La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



mercoledì 15 ottobre 2014

Gabriele D'Annunzio: La pioggia nel pineto

Difficile da difendere la figura di Gabriele D'Annunzio. Troppo impantanata nella retorica umbertina e poi fascista. Il poeta vate costruì la sua immagine sentenziosa e pomposa sulle insicure fondamenta di un'Italia provinciale e piccolo borghese; volle edificare la sua vita come un'opera d'arte. Fu con questa idea che, colui che si pavoneggierà con il titolo di Principe di montenevoso, immaginò le sue azioni eroiche, dal volo su Vienna nel 1918 all'impresa di Fiume; con questo spirito addobbò la villa che aveva assunto a dimora sulle rive del Garda quando la trasformò in un monumento alla sua gloria e la ribattezzò Vittoriale degli Italiani.

D'Annunzio è cosiderato, con Pascoli, il massimo esponente del Decadentismo italiano. Ma la declinazione nostrana di quella corrente artistica era in definitiva in un tono assai minore rispetto al grande movimento letterario europeo che aveva espresso sulla scia di Baudelaire, con Verlaine, Mallarmé o Rimbaud tematiche ben più ricche e profonde.

In particolare, nel poeta pescarese, la facciata dell'edificio poetico appare spesso di cartapesta, la foga retorica svela un che di stantio e di artefatto. Pensiamo alla celebre invocazione con cui chiude la poesia dedicata alla transumanza delle genti d'Abruzzo: Ah perché non son io co' miei pastori? Qualcuno gli fece giustamente notare che forse era semplicamente perché preferiva le ville della Versilia o Montecarlo alle montagne abruzzesi.

Accade però che, abbandonati gli artifici, l'opera d'annunziana mostri il suo aspetto più convincente. Perché, malgrado tutto, D'Annunzio poeta lo è davvero. È il caso per esempio di Notturno. Scritto su striscioline di carta con gli occhi bendati dopo un grave incidente aereo che lo aveva reso momentaneamente cieco e nel quale il suo compagno di volo era morto, questa prosa lirica tralascia la retorica grandiloquente e assume un tono che appare più sincero e personale. 
Aegri somnia.
Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l′ultima falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l′articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.
La stanza è muta d′ogni luce. Scrivo nell′oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l′una e l′altra coscia come un′asse inchiodata.
Imparo un′arte nuova.

Ma anche nella raccolta Alcyone troviamo qualche momento di vera poesia. È il caso della celeberrima La pioggia nel pineto. Dedicata ad Eleonora Duse, -l'Ermione del canto- questa lirica in versi liberi fu composta in Versilia nel 1902. La maestria con la quale il poeta utilizza les figure retoriche e quelle di stile raramente appare così poco forzata e ha come risultato un sorgere di immagini, di odori e di suoni che ci immergono in quell'universo naturale. Ad essa si potrebbe associare la celebre definizione che Pascoli aveva dato dell'arte poetica: uno sguardo vergine sulle cose.

Dimenticando per un istante le reminiscenze scolastiche e l'autocaricatura dannunziana possiamo inoltrarci tra gli alberi di quel mondo fuori dal tempo nel quale la natura parla, respira, vive. Non è forse usurpata per questa lirica la definizione che il critico Walter Binni diede della nuova poesia: pura atmosfera musicale che porta l'eco di un nuovo e misterioso mondo ignoto agli antichi.



Taci. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

Ascolta. Piove

dalle nuvole sparse.

Piove su le tamerici

salmastre ed arse,

piove su i pini

scagliosi ed irti,

piove su i mirti

divini,

su le ginestre fulgenti

di fiori accolti,

su i ginepri folti

di coccole aulenti,

piove su i nostri volti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

t’illuse, che oggi m’illude,

o Ermione.
Odi? La pioggia cade

su la solitaria

verdura

con un crepitìo che dura

e varia nell’aria

secondo le fronde

più rade, men rade.

Ascolta. Risponde

al pianto il canto

delle cicale

che il pianto australe

non impaura,

né il ciel cinerino.

E il pino

ha un suono, e il mirto

altro suono, e il ginepro

altro ancora, stromenti

diversi

sotto innumerevoli dita.

E immersi

noi siam nello spirto

silvestre,

d’arborea vita viventi;

e il tuo volto ebro

è molle di pioggia

come una foglia,

e le tue chiome

auliscono come

le chiare ginestre,

o creatura terrestre

che hai nome

Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo

delle aeree cicale

a poco a poco

più sordo

si fa sotto il pianto

che cresce;

ma un canto vi si mesce

più roco

che di laggiù sale,

dall’umida ombra remota.

Più sordo, e più fioco

s’allenta, si spegne.

Sola una nota

ancor trema, si spegne,

risorge, trema, si spegne.

Non s’ode voce dal mare.

Or s’ode su tutta la fronda

crosciare

l’argentea pioggia

che monda,

il croscio che varia

secondo la fronda

più folta, men folta.

Ascolta.

La figlia dell’aria

è muta; ma la figlia

del limo lontana,

la rana,

canta nell’ombra più fonda,

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su le tue ciglia,

Ermione.
Piove su le tue ciglia nere

sì che par tu pianga

ma di piacere; non bianca

ma quasi fatta virente,

par da scorza tu esca.

E tutta la vita è in noi fresca

aulente,

il cuor nel petto è come pesca

intatta,

tra le pàlpebre gli occhi

son come polle tra l’erbe,

i denti negli alveoli

son come mandorle acerbe.

E andiam di fratta in fratta,

or congiunti or disciolti

(e il verde vigor rude

ci allaccia i malleoli

c’intrica i ginocchi)

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su i nostri volti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

m’illuse, che oggi t’illude,

o Ermione.

2 commenti:

  1. Sempre rinnova il piacere leggendola questa poesia, così musicale e suggerisce ricordi all olfatto e soffusa di un leggero erotismo. Sempre bella!!
    M è accaduto di vedere in tv una felicissima visita guidata al Vittoriale, commentata da Philipoe Daverio, una chicca!

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    1. Grazie per il consiglio, ho trovato il video su internet.

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