La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 31 dicembre 2016

Michelangelo Buonarroti: Sonetti. Musica di Philippe Eideil

Michelangelo non fu solo pittore e scultore ma anche poeta. 
Nel 2002 il musicista francese Philippe Eidel mise in musica alcuni dei suoi sonetti, interpretati da Vinicio Caposella, Lucilla Galeazzi, Lucio Dalla e dallo stesso Eidel.
Il titolo dell'album è Renaissance
 

giovedì 22 dicembre 2016

Antonio Tabucchi: Viaggi e altri viaggi, Lisbona, rua da Saudade

Qui invece in rua da Saudade, a pochi metri dalla cattedrale, non viene mai nessuno. L'occasionale visitatore di Lisbona non ha nessun motivo di venirci, perché apparentemente non c'è niente che lo giustifichi, ed è per questo che la guida che portate in tasca, anche la più minuziosa, sicuramente non ve la segnala. La saudade è parola portoghese, di impervia traduzione, perché è una parola concetto, perciò viene restituita in altre lingue in maniera approssimativa. Su un comune dizionario portoghese-italiano la troverete tradotta con “nostalgia”, parola troppo giovane (fu coniata nel Settecento dal medico svizzero Johannes Hofer) per una faccenda così antica come la saudade. Se consultate un autorevole dizionario portoghese, come il Morrais, dopo l'indicazione dell'etimo soidade o solitate, cioè “solitudine”, vi darà una definizione molto complessa: “Malinconia causata dal ricordo di un bene perduto; dolore provocato dall'assenza di un oggetto amato; ricordo dolce e insieme triste di una persona cara”. È dunque qualcosa di straziante, ma può anche intenerire, e non si rivolge esclusivamente al passato, ma anche al futuro, perché esprime un desiderio che vorreste si realizzasse. E qui le cose si complicano perché la nostalgia del futuro è un paradosso. Forse un corrispettivo più adeguato potrebbe essere il disìo dantesco che reca con sé una certa dolcezza, visto che “intenerisce il core”. Insomma, come spiegare questa parola?














domenica 11 dicembre 2016

Elogio del dubbio

Più che mai, i libri mi sono necessari. Mi offrono il solo rimedio capace di rendere la realtà accettabile.
Con il tempo che passa, non so più esattamente che cosa contenga la mia biblioteca. Siccome non sono mai riuscito a decidermi a metterli in ordine, i miei libri si sono accumulati, anno dopo anno, in vicinanze eteroclite. Mi succede di scoprire un romanzo che credevo perso, tra una guida turistica e un libro di cucina.
Mi succede anche di non ritrovare più il testo di cui avrei bisogno e di maledire la mia pigrizia e il mio disordine. In fondo, quest'anarchia non mi dispiace. Mi sembra così di sfuggire alla consuetudine e al prevedibile per serbare qualche sorpresa. Ho a volte l'impressione che la mia biblioteca sia quella di uno sconosciuto, e che essa nasconda tesori dimenticati che riaffiorano in superficie nel momento meno atteso, come se qualcun altro li avesse nascosti lì.
Questo sdoppiamento non mi sconvolge anzi mi affascina.
Ogni libro ritrovato mi procura la stessa gioia che il ritorno di un amico perduto.
Éliane Serdan, La città alta.
Purtroppo i libri sono, per molti, oggetti sconosciuti. Sfogliare un libro costa fatica. Figuriamoci leggerlo.
Trovare nuove idee, confrontarle con le nostre, scoprire punti di vista differenti che permettono di osservare da un altro angolo lo stesso avvenimento, riscoprire con uno sguardo originale quello che ci sembrava chiaro ed evidente e che ora è illuminato da una luce nuova. Tutto ciò dà un senso alla vita se anche noi crediamo che fatti non fummo per viver come bruti.
Negli ultimi anni però, con le nuove tecnologie dell'informazione, qualcuno ha pensato che ci fosse una scorciatoia, che ogni domanda avesse la sua risposta, semplicemente, pronta e disponibile. Si è dimenticato così che le buone domande spesso non hanno risposte e che le cattive non le meritano.
Sì, perché cercare nei libri le risposte ci fa scoprire prima di tutto l'abisso della nostra ignoranza. La nostra sola possibilità è di attingere con un cucchiaino nell'oceano di idee, teorie, opinioni, pareri, punto di vista, che gli uomini hanno accumulato nei secoli. Scrive Giacomo Leopardi in una lettera a sua sorella Paolina: La nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e non solo il dubbio giova a scoprire il vero, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere.
Ai nostri giorni è più facile accettare la valanga di informazioni che ci arrivano ogni giorno, ogni ora, scaricate come da un camion a ribalta da uno schermo di computer. È così semplice. Se poi, come succede il più delle volte, queste informazioni sono assennate in tono perentorio, categorico, energico, è inutile cercare più in là, riflettere, interrogarsi.
Perché il dubbio, la domanda, ammettere la propria ignoranza, aver voglia di verificare, sono concetti superati, arcaici, obsoleti. E se poi se ad un tratto, malgrado tutto, l'evidenza sembra smentire ciò che fino ad allora si è considerato certo, la sentenza non è mai definitiva: sì, d'accordo, ma avrebbe potuto essere.
È difficile cominciare una frase con un Penso che…, Mi pare che… Ancora più inammissibile terminarla con ...forse hai ragione.
Bisogna essere Francesco d'Assisi per ammettere senza vergogna ignorans sum et idiota.
Ecco perché il congiuntivo, il modo verbale che serve ad esprimere l'incertezza e il dubbio, il desiderio e l'ignoranza, sta scomparendo a poco a poco dalla lingua. La sua estinzione non è solo il riflesso di un'evoluzione grammaticale che tende alla semplificazione, essa è il sintomo di un male più profondo e fatale. Non c'è tempo né spazio per l'umiltà dell'ignoranza. C'è solo l'inconfutabilità che nutre con pietanze troppo grasse la mente monotematica dell'uomo moderno.
Si riduce a poco a poco il numero di vocaboli. Sembra che un italiano medio usi circa ottocento parole sulle quasi cinquantamila disponibili e accettabili nella lingua moderna.
Ma queste ottocento parole sono sufficienti a molti per disquisire in un solo impeto di Leggi Costituzionali, composizione geologica del globo terrestre e possibilità di prevederne i movimenti, possibilità ingegneristiche di costruire edifici resistenti a un sisma.
Sono sufficienti, per dissertare di razze umane, più o meno evolute, più o meno predisposte al crimine e al lenocinio.
Aprire la pagina Commenti di un sito di informazione qualsiasi equivale ad un'immersione in un maelstrom senza fondo. È forse un esempio estremo. In effetti le pagine in questione sono semplicemente il prolungamento delle discussioni tenute appoggiati al bancone di un bar. Quello che cambia è solo il pubblico, non più i tre o quattro avventori del locale ma le migliaia di lettori di un giornale. Probabilmente non sono più numerose di un tempo ma solo più evidenti.
Che cosa ci riserva il futuro? Ognuno sembra aver scelto il proprio pifferaio di Hamelin e, affascinato dalla sua musica, segue il suonatore verso il suo destino. Non sa, o preferisce non sapere che ci sono altri strumenti e altre melodie.

 Dovete abituarvi anche a questa atrocità del dubbio, a dibattere veramente i problemi, ma veramente, non formalmente, si applaudono sempre i luoghi comuni, bisogna ragionare, non applaudire o disapprovare.                                                                          1975 Pier Paolo Pasolini ai giovani comunisti