ancora un libro che ho comprato (una ventina di anni fa) per caso. Mi succede spesso data la mia abissale ignoranza e dunque la facilità che ho di cadere su autori sconosciuti. È stampato da un editore francese, José Corti che, come il suo nome lo lascia intuire, si interessa alla letteratura iberica.
Les contes et les nouveaux contes de la montagne di Miguel Torga mi aveva attirato proprio per la mancanza di agghindamenti. Certo non è molto logico come criterio ma, come molti penso, un libro lo noto prima di tutto per la copertina. Però, sarà snobismo?, più è appariscente meno mi attira. E quella dell'edizione Corti è di un banalissimo beige, con modeste scritte verdi o nere. Le pagine intonse non hanno fatto che aumentare la mia curiosità.
Naturalmente non avevo mai sentito parlare dell'autore.
Dopo quel primo incontro ho trovato, questa volta non per caso, altre opere di Torga: Il senhor Ventura, La création du monde, Vendange; sempre in francese*, perché non conosco il portoghese e in italiano per quanto ne so, è stato tradotto poco.

L'universale è il locale meno i muri
Forse è l'aforisma più celebre di Miguel Torga.
Pare che dello scrittore portoghese, considerato nel suo paese un monumento letterario, si sia parlato ripetutamente nella stagione dei premi Nobel ma il suo nome è rimasto, e ormai per sempre, sulla lista delle ipotesi.
Nato nel 1907, Adolfo Correia da Rocha scelse lo speudonimo di Miguel in omaggio ai due grandi della letteratuta iberica: Cervantes e Unamuno. La torga è, in portoghese, l'erica, pianta rude e frugale, capace di resistere alle intemperie, aggrappata alla roccia della montagna. Perché per Miguel Torga la terra, la sua terra, era indispensabile nutrimento nella sua passione per la scrittura.
Dice ne «La creazione del mondo» (1985):
Sarei capace di vivere lontano dalla mia patria nella situazione di un emigrante che si guadagna il pane. D'altronde l'ho già fatto. Ma non potrei mai vivere lontano da essa come scrittore. Mi mancherebbero il dizionario della terra, la grammatica del paesaggio, lo Spirito Santo del popolo.
E in effetti, a soli tredici anni aveva abbandonato il liceo ed era partito, solo, per il Brasile dove, fino a diciotto anni, aveva lavorato come bracciante. Tornato in Portogallo e laureatosi in medicina, Torga passerà più di quarant'anni nel suo modesto ambulatorio di Coimbra curando i suoi pazienti e scrivendo. Comincia a pubblicare le sue prime poesie nel 1928 e continuerà, ancora poesie, racconti, romanzi e un imponente diario, quasi fino alla morte, nel 1995.
La sua professione non è estranea forse al fatto che egli osservi suoi simili con uno sguardo che solo in apparenza è freddo e distaccato ma che in realtà è lucido e sincero.
Un'opera senza compromessi in un paese che dal 1932 alla rivoluzione dei garofani del 1974, vivrà nella morsa della dittatura fascista. Miguel Torga pubblica tutti i libri a sue spese, in edizioni umili e senza fronzoli ma che gli permettevano di rivendicare la sua libertà di scrittore. Difficile posizione, tanto che tra il 1939 e il 1940 passerà anche qualche mese di prigione, costretto in seguito a far stampare le sue opere in Brasile per aggirare la censura.
Ma in portoghese, nel linguaggio popolare, torga vuol dire testardo. E lo scrittore lo era di sicuro, tanto da ironizzare quando uno dei suoi libri era sequestrato: La polizia, con la sua diffidenza professionale nei confronti della verità mi dice se sono o no sulla buona strada.
Trás-os-Montes, «aldilà dei monti» è una regione povera e isolata del nord est del Portogallo, abitata da contadini che vivono spesso nella miseria. È la Montagna, teatro di molte delle sue storie e soprattutto dei Contos da Montahna. Sono contadini quelli di Torga che ricordano a volte i cafoni di Ignazio Silone: schiacciati dalla prepotenza di chi è più forte, faticano a sopravvivere, e lo fanno senza speranze. Ma lo sguardo di Silone era più benevolo. Torga invece non nasconde le responsabilità di ogni uomo, neanche quella dello sfruttato. Le sue storie scrutano l'animo umano: storie amori impossibili e di gelosie, di rivalità e di discordie di pregiudizi e di superstizioni. Il destino sembra soverchiare, come un fato impietoso ogni speranza. Ma non è tutto nero il mondo di Torga, l'amicizia e la generosità, quest'ultima sopratutto quando spunta inattesa, illuminano i paesaggi della Montagna. Paesaggi dipinti con ammirazione, come nel racconto Le vendemmie ma nei quali la realtà della dura vita interrompe l'incanto:
Sparsa sul pendio, la squadra sembrava festeggiare un dio generoso e pagano piuttosto che lavorare. Le terrazze erano gli scalini dell'Olimpo, dove cresceva e poi era colto, lo spirito celeste. Una canzone era un inno di lode. E i panieri traboccanti, scendendo dai gradini di scisto sulle spalle dei devoti fedeli, in fila indiana, sonora e rituale, erano i doni del Signore colmo d'amore, che chiedeva solo allegria in cambio dei suoi frutti.
Sembrava che tutto, in quel paradiso sospeso, si muovesse ludicamente e religiosamente. Nessuna pena, nessun odio, senza inquietudini per il futuro. Allegra, l'anima di ogni pellegrino si abbandonava volentieri all'oblio collettivo capace di cancellare dal mondo le miserie e i disinganni. Era come un magico telaio che stesse tessendo la disumanizzazione. E bisognava che uno dei fili della bobina si ingarbugliasse, che ci fosse un intoppo nel ritmo del cerimoniale, per accorgersi che una volontà pratica era qui soggiacente, vigilante e profana. Vitorino non era ancora uscito dalla sua contemplazione quando Seara, l'intendente, gli gridò nelle orecchie:
-Sei sulla luna? Datti una mossa! In piedi e aspettami nella cantina, devi preparare un tino.**

La scrittura di Torga ha il carattere del suo autore; va alla sostanza, non si preoccupa degli abbellimenti. È un realismo che fino alla fine ha scavato nell'animo umano, cercando l'essenziale, cercando nell'uomo la verità.
 * Traduzione francese di Claire Cayron
**Contos da Montahna.(1941)

sabato 3 dicembre 2011

Santo Stefano di Sessanio AQ

Nella domenica di fine agosto molti turisti passeggiano nelle stradine e tra le bottegucce artigianali di Santo Stefano di Sessanio.
La bella esposizione, allestita in collaborazione con la Galleria degli Uffizi di Firenze contribuisce ad animare il borgo. Lo scopo è di raccogliere fondi per riparare i danni del terremoto; un gesto di solidarietà per riaffermare i legami tra la città patria dei Medici e questo villaggio, che fu avamposto montano, importante per il controllo della produzione della lana.
Il sisma del 2009 ha fatto crollare la torre medicea, deturpando il profilo inconfondibile del paese. 
Oggi una struttura in tubi di acciaio tenta di ricordare, in attesa della ricostruzione, l'antico simbolo. 
Ma i danni non solo solo quelli dell'antico monumento. Altri muri e archi sono pericolanti, puntellati e sostenuti da impalcature.
Anche senza aver fatto vittime il terremoto ha colpito duramente il paese.
Le strutture turistiche che avevano dato nuova vita il piccolo borgo continuano a funzionare ma le difficoltà non sono poche.
Difficile sopravvivere per questi paesi di montagna; una montagna bella ma rude soprattutto nel lungo inverno.
Come pensare ad un futuro che continui a far vivere il borgo e che però non lo trasformi in un villaggio vacanze.

venerdì 25 novembre 2011

Il Nuraghe Arrobiu

Il gatto Gabriele la fa da padrone miagolando prepotentemente tra le pietre del laboratorio enologico di epoca romana. Con passo felino (è il caso di dirlo) si intrufola tra i ruderi come un proprietario che contolli i suoi poderi. Sono due ingegnosi impianti in pietra che si trovavano sul sito del nuraghe. Quando si decise di restaurare la struttura megalitica i laboratori furono smontati e rimontati là dove si trovano tutt'ora.
Siamo arrivati qui quasi per caso, divagando tra i bei paesaggi di questo tratto di Sardegna. Dopo Orroli una deviazione sembra perdersi per qualche chilometro nella campagna. Poi, sulla sinistra, appaiono le rovine del nuraghe, in verità non molto spettacolari viste da lontano (sembra che sia il rosso dei licheni all'origine del nome).
Nel pomeriggio di fine ottobre l'aria comincia già a scurirsi. Il nuraghe Arrobiu, il gigante rosso, svela la sua grandezza quando ci si avvicina e i resti attuali non possono che dare un'idea della sua imponenza.
Il nuraghe risale al XIV secolo avanti Cristo. L'alabastrom, sorta di vaso di origine micenea (oggi al museo di Nuoro) che veniva frantumato nel rituale propiziatorio all'inizio dell'edificazione lo confermerebbe. 
Secondo la ricostruzione virtuale, la torre centrale doveva raggiungere i trenta metri, un'altezza sorprendente per quell'epoca. Un mastio centrale con cinque torri ancora ben visibili (pare che all'origine in totale fossero almeno ventuno).
Un vero castello, con cortili, vani più o meno spaziosi, torri e torrette, corridoi e finestre e poi una sorprendente scala a chiocciola.
Massimo, studioso e accompagnatore ci trasporta con la sua passione indietro di tremila anni, facendo rivivere le antiche pietre.
Quando lasciamo il sito è quasi sera. Torniamo, un po' a malincuore, nel ventunesimo secolo.

sabato 19 novembre 2011

Francisco Coloane

Spazi immensi e desolati, ghiaccio e sangue, tempeste e montagne, isole spazzate dal vento, uomini che lottano per sopravvivere. I paesaggi di Francisco Coloane, uno dei più grandi scrittori sudamericani del Novecento, non nascono dalla fantasia prolifica di un romanziere ma sono il racconto della sua storia. Narrazione geniale, capace di dare vita ad immagini grandiose, di dipingere affreschi nei quali inabissarsi e perdersi.
Nato nel 1910 a Quemchi, nell'isola di Chiloé nel sud del Cile, Coloane ha attraversato tutto il XX secolo (è morto nel 2002), raccontando nei suoi scritti lo scontro tra la modernità, i valori di un'economia che e solo legge del profitto e che per esso non rinuncia a nulla, e un mondo arcaico destinato ad essere sconfitto. Mondo arcaico che ricorda spesso il far west, in cui, nella lotta per la sopravvivenza, la violenza non è assente, ma nel quale anche l'incontro e la solidarietà emergono e si affermano ancora.
Figlio del capitano della prima baleniera cilena, Coloane comincia a viaggiare a quindici anni quando, rimasto orfano, trova lavoro come mozzo e poi come operaio nelle immense aziende agricole della pampa.
I suoi testi attingono profondamente alle sue esperienze personali, ai numerosissimi viaggi nel sud del continente, in Patagonia, verso la Terra del Fuoco e l'Antartide, ma anche nelle Galapagos e in Cina.
Ė ben presto famoso in Sudamerica, mentre in Italia, dopo una prima, confidenziale, pubblicazione (Terra d'oblio, Edizioni del Lavoro 1987) sarà un suo compatriota, Luis Sepulveda a farlo conoscere nella collana da lui diretta per l'editore Guanda (Terra del Fuoco, 1996). Ammirato da Chatwin, il suo nome è da inserire sicuramente nella lista degli Herman Melville, Joseph Conrad, Jack London.
Coloane scrive testi brevi ma è romanziere, perchè le raccolte di racconti che egli pubblica finiscono per costruire un mosaico i cui tasselli, coerentemente legati, ne costituiscono un'opera unica e sorprendente.
Descrive gli ultimi indigeni della Terra del Fuoco, sterminati o scacciati sempre più lontano dal progresso, e verso i quali lo scrittore sente solidarietà più che compassione; la solidarietà di chi vive sulla stessa terra e respira lo stesso vento. Contabbandieri, cacciatori senza scrupoli, marinai imbarcati su relitti arrugginiti, i personaggi di Coloane sono sempre degli sconfitti, respinti ed emarginati da un mondo moderno che va troppo in fretta. Coloane però cerca in loro, e ne ritrova, l'umanità perduta, il senso di un'esistenza che ad un primo sguardo sembrerebbe incomprensibile.
La natura ha un ruolo ambivalente: è dura e spietata nelle condizioni estreme del sud del mondo, un'asprezza in cui l'uomo sembra quasi scomparire, minuscolo dettaglio in territori infiniti. Ma questi paesaggi di solitudine, spazi immensi e selvaggi, montagne e ghiacciai, isole popolate solo di uccelli sono di una bellezza anch'essa estrema, affascinante e ammaliante.
Terra e mare si affrontano qui dalla notte dei tempi. Le alte muraglie della Cordigliera delle Ande si sono sbriciolate sul filo dei secoli; le onde scatenate hanno scavato canali e fiordi, e non sono rimasti in piedi che infracassabili rocce, come quella del faro Evangelistas, un nero isolotto insolente le cui coste lisce l'innalzano a picco al di sopra delle acque.*
Francisco Coloane: Capo Horn Guanda edizioni

sabato 12 novembre 2011

Sardegna: Il Castello di Acquafredda

Siamo nel territorio di Siliqua.
Nella piana del rio Cixerri, a metà strada tra Cagliari e Iglesias, la pianura è interrotta da un ripido colle turrito.
Il Castello di Acquafredda, Domo Andesitico di Acquafredda, sul suo cono vulcanico domina la pianura sottostante.
Cartolina d'epoca riprodotta sul sito web del Parco Archeologico del castello, gestito dalla coperativa Antarias di Siliqua che organizza escursioni nella zona.
La tradizione lega la roccaforte al nome del conte Ugolino della Ghirlandesca (di dantesca memoria) che divenne signore del luogo nel 1257 ma, secondo le bolle papali, il castello esisteva già prima, al tempo del Giudicato di Cagliari.
Oggi saliamo fino alla torre di guardia a 248 metri. La via lastricata si trasforma ben presto in sentiero. 
Il recente acquazzone esalta gli odori delle erbe e degli ultimi fiori.
Si arriva rapidamente alla prima cinta muraria, posta a difesa del borgo. 
Il panorama spazia sulla piana sottostante, un po' velato nella giornata d'autunno. Bella varietà di piante, con fichi d'india che sembrano spuntare direttamente dalla roccia, olivastri e lentischi.
Il cammino è reso più agevole da scale e pedane di legno ma non bisogna distrarsi troppo, la pioggia ne ha reso scivolosi alcuni passaggi.
 Un gruppetto di inglesi è sulla via del ritorno, sono le sole persone incontrate. A poco a poco con loro si allontanano i rumori della valle; resta lo scampanellio di un gregge di pecore e il canto dei numerosi uccelli che svolazzano qua e là.
Una torre era adibita a cisterna, facciamo una sosta sulla terrazza. Poi la salita riprende, fino all'ultima scaletta metallica che porta sulla torre di guardia. 
Di fronte sono i ruderi del mastio, come corona alla montagna. Il monte Arcosu, più lontano fa da sfondo al paesaggio pianeggiante. 


sabato 5 novembre 2011

Carlo Levi: Tutto il miele è finito

Las Plassas, castello di Marmilla
Carlo Levi visita per la prima volta la Sardegna qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel maggio del 1952. Cagliari mostra ancora i segni dei bombardamenti, tra le rovine del teatro romano vivono famiglie di sfollati. Dieci anni dopo, nel dicembre del 1962, tornerà sull'isola, quasi riprendendo un discorso interrotto. Tutto il miele è finito è il diario di questi (questo) viaggio.
Il Duomo di Cagliari
Levi è sulle tracce di un altro scrittore D.H. Lawrence che aveva, prima di lui, raccontato un suo breve soggiorno sardo. Ne cerca i segni nelle locande descritte dall'inglese nel suo resoconto Mare e Sardegna. Ne apprezza la scrittura poetica e visionaria anche se non condivide il tono severo e altezzoso verso la gente del posto.
Cagliari
Ritrova a Cagliari i segni della presenza, coloniale, piemontese. Là dove comincia la strada per Porto Torres (ancora oggi conosciuta con il nome di chi la fece costruire) è la statua di Carlo Felice. C'è chi crede sia l'effige d'un santo e, passando, si segna.
Cagliari
Carlo Levi si inoltra in una regione in cui i segni del mondo moderno (le miniere e la mussoliniana Carbonia, città di fondazione, ghetto minerale denza radici e senza passato) affiancano il mondo arcaico dei pastori. Come lo sottolinea Giulio Ferroni nella prefazione al libro, nel racconto dello scrittore lo spazio naturale è sempre in relazione con il la percezione del tempo, tempo storico che diventa tempo cosmico. Levi osserva i segni di un passato mitico per ritrovarli in un presente nel quale l'arcaico sembra come depositato: Qui nell'isola dei sardi, ogni andare è un ritornare. Nella presenza dell'arcaico ogni conoscenza è riconoscenza.
Il suo viaggio lo porta fino ad Orgosolo, paese dei briganti, nel quale i carabinieri si muovono come in luogo nemico quasi come in una colonia ribelle, in preda alla tragedia della disamistade.
Murales a San Sperate
Lo affascinano i gesti ancestrali trasmessi dalla tradizione come la cottura del capretto, con la palla di grasso incandescente per terminarne la rosolatura (aveva letto la descrizione della cerimonia nel libro di Lawrence), il funerale del muratore a Orgosolo o ancora i nuraghe con il loro alone di mistero ancora oggi irrisolto:
Dentro il nuraghe c'è ombra e silenzio, e, naturalmente, senza l'intervento dell'immaginazione o lo sforzo della ragione o della fantasia, il senso fisico di essere in un altrove, in una regione ignota, prima dell'infanzia, piena di animali e di selvatica grandezza. Ben protetti da queste mura gigantesche, se ne sentono tuttavia gli indeterminati terrori, e il senso dell'arcaica crudeltà di questi uomini arcaici, asserragliati nelle torri, in una natura crudele.*
La chiesa di Sant'Efisio a Nora
Levi osserva la Sardegna, ascoltando le voci di un popolo  e quelle di una terra che ha saputo conservare e tramandare ancora poesia e cultura malgrado la durezza di una vita povera e difficile.
Carlo Levi Tutto il miele è finito ILISSO editore Nuoro 2003
Cagliari, contrasti.

domenica 30 ottobre 2011

Monte Bolza

Una mano volenterosa ha un po' ripulito il sentiero dai rovi e ha segnato le pietre.
L'ambizioso progetto del Sentiero Italia fa fatica a concretizzarsi. L'idea, quasi utopistica, di una via pedestre che in 6000 chilometri ed in un unico itinerario unisca l'Italia da Trieste alla Sicilia e che poi attraversi la Sardegna fino a Santa Teresa di Gallura, avanza con difficoltà. Eppure il simbolo è bello. Queste vie di montagna hanno sempre legato tra loro gli uomini. Percorrere il territorio significa conoscerlo, riconoscerlo e riconoscere anche i propri simili.
Non a caso fu Dante l'esiliato a creare nella Commedia quell'opera, vera e propria cartografia del mondo, che meglio di tutte parla dell'uomo.
Ma la buona volontà a volte non basta, resta l'idea, e non è poco.
L'inizio del sentiero.
Da Castel del Monte la via de la mentagna è stata percorsa nei secoli passati per raggiungere la piana di Campo Imperatore (la mendagna appunto in dialetto, montagna per antonomasia). 
Il cavone
Qui, nel territorio comunale, nei periodi più fasti, pascolavano fino a sessanta morra di pecore (na morra = 300).
Ma non solo i pastori passavano quassù. 
Era questa anche via di collegamento con il versante teramano. Il pellegrinaggio al santuario di San Gabriele dell'Addolorata, ad Isola del Gran Sasso era momento di devozione certo, ma anche di scoperta e di vacanza. 
Prena e Camicia
E poi, più brevemente, prima della costruzione dell'acquedotto, si salivano le pendici del monte Licciardi fino al cavone, sorgente e fossa riempita di neve a cui attingere l'acqua tanto preziosa e rara.
Le rocce del versante sud del Bolza
È da questa stessa via che si parte per salire sul roccione che domina e sorveglia il paese: il monte Bolza.
Dalla chiesetta di San Donato si attraversa la strada già statale 17bis. 
Il sentiero si inerpica a lato della sterrata, sfiorando la pineta. Salita abbastanza ripida che, dopo aver aggirati il cavone, oggi pozzetto di captazione in muratura, si dirige verso il vado della montagna
Castel del Monte poco a poco scompare dietro la curva del colle. Più lontano il paesaggio si apre verso la rocca di Calascio e la Valle del Tirino, sempre con il Sirente a far da sipario.
Sul valico il vento soffia quasi impetuoso. D'un tratto appaiono le cime maggiori ad est del Gran Sasso, ancora avvolte da nuvole.
La vetta
Il Bolza è sempre più incombente, i grandi macigni rotolati dalla montagna sono sparsi sulle pendici.
Il sentiero scende leggermente, poi costeggia, pianeggiante, il fianco orientale della montagna.

Lo si abbandona prima che cominci a scendere verso il canyon di Valianara.
Da qui si sale, con percorso libero, sulle falde del monte, dopo aver aggirato il primo spuntone, lungo un canalone ripido ed erboso che porta sulla cresta.
Si piega poi a sinistra, tra le rocce e si sale ancora per qualche metro fino alla targa che indica la cima. 
In realtà la vera vetta della montagna è più a ovest, sul lato opposto della lunga cresta. Ma laggiù il colle arrotondato è meno attraente di questo bello sperone e così il monte Bolza (1904 metri) è preferito alla Cima del Bolza (1927 metri).