La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



lunedì 23 dicembre 2013

Cesare Pavese: La luna e i falò

Sono colline le Langhe, ma che sentono già la montagna, soprattutto quando la nebbia ne gela le creste e si accumula nelle valli. I filari di vigna appaiono neri e contorti nella luce ovattata del pomeriggio. Tra le robinie qualche cornacchia svolazza gracchiando e scende quasi a sfiorare l'acqua del Belbo che sembra immobile. Uscendo dal paese di Santo Stefano, si passa sotto la collina di Gaminella una collina come un pianeta*, sulla strada che va verso Canelli. Dall'altro lato del fiume il pendio che risale è quello del Salto con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime*. In basso, al fianco dello stradone* sul muro della casa in cui nacque, una lapide ricorda Cesare Pavese.
Sono i luoghi di molte pagine dell'opera dello scrittore ma soprattutto sono quelli dell'ultimo romanzo: La luna e i falò, pubblicato nella primavera del 1950, pochi mesi prima della morte.
Pinolo Scaglione, l'amico falegname la cui bottega era poco lontano dalla casa in cui lo scrittore aveva passato l'infanzia, glielo aveva suggerito: perchè non scrivi un libro su questi posti e Pavese gli aveva risposto che ci stava pensando. Così Pinolo diventò il Nuto del romanzo e lo accompagnò ancora una volta, forse l'ultima, sui sentieri e tra i campi, raccontandogli le storie recenti o più antiche -Te ne conto una-* che lo scrittore avrebbe trasformato nel libro.
L'ultimo romanzo di Cesare Pavese fu scritto in qualche mese, tra il settembre e il novembre del 1949 e concluse un periodo di intensa attività narrativa. Nel giugno dell'anno successivo lo scrittore riceveva il premio Strega per La bella estate, ultima apparizione pubblica prima della morte in una stanza d'albergo davanti alla stazione di Torino.
La luna e i falò è epilogo e sintesi dei temi pavesiani. Il dialogo è tra Anguilla, il trovatello tornato, con qualche soldo in tasca, a Santo Stefano dopo aver percorso il mondo e Nuto che invece il suo viaggio lo ha fatto tra i borghi e la fiere: Coi colleghi di banda che istruiva lui sotto una tettoia il sabato sera alla Stazione, arrivavano sulla festa leggeri e spediti; poi per due tre giorni non chiudevano più la bocca né gli occhi via il clarino il bicchiere, via il bicchiere la forchetta, poi di nuovo il clarino, la cornetta, la tromba, poi un'altra mangiata, poi un'altra bevuta e l'assolo, poi la merenda, il cenone, la veglia fino al mattino*.
Ma ora Nuto ha lasciato le feste e il clarino, ha ripreso la bottega del padre e provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo*.
Nuto è uomo che riflette, che conosce i suoi simili e che sa cos'è vivere. Non si è mai tirato indietro, neanche quando la guerra civile è arrivata in quei posti. Per Anguilla è un fratello maggiore, una guida: A me piace parlare con Nuto; adesso siamo uomini e ci conosciamo; ma prima, ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni più di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava l'occhio alle donne*. E l'amico sorprende Anguilla che non è più il ragazzino di un tempo, spiegandogli adesso che la terra bisogna ascoltarla, che c'è del vero nel mito del falò che rigenera i campi.
Questa è nuova - dissi-. Allora credi anche nella luna? La luna -disse Nuto-, bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano*.
Anguilla ha scoperto crescendo che al di là di quelle colline c'è un mondo più grande; che nemmeno il mare è confine. Il piroscafo lo ha portato in America e lui l'ha attraversata, fino alle rive di un altro oceano. Ed è laggiù che ha deciso di tornare indietro: Ero arrivato in capo al mondo, sull'ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne*. Non a casa, perchè la sua casa non sa dove sia, ma nei luoghi dell'infanzia, in quello che appare come un tempo se non felice almeno di speranze e di possibilità: Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le colline di Canelli sono la porta del mondo*.
Ma il mondo visto con gli occhi di un ragazzo è scomparso con l'infanzia. Anguilla se ne accorge quando vede che i noccioli sulla collina di Gaminella sono stati tagliati. Non è che un dettaglio ma che sembra aprirgli gli occhi sulla realtà presente. Il casotto in cui aveva vissuto e ora occupato da gente ancora più misera. Valino, il mezzadro, sfoga la sua rabbia sulle donne e sul figlio. In Cinto, il ragazzino sciancato figlio del mezzadro, vede se stesso bambino: Cos'avrei dato per vedere il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba - adesso che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo*.
Ma la storia finisce nel dramma, e un altro falò distrugge il casotto. Una possibile speranza rimane per Cinto che scampa al massacro e trova in Nuto un padre adottivo. Ad Anguilla non resta che una nuova partenza, un nuovo imbarco. Nella riva, degli uccelli facevano baccano e qualcuno svolava in libertà sulle viti. - Un fico me lo mangio,- dissi,- non fa più danno a nessuno-. Presi il fico, e riconobbi quel sapore*.
L'epilogo del libro è lasciato a Nuto che racconta la storia di Santa, la ragazza della Mora, spia dei fascisti, uccisa dai partigiani. Un altro falò che ha lasciato il segno sulle colline.
Sarà anche l'epilogo dell'opera narrativa di Cesare Pavese. Qualche mese dopo chiuderà il suo diario preannunciando il suicidio, il vizio assurdo che lo aveva accompagnato per troppo tempo: Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.**
*Cesare Pavese: La luna e i falo'
**Cesare Pavese: Il mestiere di vivere 

venerdì 13 dicembre 2013

Antonio Gramsci

Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l'uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell'umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, cosí bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, più deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po' di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce. La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Antonio Gramsci

domenica 10 novembre 2013

John Steinbeck: Furore (nuova traduzione)

L'anno scorso ho pubblicato un post per raccontare la mia scoperta di Furore di John Steinbeck: qui. Un libro sorprendente, inaudito nell'Italia fascista degli anni quaranta, sia per la forza della narrazione sia per lo stile, lontanissimo dal linguaggio spesso aulico ed evanescente della letteratura nostrana. Strano dicevo, che un'opera del genere fosse riuscita a passare tra le maglie della censura del Min.cul.pop. il famigerato ministero della cultura popolare.
Per più di settant'anni si è continuato a leggere la versione tradotta da Carlo Coardi, (tra l'altro sembra sia uno pseudonimo) pensando che fosse la buona. Essa è sopravvissuta al regime fascista finito da un pezzo. L'Italia è cambiata; certo non sono scomparsi i problemi di censura anche se quest'ultima è ormai più velata e subdola, ma insomma... Eppure il libro di Steinbeck è stato pubblicato e ripubblicato per tutto questo tempo sempre nella stessa versione.
Ecco quindi che la nuova presentazione del libro fatta dall'editore Bompiani, curata da Luigi Sampietro e con la traduzione di Sergio Claudio Perroni arriva come una piccola bomba: in pratica Perroni ci dice che quello che è stato letto fino ad oggi non è il romanzo scritto da John Steinbeck.
È il quotidiano La Repubblica (09/11/2013) che per primo ha diffuso la notizia.
Certo conoscevamo l'espressione consacrata: traduttore, traditore, ma in questo caso sembra che il proverbio debba essere preso alla lettera. Non si tratta solo di qualche parola scelta male o di qualche difetto di stile; tra la versione di Carlo Coardi e quella di Carlo Perroni c'è un fossato. Alla sua uscita, nonostante fosse già stato edulcorato da una mano pudibonda, Furore fu considerato dai suoi detrattori (Prezzolini tra tutti) alla stregua un romanzo pornografico.
La polemica fu aspra tanto che nel 1942 la censura bloccò una seconda edizione del libro che fu ristampato solo nel dopoguerra ma senza modifiche. Gli attuali curatori non hanno corretto soltanto qualche scelta linguistica discutibile, restituendo a Steinbeck il suo vocabolario (anche se tutto sommato, sottolinea Perroni, nel romanzo le parolacce sono pochissime). Carlo Coardi (o chi per lui) aveva stravolto completamente il senso di certe frasi, eliminato le referenze bibliche che avrebbero suscitato il prurito degli ambienti cattolici e soprattutto tagliato completamente passaggi chiave nella narrazione.
È quindi un nuovo romanzo quello che gli italiani non anglofoni hanno oggi a disposizione. Un testo ancora più dirompente, nella cui prosa il soffio epico è permanente, interpella e scuote il lettore.
Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare, io sarò là. Dove c’è uno sbirro che picchia, io sarò là.
Facile capire perché nell'Italia clericofascista del 1940 una frase come questa dovesse sparire.
Ecco quindi che un romanzo, che già nella sua forma edulcorata è stato ammirato da generazioni di lettori, torna alla ribalta, con duplicata potenza. Un ottima notizia ma che ci invita a riflettere ancora una volta sul ruolo del traduttore.

giovedì 24 ottobre 2013

Ennio Flaiano: Tempo di uccidere

Siamo nel 1947, l'Europa uscita dalla guerra comincia una lenta e difficile ricostruzione. L'Italia riscopre la democrazia dopo venti anni di regime totalitario. La prima assemblea eletta democraticamente sta scrivendo i principi della nuova Costituzione con faticosi compromessi tra l'area democristiana, uscita vincitrice dalle prime elezioni libere e quella di sinistra che vorrebbe dare più voce agli ideali di progresso sociale espressi dalla Resistenza.
Gli intellettuali progressisti sono animati dalla volontà di raccontare e di analizzare. Sotto l'impulso della scoperta degli scritti di Antonio Gramsci, il Neorealismo cerca, con non poche contraddizioni, uno sbocco progressista alla produzione culturale nel cinema e nella letteratura.
Anche Italo Calvino, altrove non molto sensibile alla tematica realista, dà alle stampe in quest'anno il suo romanzo della resistenza: Il sentiero dei nidi di ragno. Contemporaneamente Primo Levi, reduce dai campi di sterminio nazisti, racconta la sua drammatica esperienza personale in Se questo è un uomo.
È in questo contesto che, solo qualche mese prima di Calvino e Primo Levi, su un registro completamente differente, Ennio Flaiano pubblica il suo unico romanzo: Tempo di uccidere.
Meglio conosciuto per il suo lavoro di sceneggiatore (quasi tutti i film di Fellini, da La dolce vita a Giulietta degli spiriti ma anche La notte di Antonioni, I soliti ignoti di Monicelli e tanti altri), per il suo lavoro di giornalista e per i suoi efficaci aforismi, Flaiano tralascia per una volta l'ironia e il sarcasmo per una scrittura melanconica e amara.
Affronta un tema che per molti italiani apparteneva ormai ad un passato che avrebbero preferito dimenticare: la guerra d'Abissinia. Tra il 1935 e il 1936, c'era stata l'aggressione all'impero del Negus e sette mesi di combattimenti durante i quali l'esercito italiano non esita ad utilizzare (un terribile primato) le armi chimiche contro le popolazioni civili. Sette mesi dopo i quali il duce può proclamare la rinascita dell'impero sui colli fatali di Roma, con nelle vesti ben troppo larghe di nuovo cesare Vittorio Emanuele II.
Ed è proprio nel febbraio del 1947 che il trattato di Parigi mette fine, anche formalmente, allo stato di guerra con l'Etiopia.
Flaiano è nato nel 1910, la sua giovinezza è segnata dal fascismo. È un'epoca che lo ha marcato e della quale conserverà per il futuro scetticismo e disillusione. Non si occuperà mai direttamente di politica ma tra le due Chiese, la cattolica e la marxista, sceglie la terza via, quella di una visione laica della società e dell'impegno in essa. Quest'ultimo si esprime prevalentemente nel suo lavoro di giornalista, manifestando un rigetto della volgarizzazione della società stessa. Ma anche i film di cui scrive la sceneggiatura, per esempio La dolce vita, hanno sovente quest'impronta disincantata e senza illusioni.
Tempo di uccidere è lontano dalle tematiche realiste. Se vogliamo invece trovare spunti condivisi da altri scrittori dobbiamo probabilmente cercare tra gli esistenzialisti. In questo senso, essenziale è l'elemento della noia, del disadattamento sociale; non siamo lontani da Lo straniero di Camus. Il protagonista del romanzo è un tenente dell'esercito italiano che, soffrendo per un acuto mal di denti, parte con un camion alla ricerca di un dottore. Una serie di vicissitudini, a volte drammatiche, lo guidano in peripezie dalle quali sembra non trovare via di scampo. Gli avvenimenti, mai osservati in modo oggettivo ma sempre attraverso gli occhi del narratore protagonista, si susseguono senza che egli possa, o voglia, reagire. In un paesaggio di cartapesta, il protagonista, quasi un archetipo dell'antieroe, si perde in un mondo nel quale animali, alberi e rocce appaiono come ombre o silhouettes, quasi una scenografia teatrale dalla quale è impossibile districarsi. Due gruppi di personaggi si contrappongono: i militari, tra i quali è il protagonista e che sono tutti definiti dalla loro funzione: il tenente, il maggiore, il contrabbandiere, il dottore... di fronte sono gli etiopi che invece sono chiamati con il loro nome: Mariam, Johannes, Elias..., nomi dall'eco biblico. Centrale è il tema del tempo cronologico, presente lungo tutto il racconto. Al tempo lineare dei colonizzatori si contrappone l'atemporalità degli indigeni; il tenente perde il contatto con la realtà quando regala il suo orologio che si è fermato e prima di donarlo alla giovane etiope, lo fa ripartire ma a caso. Uscendo dal tempo reale, egli entra nel mondo degli africani. In un continuo susseguirsi di sentimenti contraddittori: rimorso, autogiustificazione, collera, paura della punizione, desiderio di espiazione e poi ancora rimorso, il protagonista è incatenato ad un circolo vizioso dal quale non riesce a sottrarsi. La guerra non è presente se non con le sue conseguenze: i cadaveri di uomini e muli, le capanne abbandonate o bruciate, gli impiccati e soprattutto con i suoi effetti sull'animo umano. È così esclusa ogni, seppur ipotetica, velleità eroica.
Lo scontro tra l'esercito dei colonizzatori e gli etiopi diventa contrapposizione tra l'Africa arcaica, nella quale gli elementi agiscono secondo le energie naturali e il mondo decadente e corruttore dei militari con i quali il contatto si fa attraverso un biglietto di sottomissione che deve essere presentato ad ogni incontro o attraverso il degrado della prostituzione. Tra gli italiani non ci sono personaggi positivi: bramosia di potere, di ricchezza, di possesso guidano le loro azioni. Il tenente segue un destino al quale non è capace di opporsi. L'accidia guida le sue azioni in un vano va e vieni di decisioni prese e poi procrastinate. Ogni scelta risulta sbagliata e lo invischia sempre più in uno stato di malessere fisico e morale. Il legame con il mondo si assottiglia sempre più. Le lettere della moglie, -anch'essa non ha nome ma è definita da un pronome: Lei- conservate in una tasca e rilette ogni tanto, perdono poco a poco la loro consistenza; l'inchiostro scolorisce, la carta della posta aerea diventa carta per sigarette. Con esse si spezza l'ultimo filo che lo legava alla sua vita precedente.
Nell'epilogo della storia anche la confessione delle proprie colpe è vana. Nessuno gli chiederà conto delle sue azioni, segno della prevaricazione su un popolo ma anche dell'inconsistenza di ogni agire umano. Mariam, vittima ignorata, è il simbolo dell'Africa intera: aggredita, sfruttata e dimenticata.

domenica 13 ottobre 2013

Castel del Monte: Città delle tre corone

Tra Calascio e Castel del Monte la strada provinciale scende nell'avvallamento carsico della piana di San Marco. È il pomeriggio ormai inoltrato di un giorno di fine agosto. Il traffico, che è sempre relativamente scarso è in quest'ora quasi inesistente.
Il silenzio è interrotto solo dal gracchiare delle cornacchie e da qualche raffica di vento un po' più forte che scuote gli arbusti e i rari alberi.
Sulla sinistra una sterrata si stacca dall'asfalto e sale sul fianco di una collina.
Di fronte a chi sale, Castel del Monte appare disteso a mezza costa, con alle spalle un colle più elevato, coperto da una pineta e sul quale il paese sembra posato. 
Verso est, al di là di colle San Marco, si scorge, più lontano, l'abitato di Villa Santa Lucia e il valico di Forca di Penne.
Il colle della battaglia deve il suo nome allo scontro tra l'esercito del console romano Bruto Sceva e quello delle genti italiche di Aufina, l'odierna Ofena. 

Gli studiosi parlano infatti della presenza di un insediamento italico, risalente al primo millennio avanti Cristo e poi di un villaggio romano, nato dopo la famosa battaglia, situato più in basso e al quale fu attribuito il nome, leggendario, di Città delle tre corone. 
Nome altisonante ma che in realtà, più che alla presenza di un monarca, sembra fare riferimento alle tre barriere difensive che circondavano l'abitato e la cui collocazione è ancora riconoscibile negli avvallamenti del terreno.
Il pagus romano fu abbandonato e un insediamento relativamente più recente, Marcianisci, si sviluppò su un colle vicino.  
Fu da quest'ultimo villaggio, che in epoca medievale, partirono i primi abitanti di Castel del Monte e della Rocca di Calascio, accastellandosi in insediamenti più al sicuro dalle scorrerie dei barbari.
Nella zona archeologica del Colle della battaglia le esili tracce spingono chi voglia ritrovare i segni di quel lontano passato a far prova di fantasia e di immaginazione tra le non molte vestigia.
A parte i tenui resti della cinta difensiva e di una porta carraia, non rimane, ben evidente, che una postierla, sorta di porta di emergenza dalla struttura a imbuto, pensata per non fare passare che una persona per volta.
Ma è forse proprio l'assenza di monumenti più vistosi a dare a questo luogo un fascino particolare. Si pensa alla mano di quella persona che, migliaia di anni fa, ha camminato sul colle e ha raccolto queste pietre. 
Ci si trova ad immaginare la vita di quelle genti. Sentire la loro presenza, la loro vita quotidiana, le loro preoccupazioni ed i loro pensieri.
L'uomo di prima della Storia (è un modo di dire) ci è più vicino di quanto si potrebbe credere. I suoi desideri, le sue paure e le sue gioie scorrono ancora nelle nostre vene […].Sapeva che l'albero è saggezza, che la pietra è presenza, che la via lattea è uno specchio della semenza, che egli condivide con l'animale la furbizia e il calore, che il volo dell'uccello è simile al suo spirito portato via dalla morte, che il canto ha potere sulle paure e sul risveglio.
Quell'uomo sapeva varcare lo spazio e il tempo.*
*Olivier Germain-Thomas: Le Bénares-Kyôto

mercoledì 2 ottobre 2013

Douglas William Freshfield: Il Gran Sasso d'Italia

Douglas William Freshfield è uno di quei pionieri che, avventurandosi sulle pendici del Gran Sasso d'Italia, hanno fatto della montagna, al di là delle sue dimensioni, un luogo epico e memorabile e ciò nonostante una certa delusione manifestata per una vetta, quella del Corno Grande che, secondo lui, non meritava troppe attenzioni.
Fu nel 1878 che l'alpinista e viaggiatore inglese pubblicò su “The Alpine Journal”, la rivista del Club alpino inglese, il resoconto della sua personale scoperta della montagna abruzzese; ed è grazie alla sezione di Isola del Gran Sasso del CAI che oggi possiamo leggere il resoconto, pubblicato nel 2005, di quell'avventura.
Freshfield ebbe la fortuna, grazie alle agiatezze del padre, avvocato e uomo d'affari, di poter scoprire, ancora bambino, le Alpi svizzere, appassionandosi così alla montagna e all'alpinismo. A poco a poco allargò i suoi orizzonti con escursioni veramente innumerevoli sulle Alpi italiane; citiamo tra esse almeno l'Adamello, il giro del Monte Rosa, del Monte Bianco poi un'ascensione di quest'ultimo. Ne trasse poi un libro: The Italian Alps pubblicato nel 1875 che è, a detta dei critici, un'opera originalissima per lo sguardo dell'autore, ricca di spunti estremamente poetici e coinvolgenti. L'inglese viaggiò ancora più lontano, nel medio oriente e sul Caucaso e nel 1893 diventò presidente dell'Alpine club a cui aveva aderito fin dal 1864.
Fu proprio nel 1875 che Douglas William Freshfield visitò l'Abruzzo e volle salire sul Gran Sasso.
L'unità italiana era cosa recentissima, il brigantaggio faceva ancora paura e non erano numerosi i viaggiatori, soprattutto stranieri, ad addentrarsi nelle selvagge contrade abruzzesi. Nei suoi scritti gli Appennini non hanno niente da invidiare alle Alpi e il viaggiatore lo esprime in passaggi ricchi di quella poesia a cui abbiamo accennato in precedenza: Gli Appennini non sono le Alpi ma il loro scenario ha caratteristiche e bellezze proprie. Le spaziose valli offrono i più romantici paesaggi e sulle colline querceti e vigneti a terrazza si succedono interrotti qua e la dalle grigie mura e torri di una città medievale o dal biancore di qualche villa semi abbandonata, che splende tra gli oscuri pinnacoli dei cipressi oranti, raccolti intorno al suo antico splendore. Sotto il cielo ardente nel punto in cui esso dispiega il suo ampio arco verso il lontano orizzonte, le montagne si ergono catena dopo catena ambrate o purpuree a seconda se spoglie o coperte di alberi con un cerchio di luce dorata lasciato dall'inverno sulle ampie fronde.
Arrivato a L'Aquila salì da quel versante verso il Corno Grande e restò deluso da un paesaggio che secondo lui assomigliava troppo agli altipiani dell'Asia. La misera prominenza a forma di tenda situata sopra la principale catena indicata come il G.Sasso non è l'Ararat. In realtà la più alta vetta dell'Appennino vista da questo lato è una modesta cosa; ma non disperai.
Freshfield decise dunque di spostarsi sull'altro versante, approfittando della nuova linea ferroviaria inaugurata qualche giorno prima. Fu un viaggio che durò un'intera e lunga giornata e che lo portò via Sulmona e Pescara fino a Giulia Nova, da dove una carrozza, in tre ore, lo condusse a Teramo.
Freshfield non aveva idee precise sul luogo di partenza per la sua escursione; da Tossicia non sapeva se dirigersi verso Pietracamela, Isola del Gran Sasso o cercare una pensione più vicina alla montagna.
Fu poi a Casale San Nicola che incontrò il parroco Don Matteo D'Arcangelo, generoso e bonario personaggio che accolse e ospitò Freshfield e i suoi accompagnatori, unendosi poi a loro per un tratto il giorno seguente.
Salito sulla vetta, il suo giudizio sul monte cambia in parte: Il G. Sasso è una vera montagna, sia che la si osservi dall'alto che dal basso.[...]L'Italia centrale si stendeva sotto di noi; grandi onde rotolanti di terra rossiccia punteggiate sulla superficie da neve spumosa, si schizzavano di verde nelle cavità dove potevamo vedere il bacino di Sulmona e la valle del Garigliano. Gli occhi spaziavano sugli Appennini, dalla Maiella ai monti della Sibilla.
Ma solo in parte: Io non consiglio a nessuno che consideri una passeggiata in montagna un inutile spreco di energie, di scalare la più alta vetta degli Appennini. Coloro comunque che considerano un panorama come uno dei piaceri del giorno, vedranno una scena singolare con un proprio elemento selvaggio così inatteso nel sud.
Ma, al di là di queste considerazioni che attenuano leggermente l'entusiasmo di Freshfield, resta una narrazione di un alto valore letterario. Il viaggiatore inglese è un relatore gradevole e avvincente, ottimo scrittore in assoluto.

venerdì 20 settembre 2013

Radici

Francesco Guccini incide nel 1972 nell'album Radici una delle canzoni (quella che dà il titolo al disco) più riuscite della sua lunga carriera. Sulla copertina la foto color seppia di una famiglia tradizionale, del primo Novecento forse. Uomini con baffi e panciotto, donne con lunghe gonne e tutti con l'aria un po' impettita, di chi si è messo in ghingheri per la fotografia ma che è pronto a tornale al lavoro nei campi. Sul retro una foto più moderna sulla quale il cantante si mette in scena con la sua compagna e un gatto. Evidente la volontà di dialogo tra le due immagini, con ciò che è cambiato e ciò che resta. Perché il tema del 33 giri, - come si usava qualche tempo fa le canzoni sono legate da un filo conduttore - è quello delle radici appunto.
È un tema che da quegli ormai lontani anni Settanta non è passato di moda, tutt'altro, ma che non è mai facile da affrontare. La citazione da La luna e i falò, di Cesare Pavese che, non ha caso, è stata scelta per introdurre questo spazio di appunti, è emblematica. L'opposizione, o piuttosto direi il legame, è tra la necessità di avere un luogo in cui riconoscere la propria storia personale e il bisogno di muoversi è di seguire il fischio del treno che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a meraviglie, alle stazioni e alle città.*
Oggi tutti cercano le proprie radici necessarie, si dice, per ritrovare valori che un mondo globalizzato ha fatto scomparire. Radici nella tradizione popolare, nell'alimentazione, nella musica. Un'idea che è stata fatta propria dalla cultura cosiddetta alternativa. Così l'artigianato è osservato con interesse, contrapposto all'industria; si riscoprono verdure e legumi che erano stati dimenticati; si riscopre la lentezza come valore positivo opposto alla frenesia del progresso.
Ma lo sguardo indietro, verso le radici, può anche diventare reazionario, riflesso identitario e xenofobo soprattutto quando è ripiegamento sul territorio e sull'etnia. “La terra non mente” era uno degli slogan del regime fascista di Vichy. Il contadino è fonte di saggezza perché più di tutti ancorato allo spazio naturale in cui vive e che lo fa vivere.
Da qui il rigetto e il sospetto per chi non ha legami: lo zingaro o il vagabondo, i senza patria per i quali camminare per il mondo è un fine e non uno spazio tra due luoghi di vita.
Ma l'uomo non è una pianta, non ha radici, ha due piedi e due gambe per camminare e per andare altrove. E poi nemmeno le piante stanno ferme, non si legano ad un terreno: il vento, gli uccelli portano i semi, viaggiano, trovano nuovi spazi**.
* Cesare Pavese: La luna e i falò.
**Jean-Christophe Bailly :Le dépaysement

martedì 10 settembre 2013

Civitella del Tronto

Il 17 marzo 1861 a Torino, il parlamento del regno sabaudo adottava la decisione del re Vittorio Emanuele II di assumere per sé e per i propri discendenti il titolo di Re d'Italia. Era la conseguenza dell'epopea garibaldina e della spedizione piemontese che avevano portato alla, ancora parziale, unificazione della penisola. Che il re conservasse l'epiteto di secondo non è un caso. Il nuovo regno ereditava dal precedente leggi e regolamenti e, soprattutto, lo Statuto Albertino, non certo un esempio di costituzione democratica (il suffragio censitario permetteva a solo il 2% della popolazione – maschile – di votare per un parlamento che tra l'altro non aveva praticamente alcun potere).

Mentre a Torino, dopo la caduta di Gaeta, si festeggiava il nuovo regno, la fortezza borbonica di Civitella del Tronto ancora resisteva. Solo tre giorni dopo, il 20 marzo, la guarnigione si arrese e l'esercito piemontese poté occupare il forte.
Sulla strada che congiunge Teramo ad Ascoli Piceno appare Civitella del Tronto allungata sulle pendici del suo colle; più in alto, sulla cresta, parallela al paese è la fortezza borbonica. Appare, quasi a mezz'aria, tra la costa adriatica e i “Monti Gemelli”, così detti per la loro evidente somiglianza: la Montagna di Campli e, più a nord la Montagna dei Fiori.

Nonostante l'estate ormai inoltrata, i prati sono ancora verdi e brillano sotto il sole.
Si entra nel paese passando sotto l'arco della porta medievale. L'antico decumano (oggi corso Mazzini) attraversa il paese in una lunga passeggiata. 
Le belle case di travertino attenuano con la loro ombra il caldo della mattinata e gli anziani abitanti ne approfittano per una pausa e una chiacchierata.

 Qua e là uno spazio si apre sul panorama sottostante da dove sale il rumore lontano di un trattore al lavoro.
Saliamo verso la fortezza alla quale ormai si può accedere con una comoda ma certo non bella scala mobile. 
Piazze e rampe si alternano per centinaia di metri. Le antiche caserme sono state in parte restaurate e occupano esposizioni artistiche. 
Da ogni lato il panorama è bellissimo. Verso sud sono il Gran Sasso e la Maiella.







venerdì 30 agosto 2013

Ome se nasce, brigande se more

È in occasione del centocinquantesimo anniversario dell'unificazione italiana che si è tornati a parlare, anche fuori dai circoli di ricercatori, del fenomeno del brigantaggio nell'Italia meridionale. Una lettura più critica dell'epopea garibaldina e delle sue conseguenze e implicazioni ha riportato alla luce fatti occultati o deformati dalla storiografia ufficiale. L'immagine un po' manichea che vedeva i “liberatori” piemontesi battersi contro le forze reazionarie ostili al progresso sociale non appare più ormai così limpidamente definita.
Quella del brigante è certamente tra le figure che hanno avuto un ruolo importante nel periodo storico immediatamente successivo alla spedizione dei Mille. Sono personaggi che hanno suscitato sentimenti contraddittori: fascino, per la loro immagine di uomini liberi e dalla vita avventurosa; paura, per la violenza e la spregiudicatezza delle loro azioni.
Le ragioni dello svilupparsi del fenomeno furono molteplici: rigetto del nuovo potere e fedeltà ai Borboni, rifiuto del servizio di leva prima inesistente, delusione per le promesse non mantenute dal nuovo potere, senza dimenticare il più banale banditismo dedito a furti e razzie.
A Castel del Monte, sotto l'impulso dell'ex sindaco Mario Basile, appassionato riscopritore della storia locale alla quale ha già dedicato alcuni interessanti libri, uno spettacolo itinerante, ormai alla seconda edizione, nelle vie dell'antico borgo medievale ha ritracciato alcuni aspetti dell'epopea del brigantaggio.
Nelle piazzette del paese, luoghi ideali per la messa in scena dello spettacolo, un gruppo attori amatori ha recitato (e cantato) riportando alla luce fatti di storia locale, inframezzati da considerazioni e letture atte e chiarire e a dare una spiegazione agli avvenimenti.
Uno spettacolo riuscito, di teatro popolare nel miglior senso del termine, che anche grazie all'impegno dei partecipanti (dallo studente al muratore), ha saputo coinvolgere i numerosi spettatori che, per gruppi, si spostavano da una scena all'altra in una suggestiva passeggiata notturna.