La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 26 febbraio 2012

Castel del Monte: San Rocco

In cima alla salita che parte da quella che è oggi la piazza principale del paese è la porta San Rocco, uno degli ingressi nel borgo medievale. Sul lato sinistro si eleva la chiesa omonima. È un solido bastione quadrangolare, costruito su un arco, senza finestre nella parte esterna, e con un piccolo campanile a vela.

Varcata la porta del borgo – appoggiate al muro sono le antiche mole in pietra del mulino comunale – si entra in una bella piazzetta chiusa, dalla parte opposta, da un muro non molto alto che lascia sullo sfondo le montagne delle Riparate.
Sulla sinistra è la facciata quadrata della chiesa, dall'aspetto assai semplice; solo i fregi del portale e le due finestre l'adornano.
L'interno è piccolo, piuttosto una grande cappella che una chiesa. Un bell'altare in legno e oro decora il locale altrimenti spoglio.
Un tempo il pietrone, a fianco del portale, era utilizzato dagli abitanti per garantire i prestiti di denaro: i soldi che passavano di mano erano posati sulla pietra e il gesto diventava una sorta di sacra garanzia impossibile da infrangere senza incorrere in punizioni divine.
 La chiesa di San Rocco fu innalzata dagli abitanti di Castel del Monte dopo la peste del 1656 in onore del santo, protettore dalla malattia. I membri di una delle molte congregazioni religiose di cui si vantava il paese eleggevano ogni anno un priore, incaricato di organizzarene le festività.
Da qualche anno la tradizione che si era spenta è stata ripresa. Una processione è organizzata il 16 agosto e una statuetta di san Rocco è portata a spalle per le vie del paese.
 Riconoscibile anche dai meno interessati all'iconografia religiosa, la figura di Rocco da Montpellier è tra le più suggestive:
Vestito alla maniera dei pellegrini, con tabarro e cappellaccio, il santo porta una zucca-borraccia e si appoggia su un lungo bastone. La sua gamba sinistra è scoperta per mostrare la piaga dovuta alla malattia e ai suoi piedi è accucciato l'immancabile cagnolino.
Il cane è importante. Secondo una bella tradizione popolare ricordata ancora da qualche anziano casteldelmontese è grazie a lui se l'umanità può ancora mangiare il pane:
Nu jurne che gl'ómmene r'avìjane davere fatte 'ngazzà, Ddie glele velè fa pagà.
A quire tembe la spica de grane era piena de vache fin'a 'nderra. La mene de Ddie l'acchiappa da sotte i chemenza a tiré pe levà tutte le vache.
Sande Rocche, che stia loche che ru canucce sii, vedé quele che stia a succede i dicé a ru Segnore: pe caretà, lassane nu puguigle pe da' a magnà a stu canucce che non t'a fatte nende!
I è accusci che Ddie lassé la cima de la spica e che gl'ómmene se pone angora magnà le pane.
Un giorno gli uomini avevano suscitato l'ira divina e il Signore volle punirli.
A quei tempi la spiga di grano era riempita di chicchi dalla base fino alla sommità. La mano divina la prese dalla base e cominciò a tirare togliendo tutti i chicchi.
San Rocco era presente con il suo cagnolino, vide quello che stava succedendo e disse al Signore: per carità, lasciane una manciata per nutrire questo cagnolino che non ti ha fatto niente di male! Ed è così che Dio lasciò la cima della spiga e che gli uomini possono ancora mangiare il pane.

domenica 19 febbraio 2012

Raiano (AQ): Eremo di San Venanzio

Poco lontano da Raiano, la strada verso Vittorito scavalca con un ponte il fiume Aterno cambiando direzione. 
Per migliaia di anni il fiume ha scavato la roccia calcarea creandosi un passaggio verso la la larga pianura alluvionale più a valle. Qui la corrente è ancora forte, tra cascatelle e orridi.
L'abbondanza di acque ha permesso lo sviluppo di un paesaggio rigoglioso, quasi un'oasi nel terreno povero e roccioso.
Queste terre erano abitate già in epoca preistorica. Nel medioevo, e anche in tempi più recenti, furono rifugio per monaci e anacoreti.
Quasi sotto il ponte è l'edificio dell'antico mulino mentre più in alto è l'eremo, a cavallo del fossato.
Anche nei giorni più caldi l'aria è fresca e umida nelle zone d'ombra.
Sul versante sinistro la montagna si eleva ripida. Le grotte, rifugio degli eremiti sono di difficile accesso. In alto uno stendardo crociato si muove nel vento.
L'eremo di San Venanzio fa oggi parte di una riserva naturale ma per gli abitanti della regione è ancora meta di pellegrinaggio. 
Là dove la roccia forma una specie di vasca, i fedeli credono di ritrovare l'impronta del santo capace di guarire dolori e malattie.
La leggenda del santo è antichissima. Venanzio sarebbe nato a Camerino, nelle Marche e perseguitato dall'imperatore Decio avrebbe trovato rifugio nelle terre di Raiano. 
L'agiografia lo dice morto martire a quindici anni, nell'anno 250 dopo aver resistito alle torture con mirabolanti miracoli. A Camerino, luogo del martirio, una basilica gli è dedicata.

giovedì 9 febbraio 2012

Librairie Internationale V.O.: Aspettando il Commissario incontrammo Seneca

La Librairie Internationale V.O. (Version Originale) di Lille, malgrado il suo nome un po' altisonante è un piccolo locale (non tanto però) non lontano dalla stazione. Il nome è del tutto meritato. Sotto una serie di orologi che segnano le ore delle principali città del mondo, sono esposti libri in moltissime lingue: dallo spagnolo al russo, dal giapponese all'inglese, dal portoghese al greco e, naturalmente, in italiano.
La proprietaria non si limita a metterli in vetrina, spesso prima li legge, cosa che, se può sembrare normale per un libraio qualunque (almeno così dovrebbe...), in questo caso, vista la varietà degli idiomi, è davvero sorprendente.
La libreria è frequentata da studenti, da stranieri residenti nella regione ma anche, e soprattutto, da appassionati che trovano qui di che soddisfare la loro curiosità per lingue e paesi più o meno lontani.
È una libreria che, per usare un'espressione un po' alla moda ma non priva di verità, fa della resistenza di fronte alle due librerie «supermercato» che in città hanno fagocitato quasi tutti gli artigiani del settore.
Ma il lavoro, direi l'opera, della libreria VO non si limita all'importazione di testi.
Una piccola saletta al primo piano accoglie autori e conferenzieri, anch'essi sovente in lingua originale, e un pubblico fedele che segue ormai da qualche anno gli incontri proposti.

Questa volta, eccezione che conferma la regola, il libro presentato è scritto in francese anche se l'argomento e l'autore sono di origine italiana.
Julien Sapori è attualmente commissario di polizia a Maubeuge, una cittadina della regione. Ma è anche uno storico e si interessato alla storia della Giustizia e della Polizia in Francia tra il Settecento e il Novecento. Le sue ricerche hanno anche indagato (è il caso di dirlo) su aspetti non molto conosciuti delle relazioni tra Francia e Italia; in un suo saggio per esempio, racconta la storia della presenza delle truppe italiane in Francia durante la prima guerra mondiale.
Il suo ultimo lavoro ritraccia e analizza sotto una nuova luce un fatto, tra cronaca e politica, del ventennio fascista: Le supçon 1928 L'affaire Pavan-Savorelli, fascistes et antifascistes en France.
Il 14 marzo del 1928 Angelo Savorelli, una spia della polizia politica mussoliniana è ucciso a colpi di pistola in un appartamento parigino. Poco tempo dopo, Alvise Pavan, un fuoriuscito antifascista è arrestato in Svizzera e, dichiarato colpevole, condannato a dieci anni di reclusione. Morirà nel 1930 in una prigione francese.
Ma Pavan era anche lui una spia e non era Savorelli il suo bersaglio...
Julien Sapori parte da questo fatto di cronaca per interessarsi alle relazioni, ai meccanismi e alle ambiguità che reggevano i rapporti del microcosmo italiano quando Parigi era il teatro delle lotte e delle trame tra fascisti e oppositori al regime. Al centro della ricerca dello storico è lo studio degli strumenti repressivi che costituiscono secondo lui l'essenza del regime mussoliniano.

L'argomento è interessante e, come al solto si aspetta il pubblico di italiofili.
Ma un'improvvisa anche se breve nevicata ha coperto le strade cittadine di un velo scivoloso che ha paralizzato il traffico. Chi non era ancora bloccato negli ingorghi ha preferito restare a casa e Julien Sapori arriverà solo tre ore dopo l'orario previsto.
Gli stuzzichini preparati da affabili mani sono mangiati nell'attesa dai rari avventori che approfittano abbondantemente dell'ottimo vin brulé per riscaldarsi.
Così nell'attesa vediamo entrare un aitante giovanottone dalla voce stentorea. Parla con un accento inglese e ha uno sguardo simpatico. Qualcuno lo interroga incuriosito: è neozelandese ed è a Lille per lavoro. In effetti il suo lavoro è all'Opera dove interpreta Seneca nell'Incoronazione di Poppea di Monteverdi. Si tratta di Paul Welhan http://www.paulwhelan.co.uk/ entrato per caso è ripartito con un libro per bambini da leggere, ci dice, grazie all'ausilio di un computer, al figlioletto restato agli antipodi.
Scomparso Seneca arriva infine Sapori, troppo tardi per la conferenza che sarà rimandata ma in tempo per quattro chiacchiere attorno all'ultimo vin brulé.

sabato 4 febbraio 2012

Carmine Abate: La festa del ritorno

Era fissata col mangiare, la mamma. A me sembrava che stesse tutto il giorno a cucinare o a preparare sottaceti, insaccati, olive in salamoia, funghi sott'olio, sardelle e sarde salate, piccanti come fuoco.
Nei racconti di Carmine Abate, lingua e cibo sono spesso al centro della narrazione. Una scrittura che avvince e intriga, tra favola e realtà. Paesaggi dall'aspetto immaginario, quasi mitico nei quali   fa irruzione e poi si intreccia la materialità del quotidiano con i suoi ostacoli i suoi problemi ordinari e i suoi impicci.
Lo scrittore è originario della Calabria e più precisamente di Carfizzi, un paese arbëreshë cioè appartenente a quella comunità albanese che, a partire dal XV secolo lasciò le regioni occupate dall'impero ottomano per stabilirsi nel sud dell'Italia. È qui che avevano deciso di vivere quegli antenati che moltissimi anni prima erano sbarcati proprio sulla spiaggia della marina e poi, risalendo fiumi e valloni, si erano fermati per sempre su una collina da cui si poteva vedere il mare. Vedere il mare con la speranza, sempre più tenue, di un ritorno in patria. E mantenere viva la storia attraverso il racconto orale dell'epopea del Tempo Grande e dei personaggi divenuti leggendari come quello Scanderbeg che aveva guidato la lotta contro i turchi.
E ci sarà una nuova partenza ma non, come a lungo si era sperato, per un ritorno nella terra favolosa di cui parlavano ancora gli anziani. Il nuovo esodo sarà causato da un nemico più subdolo. Sì perchè, in tempi più recenti, anche Karfici come gli altri paesi del meridione sarà decimato da una nuova emigrazione; non meno drammatica, verso il nord in cerca di lavoro e di una vita migliore, emigrazione che ha finito per separare, a volte in modo definitivo famiglie e amicizie.
Le storie che Carmine Abate racconta nei suoi libri attingono a questo universo di partenze e nostalgia, rimpianti e speranze. Spunti spesso autobiografici perchè anche lui ha lasciato il suo paese in cerca di lavoro. Prima in Germania, poi, a metà strada, in Trentino dove vive ancora oggi.
Così il padre di Marco, il bambino protagonista de La festa del ritorno, è partito per la Francia. Torna ogni anno a Natale atteso e festeggiato, ma sempre con un velo di malinconia, quella per una nuova, inevitabile e prossima partenza, sentita come una pistola puntata alla tempia.
Alla maniera di un romanzo di formazione La festa del ritorno racconta i giorni di Marco che vive a Hora, tra le donne: la madre, la nonna, le sorelle.
Le sue giornate sono fatte di corse nella campagna e nei boschi, giochi con Spertina, l'inseparabile cane fratello che lo accompagna, interrotte solo dall'afa dei giorni più caldi e quando il vento che di tanto in tanto decideva di salire, pareva gonfio di vampate di fuoco.
Arrivano gli anni della scuola e la scoperta di una nuova lingua, completamente sconosciuta. Già perchè il taliano non è, come credeva, quello che parlavano l'anziani cu furesteri c'accattavanu e vindianu a robba 'nda la chiazza o puramente i teatristi ca cantavanu «che bella cosa è na journata 'e sole» o u papà miu quandu si facia a varva, «l'aria serena para già na festa», na festa ranna come quandu illu riturnava da la Fróncia.
E poi all'albanese, al calabrese, all'italiano, lingua straniera imparata a scuola, si sono aggiunte le parlate del nord dell'Europa, dove i germanesi sono partiti in cerca di lavoro.
Sono per Marco i tempi della spensieratezza ma anche dell'attesa. Attesa del ritorno, sempre sperato definitivo e sempre interrotto da una scomparsa inaspettata e temuta.
Carmine Abate racconta tutto questo con una lingua intrisa di oralità. Gli intarsi di albanese e di calabrese non appaiono mai né manieristici né superflui, al contario arricchiscono il testo, rendendolo più vivo e avvolgente. La voce passa da un narratore all'altro, senza intoppi nella fluidità di una sorta di discorso indiretto libero. Abbiamo l'impressione di essere anche noi accanto al fuoco ad ascoltare la storia:
Le scintille ci avvolgevano, sembravano sciami d'api crepitanti, poi si azzittivano spegnendosi e ci cadevano sui capelli e sui vestiti come una bufera di neve, e mio padre diceva che un fuoco così non si era mai visto, pare fatt'apposta per schiaffarci dentro i ricordi più malamenti, diceva, e appicciarli in un lampobaleno, per sempre.

Carmine Abate La festa del ritorno, Piccola Biblioteca Mondadori.