La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



giovedì 31 dicembre 2015

venerdì 25 dicembre 2015

Eugenio Montale: I limoni


Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantanoi ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rurnorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.

lunedì 21 dicembre 2015

Provenza : Le Rocher des Aurès

Credo che non potrei avec cura della mia salute fisica e intellettuale se non passassi almeno quattro ore al giorno – e spesso di più – a passeggiare nei boschi, per colline e per campi, completamente libero da ogni contingenza materiale. Si può dire con certezza che si tratta di pensieri da un soldo o da un milione. Quando penso che gli artigiani e i commercianti rimangono nelle loro botteghe non solo tutta la mattina, ma anche tutto il pomeriggio, seduti a gambe incrociate, – come se le gambe fossero fatte per sedersi, e non per alzarsi e camminare - , penso che molti tra loro abbiano del merito a non essersi suicidati da un pezzo.
Io che non posso restare nella mia camera un sol giorno senza arrugginire, quando mi capita di mettermi in cammino all'undicesima ora della mia giornata alle quattro del pomeriggio, ora troppo tardiva per riscattare la giornata, quando le ombre della notte comminciano già a confondersi con la luce del giorno – ho il sentimento di aver commesso qualche peccato, peccato che bisogna espiare, io confesso di essere sorpreso dalla capacità e dalla resitenza – senza parlare dell'insensibilità morale dei miei vicini che si rinchiudono tutto il giorno nelle loro botteghe e nei loro uffici per settimane e mesi che sommati fanno anni. Ignoro di che stoffa siano fatti per restare seduti a quest'ora, alle tre del pomeriggio, come se fossero le tre del mattino.
H.D.Thoreau: Del camminare

Les rocher des Aurès è uno sperone triangolare culminante a 771 metri che si eleva ai piedi del massiccio della Lance nelle prealpi francesi della Drôme. La punta indica l'est e il suo innalzamento ha lasciato due falesie di calcare, nel loro punto d'incontro, quasi cinquanta metri.

Le bianche mura di pietra rendono da questo lato l'accesso impraticabile.
Già nell'Età del bronzo, tra il 3000 e il 2000 a.c., forse proprio per questa particolarità, il sito era apprezzato come rifugio ideale per una piazzaforte considerata inespugnabile. Furono forse i celti a dare il nome di Aeria all'oppido costruito du questa montagna.
Quando l'aria è tersa si vede la valle del Rodano a una trentina di chilometri di distanza, il monte Ventoso e il lontanissimo massiccio delle Cevenne, a più di 120 chilometri.
Nella regione il vento soffia spesso con forza ma in questo punto preciso la montagna della Lance fa da barriera e addolcisce le temperature permettendo una vegetazione rigogliosa.
Attualmente il Rocher des Aures si situa in una zona relativamente isolata e selvaggia ma nell'antichità passavano da qui importanti vie di comunicazione come quella che collegava la colonia fenicia di Massalia (l'odierna Marsiglia) alle città della valle del Rodano.
Molte esplorazioni, di archeologi professionisti o dilettanti, hanno percorso questo sito alla ricerca dei resti dell'oppido di Aeria che Strabone cita nel suo trattato di geografia ma, forse anche a causa della difficile accessibilità del luogo, senza risultati spettacolari.
Partiamo dal paesino di La Roche-Saint-Secret.
Nel fresco del mattino la bruma avvolge ancora il fondovalle e dalle sponde del fiume Lez si allarga verso i campi circostanti.
Ma rapidamente il sole supera le creste delle montagne e scendendo fino al fiume dirada la nebbiolina e ravviva i colori delle foglie di vigna ormai quasi pronte a cadere.
Sembra che il borgo di La Roche Saint Secrèt debba il suo nome proprio al Rocher des Aures che si trova sul suo territorio.
La strada che attraversa il villaggio è quella che collega Dieulefit, capoluogo del cantone a Valréas, nella cosiddetta “enclave dei papi” appartenente amministrativamente al dipartimento vicino del Vaucluse, quello di Avignone, sede papale appunto.
Il monte più alto è il Garaux e “culmina” a 1338.
Risalendo la stradina che porta verso un'antica cappella, passiamo davanti al castello di La Roche. Oggi è una casa privata, solo i torrioni angolari ricordano le antiche funzioni.
Nel prato vicino un cane ci accoglie facendoci le feste. È un border collie che probabilmente ha fiutato la possibilità di una passeggiata fuori programma e che ci seguirà per tutta la durata della gita.
La stradina si trasforma rapidamente in sentiero e si avvicina alla falesia calcarea tra pini, arbusti e castagni.
Arrivati ai piedi del picco roccioso lo aggiriamo, tagliando le pendici della Lance e scendendo gradualmente verso una valletta sottostante.
Una sola costruzione isolata, le gîte de Flontargias, una tipica cascina in pietra trasformata in agriturismo, interrompe l'aspetto un po' selvaggio del luogo.
Da qui il sentiero comincia a risalire a zig zag verso la cresta del monte Lance.
Il nostro amico cane ci precede e ogni tanto si ferma per aspettarci. Se tardiamo troppo torna indietro e rifà la strada con noi. In effetti la passeggiata descritta nella guida non è proprio di tutto riposo.
Dopo la discesa risaliamo dai 400 metri dell'agriturismo fino ai 1200 del passo, non lontani dalla cima della Lance.

Quassù il bosco si fa meno fitto poi lascia spazio ad ampi pascoli dove troviamo una piccola mandria di mucche limousine reputate per la loro rusticità.
Il nostro amico cane conosce la strada meglio di noi e a ogni bivio ci aspetta per vedere se prendiamo la direzione giusta.
Il poveretto deve cominciare ad avere fame e sete; noi non avevamo previsto un giro così lungo e non abbiamo niente da offrirgli.
Concluso il giro sulla montagna ritroviamo, sotto il Rocher la via percorsa la mattina. Il cane sembra sempre più impaziente di ritrovare la sua casa e soprattutto la sua pietanza.
Ci aspetta ancora ma ogni volta si allontana un po' di più e quando si volta sembra invitarci ad affrettare il passo.
In vista della casa riconosce i suoi padroni e ci lascia definitivamente accolto dai rimproveri della “castellana” che lo ha cercato tutto il giorno.

sabato 19 dicembre 2015

La passatella

Sarà l'inverno che arriva, sarà la fine dell'anno che, con lo scandire delle ricorrenze, ci fa considerare con maggior raccoglimento lo scorrere implacabile del tempo, l'ora sembra alla rievocazione.
Reminiscenza di aneddoti spesso insignificanti nello scorrere degli avvenimenti ma capaci, come la proverbiale madeleine di Marcel Proust, di riportare a galla stralci di vite passate, di mondi che sembrano ormai lontanissimi nell'accelerazione spettacolare di una modernità che fa sembrare preistorico il decennio precedente.
Così basta un accenno in una pagina di un interessante blog http://www.qualcheriga.it/10-cose-che-ho-imparato-in-abruzzo-nel-2015/ alla passatella per ritrovare immagini del passato ormai dimenticate.
Nel borgo di Castel del Monte le possibilità di svago, soprattutto finita la bella stagione, non sono molte. Lo erano ancor meno quando l'automobile era un privilegio di pochi e quindi più difficile spostarsi. La vita sociale, più di oggi, separava spesso il mondo femminile da quello maschile. Per questi ultimi il ritrovo era la cantina, l'osteria e poi il più moderno bar, dove ritrovarsi dopo il lavoro e passare il tempo tra amici e conoscenti. Questi locali erano relativamente numerosi, quasi quanto le chiese, e tutti molto frequentati.
Si battevano le carte, a tressette, a scopa, a volte a briscola. Ma senza dubbio il gioco che più di tutti appassionava gli astanti e spesso accendeva gli animi era la passatella.
Un gioco antichissimo; pare fosse conosciuto già dagli antichi romani, diffusissimo poi negli ambienti popolari della Roma papalina al punto da provocare tali turbe all'ordine pubblico che, nel XVI secolo, fu necessario l'intervento delle forze dell'ordine del papa Sisto V.
Una partita a carte era solo il pretesto per decidere chi fosse il padrone e chi il sottopadrone. Stava poi a quest'ultimo proporre al primo chi potesse bere e chi no le bevande pagate equamente. Si animavano lunghe discussioni, soprattutto se il padrone e il sottopadrone non erano proprio amici o, peggio, avevano un conto da regolare. Entravano in ballo ripicche, antipatie, rancori, animosità. Chi restava “a secco” era fatto olmo (olmo, forse perché con i rami di questa pianta si legavano le viti e quindi erano vicini al vino ma senza berlo). Oppure, con un fine ancora più perfido, a volte si designava uno zimbello per farlo bere fino all'ubriacatura, la famosa gatta. Succedeva che antiche amicizie fossero messe a dura prova e che, bicchiere dopo bicchiere gli animi si scaldassero è il gioco finisse sovente in rissa.
L'osteria castellana non sfuggiva a questa malasorte. Ed era forse il ricordo di epiche dispute ad accollare epiteti battaglieri ai locali. Oggi Montelepre (il paese di Salvatore Giuliano) ha definitivamente chiuso i battenti mentre Il Vietnam è diventato l'accogliente Rifugio del pastore.

domenica 6 dicembre 2015

Ma la festa dell'Unità non si fa più?

Per chi abita all'estero non è facile seguire la vita politica italiana. Molte cose sono cambiate in questi ultimi decenni e il cambiamento sembra accelerarsi sempre più, preso in un vortice che spazza via tutti i punti di riferimento che sembravano inamovibili.
Ciò è ancora più evidente in un contesto particolarmente circoscritto e singolare com'è quello di un paese di montagna come Castel del Monte, malgrado tutto ancora un po' appartato rispetto al mainstream contemporaneo.
Così capita ancora di sentire qualche compaesano abitante all'estero e in vacanza chiedere incuriosito: Ma la festa dell'Unità non si fa più?
Per molti connazionali in effetti, il ritorno al borgo per le vacanze estive era, ed è tuttora, segnato da una serie di avvenimenti culturali che scandiscono il calendario delle giornate estive: la rassegna ovina di Campo Imperatore, la festa di San Donato, la scampagnata di Ferragosto, la festa della classe e, da qualche anno, la “Notte delle streghe”.
Tra queste manifestazioni si inseriva la Festa dell'Unità, un tassello, forse un po' anomalo ma non troppo, nella successione di appuntamenti estivi.
Anomalo perché era forse l'unico non unanimemente accolto nel panorama delle iniziative pubbliche.
Quando, sempre più raramente, si parla di politica, soprattutto per coloro che abitano all'estero, appare la necessità di capire quali siano gli schieramenti in campo e di associarli a schemi conosciuti che più o meno corrispondano.
Così, semplificando all'estremo (ma forse non a torto) fino a qualche anno fa si distinguevano le due fazioni: comunisti e democristiani, sinistra e destra, anticlericali e bigotti. E soprattutto i più giovani, nati all'estero e un po' sperduti nelle sottigliezze arcane del panorama ideologico nostrano, erano sconcertati quando il quadro manicheo non corrispondeva più alle attese.
Certo in un paesino in cui tutti si conoscono, il dibattito politico può rapidamente sviare in un battibecco tra i seguaci di Peppone e quelli di Don Camillo e la schermaglia può avere conseguenze paradossali.
Fu il caso per esempio nel 1980 quando alle elezioni comunali, dopo anni di opposizione, una lista di sinistra, organizzata attorno alla sezione comunista riuscì ad imporsi e a fare eleggere alla carica di sindaco Mario Basile, principale animatore di un gruppo di giovani intraprendenti e motivati, che aveva saputo scuotere l'arcaica e sonnolenta sezione e che resterà poi in carica per i successivi 24 anni.
Per il campo avverso la batosta fu rude e inattesa a tal punto che gli sconfitti decisero -arma letale- di boicottare la festa patronale di San Donato, ritirandosi dalla deputazione incaricata dell'organizzazione dell'evento. La risposta non si fece attendere. Era impossibile infatti per l'amministrazione neoeletta bollare, con un segnale che sarebbe apparso incomprensibile a molti, il nuovo corso e macchiare con un simbolo così inaudito – il vuoto incolmabile lasciato dalla secolare festa - le rosee prospettive future. Ed ecco quindi i militanti comunisti, abbandonate per l'occasione le bandiere rosse e, imbracciati i monumentali sacri stendardi, occuparsi con buona lena del programma di animazione delle festività in onore del santo protettore accompagnando la statua nelle due canoniche processioni tra la chiesa matrice e quella eponima.
L'implicazione dell'amministrazione di sinistra non si smentirà negli anni seguenti anche quando la parte avversa tornerà a più miti consigli riprendendo le redini delle celebrazioni. La partecipazione alla processione religiosa, comunemente accettata dalla maggioranza della popolazione, avrà però delle insospettate conseguenze oltralpe, mettendo nell'imbarazzo il sindaco comunista di Somain, la cittadina francese gemellata con Castel del Monte. Una cartolina raffigurante il santo seguito dai due sindaci verrà utilizzata da un oppositore per denigrare l'incongruo atteggiamento filo clericale del maire comunista.
Tra gli eventi chiave dell'estate castellana si inseriva quindi la Festa dell'Unità, organizzata anch'essa, ma con più congruenza dalla locale sezione del Partito Comunista. Un momento certo festivo ma non sprovvisto di iniziative culturali e di dibattito un po' a controcorrente tra processioni e le messe.
Sulla piazza principale o nella “zona sportiva” le tradizionali grigliate accompagnavano spettacoli più o meno “impegnati”, come si diceva allora. Punto nevralgico di coordinamento era la Casa del popolo, sede di partito ma anche centro di ritrovo e di incontro.
Il destino della Casa del popolo fu forse l'ultimo sussulto vitale e organico (come direbbe Gramsci) del popolo di sinistra castellano. La sfida lanciata tra i castellani e dettata da contingenze locative era chiara: dare una sede definitiva e stabile al Circolo. Fu una mobilitazione all'altezza della posta in gioco. Nelle città del nord Italia ma anche all'estero, i compaesani simpatizzanti e militanti, giovani e meno giovani, furono sollecitati e risposero volentieri partecipando alla colletta che permise l'acquisizione della nuova (ultima) sede dell'istituzione.
Ma poi il Partito Comunista scomparve, la Cosa si trasformò in quercia, poi in ulivo del quale non resteranno che cinque foglie. Terminata la spinta propulsiva dell'amministrazione di sinistra, anche la Casa del popolo perse il suo ruolo di cellula politica. Continuerà a funzionare ancora qualche anno, come circolo ARCI, tenuto aperto da qualche volenteroso pensionato.
Oggi il locale è ancora aperto in occasioni particolari, come sede di esposizioni.

martedì 24 novembre 2015

Provenza: Vaison la romaine

Sono tre luoghi ben distinti, separati dal fiume Ouvèze. Sulla piana si allarga il paese moderno e vicino sono gli importanti e sorprendenti resti dell'antica città romana, sul colle roccioso è il borgo medievale, dominato dalle mura della rocca che fu castello dei conti di Tolosa.

Un ponte con una sola campata, risalente al primo secolo, scavalca ad una bella altezza il corso d'acqua e collega la parte pianeggiante alla collina.

Oggi Vaison la Romaine è anche tristemente celebre per tragica piena che nel 1992 fece in poche ore 37 morti. Un fenomeno naturale che si era già prodotto nel passato ma che l'occupazione sconsiderata di spazi inondabili aveva reso più drammatico dei precedenti.

Ma non è questo triste ricordo ad attirare i visitatori. Vaison ha la particolarità di presentare, uno accanto all'altro, tre momenti storici lontani nel tempo: quello romano, quello medievale e quello moderno.
È come se, con un unico colpo d'occhio, si abbracciassero duemila anni di Storia.

Arrivando nella cittadina colpiscono gli ampi spazi nella parte bassa. I resti dell'antica città romana sono impressionanti e occupano 15 ettari di territorio: un teatro, le vestigia delle terme e di numerose ville e palazzi - le cui pietre servirono nel medioevo per costruire le città arroccata - permettono un'idea abbastanza esauriente della struttura antica.

Non lontano dal sito è la cattedrale di Nostra Signora di Nazareth.
Risalente al XIII secolo, l'edificio, malgrado la razzia di due vescovi che utilizzarono i marmi ed altri elementi architettonici per abbellire i loro palazzi, conserva quasi completamente la sua struttura di origine merovingia.

Dalla sinistra del coro si accede ad un bel chiostro circondato da un porticato con eleganti colonnine geminate.

Tra i resti di sculture e bassorilievi notiamo il cosiddetto sarcofago degli apostoli risalente al IV secolo;
ne manca la metà e le figure sono senza viso ma, forse proprio per questo, è un'opera affascinante.

Alla fine del XIII secolo la città bassa era ormai completamente abbandonata.
Le dispute e le lotte tra i conti di Tolosa e i vescovi, con saccheggi e scorrerie, avevano spinto la popolazione a lasciare la valle per rifugiarsi sul colle vicino, attorno al castello.

Attraversiamo l'Ouvèze e risaliamo la via che sale verso il borgo medievale.

I negozi e gli altri locali sono quasi tutti chiusi, la stagione turistica è ormai finita.
Pochi turisti passeggiano tra le piazzette ornate di fontane e di grandi platani.
Il panorama sulla regione circostante non è per niente monotono, valli, colline e montagne fanno da sfondo alla città nuova distesa nella pianura.
Si arriva al castello attraversando una grande placca di granito sulla quale l'edificio, o quello che resta, è appoggiato. Il vento fa scoccare le bandiere sul pennone. Sullo sfondo, tra tutte le alte colline, spicca il Monte Ventoso.

domenica 15 novembre 2015

Niura malinconia …


Niura malinconia …
dicembre 2015 il bicentenario di Giovanni Meli 
In questi giorni scossi dagli atroci fatti di Parigi, alcuni versi del l’Abate Meli che esprimono una grande tristezza.
Niura malinconia, tu chi guverni
Cu lu to mantu taciturnu e cupu,
L'immensi orruri di li spazj eterni;
A tia 'ntra li deserti urla lu lupu;
Pri tia la notti lu jacobu mestu
Di luttu inchi la valli e lu sdirrupu;
La scura negghia di cui l’alma vestu
Mi strascina pri forza e mi carria
A lu to tronu orribili e funestu.
L'umbri caliginusi, amaru mia!
Unni sedi la morti e lu spaventu,
Su’  la mia sula, e infausta cumpagnia.
Purtatu supra l’ali di lu ventu,
Murmura 'mmenzu l’arvuli e li grutti
Di l'afflitti murtali lu lamentu……
Dal Pianto di Eraclito – Elegie
Nera malinconia, tu che governi
con  il tuo manto  taciturno e cupo,
l'immensi orrori degli spazi eterni;
a te dentro i deserti urla il lupo;
per te la notte il gufo mesto
di lutto riempie  la valle e  il dirupo;
la scura nebbia di cui l’anima vesto
mi strascina per forza e mi trasporta
al  tuo trono orribile e funesto.
L'umbre caliginose, amaro me!
Dove  siede la morte e lo spavento,
sono la mia sola, e infausta compagnia.
Portato sopra l’ali del vento,
mormora in mezzo gli alberi e le grotte
degli afflitti mortali il lamento………..
 Dal  libro “L’Abate Meli”

mercoledì 4 novembre 2015

Provenza: Taulignan, Grignan, Aiguebelle

Taulignan, pomeriggio di fine ottobre. Il sole è finalmente riuscito ad imporsi grazie anche al maestrale che però ora si è spento. L'aria è dolce e tra le pietre chiare del piccolo paese il blu del cielo è luminoso e alto. Basta questa luce così limpida e calda per ridipingere il paesaggio e colorarlo di tranquillità e di calma.
Tra le stradine incontriamo molti gatti, vocianti e socievoli, basta chiamarli perché vengano miagolanti come se fossimo di casa. Un ulivo ma soprattutto i bei platani adornano e imbelliscono le piazzette e i cortili delle case. Hanno lasciato al vento d'autunno già molta parte della loro chioma ma continuano a sventolare placidamente quello che resta in una bella tavolozza di sfumature gialle.

Sotto una pianta maestosa, l'ultimo tavolo ricorda le serate estive e l'aperitivo sorseggiato tra amici e con il bel colore lilla dà una nota più allegra alla piazzetta.
Le imposte celesti sono quasi tutte già chiuse forse fino alla prossima estate, ma da una delle rare finestre ancora aperte la voce di una radio scende nel silenzio del borgo.

Riprendiamo la strada tra vigne e uliveti. Quando questa comincia a salire su un colle, appare imponente, come una corona nel piano, un castello massiccio e potente.
È quello di Grignan che sovrasta il paese con la sua massa.
Molte librerie e atelier di artisti animano il borgo. Il castello è famoso, fu la destinazione delle lettere di Madame de Sevignie, nobildonna passata alla posterità, probabilmente suo malgrado, per il suo epistolario oggi considerato un classico della letteratura francese.
Madame de Sevignie finì per raggiungere la figlia in questo castello è fu qui che visse i suoi ultimi anni.

Oggi Grignan vive anche di turismo e accoglie comitive di appassionati e di curiosi che si spingono fin qui sulle tracce della celebre scrittrice.

Il borgo è piacevole e ancora animato. Una bella esposizione di fotografie installate tra le arcate di porte e finestre forse definitivamente chiuse, rievoca scene di vita quotidiana del secolo ormai passato.

Sullo sfondo spicca il Monte Ventoso che Petrarca più di tutti rese famoso con il racconto della sua celebre ascensione.

Da Grignan la strada ci porta verso l'abbazia di Aguebelle.
È abitata da una comunità di monaci trappisti. All'ingresso un laico ci spiega ciò che si può visitare (solo l'esterno perché i monaci sono in clausura).
Ma il signore ha voglia di chiacchierare e noi restiamo a lungo ad ascoltarlo. Ci spiega in dettaglio lo stile di vita della comunità, i tre pilastri della vita monastica: preghiera, lavoro e lectio divina.
Una vita intera dedicata a questi tre precetti, senza vacanze e senza
altre interruzioni. Ci informa che l'abbazia ha una statua della Madonna identica a quella di Lourdes, opera dello stesso autore e che anche qui è adorata con fervore. Ci racconta che da qui passarono alcuni dei monaci poi morti, atrocemente decapitati, a Tibhirine in Algeria nel 1996.
Un memoriale è dedicato loro e il ricordo è ancora molto presente ad Aiguebelle.

Facciamo una passeggiata attorno all'abbazia. Un torrentello scorre vicino alle mura (il nome del monastero ricorda l'abbondanza d'acqua).
La chiesa rispetta la regola benedettina, nessuna inutile decorazione sulle massiccie mura.
Una campana suona il vespro mentre le ombre della sera cominciano a scendere sul convento.