La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 26 giugno 2011

Francesco Giuliani: Storia antica del tratturo

Se vi piace ascoltar cari signori
E donne belle, mi venite accanto.
D'antichi cavalier, d'armi e d'amori
Io vi voglio avvertir non è il moi canto,
Ma sol di greggi amante e di pastori
Io questa volta di cantar mi vanto ;
Dunque porgete volentier l'orecchio
Che a dilettarvi un po' io mi apparecchio.
Comincia così, non a caso parafrasando l'Orlando Furioso, la Storia antica del tratturo, il poema in 177 strofe di Francesco Giuliani, pastore poeta di Castel del Monte.
Lontano dall'immagine del «pastoraccio incolto» Cicche ru Quaprare (Francesco il capraio) era un lettore curioso e appassionato. Riuscì, nel corso dei suoi ottant'anni di vita (nacque nel 1890) a mettere insieme una biblioteca di otre 400 libri, cifra ancora più sorprendente se si considerano le difficili condizioni di vita di un pecoraio abruzzese dell'epoca.
Francesco Giuliani non era il solo pastore ad avere sempre nella sua bisaccia un libro, di solito scelto tra i classici della letteratura: Dante, il Tasso, Ariosto... Rari però erano quelli che, come lui, passarono alla scrittura, lasciando una testimonianza essenziale, al di là del valore letterario dei suoi testi, in prosa e in versi, sulla vita del popolo di quelle montagne; essenziale proprio perchè arrivata fino a noi senza la mediazione dell'etnologo o del sociologo.
Una vita difficile, scandita dai tempi della transumanza, tra l'altipiano di Campo Imperatore e il Tavoliere delle Puglie. Quasi 250 chilometri che, lungo il Tratturo Magno, dalla conca aquilana, superando il valico di Forca di Penne, portavano verso il mare fino ad arrivare nelle campagne foggiane.
Un percorso punteggiato da chiese che erano luogo di preghiera ma anche di riparo e che oggi restano come ricordo di un mondo ormai scomparso.
Il cammino era lungo, faticoso, a volte pericoloso.
Il tratturo magno. Fonte: Wikipedia

Migliaia di pecore, accompagnate dai cani da pastore, abbandonavano in settembre i pascoli estivi e seguivano le larghe vie erbose per trovare il clima più mite delle Puglie.
La partenza è ver che è dolorosa
Che distaccarsi non può far piacere,
Perché si vive una vita incresciosa
Delle Puglie nel vasto Tavoliere ;
Chi lascia la consorte o l'amorosa,
I figli,i genitor. Triste mestiere!
Per la miseria e campar la vita
La famiglia non può viver unita.

Siamo lontani dal mondo idillico cantato da Gabriele D'Annunzio nell'Alcyone.
Francesco Giuliani farà questa vita per più di cinquant'anni. Solo la partecipazione alla prima guerra mondiale** e, più tardi, qualche mese passato in Francia per lavorare in fonderia, la interromperanno.
La cultura, o piuttosto la lotta contro l'ignoranza, era per lui un aspetto essenziale dell'impegno politico. Perchè Francesco Giuliani conosceva i principi del marxismo e percepiva l'importanza dei conflitti sociali. Mai rassegnato, ma sempre lucido e consapevole del fatto che le condizioni di vita dei pastori non fossero il risultato di una fatalità.


Sempre attenti e vigili i pastori
Acciò che il gregge mai non gli si svia,
Che se manca qualcuna son dolori
Del massaro soffrir la tirannia.
E così sempre fra dubbi e timori
Si va avanti per la lunga via,

Non era mai accomodante e non solo verso i «signori» ma verso tutte le debolezze umane. Una concezione del mondo che appare a volte eccessivamente manichea e che in altri casi può sembrare un po' ingenua. Ma ai suoi tempi lo era sicuramente meno: 

A tutto ormai mi sono abituato
A godere talvolta anche a soffrire;
Si spera un tempo migliorar lo stato
Se splende un giorno il sol dell'avvenire
Da questa speme io son confortato
Quasi son certo che non può fallire,
E verrà tempo come si predice
Veder l'umanità tutta felice.
Andato in pensione negli anni Cinquanta, Francesco Giuliani continuerà a scrivere e a esercitare l'altra sua passione: l'intaglio. Ricordo anch'io (come il curatore dell'antologia che raccoglie una scelta dei suoi testi*), di averlo visto davanti alla sua bottega con le sue sedie e i suoi forchettoni un po' massicci e naif ma apprezzati da molti e che lo fecero conoscere fuori dal paese.

*Se Ascoltar vi piace dai quaderni di Francesco Giuliani
a cura di Maurizio Gentile, Lindau Editore 1992

**L'editore Japadre di L'Aquila ha pubblicato nel  2001 di Francesco Giuliani il Diario della guerra 1915-18 curato da Paolo Muzi

martedì 21 giugno 2011

Claudio Magris: Danubio

Qui il viaggio è quello del fiume.
Fiume dalle infinite facce; panorami che cambiano attraversando l'Europa, lingue che si rispondono, che si fanno eco al di là delle frontiere erette dagli uomini ma anche scavalcando quelle naturali. Popoli che vivono vicini e che si ignorano, altri che, pur lontani, si considerano fratelli.
Fiume senza sorgente, il Danubio comincia dove due modesti corsi d'acqua della Foresta Nera, il Brigach e il Breg, si uniscono.
Attraverso dieci nazioni, cambia nome svariate volte fino al grande delta tra Romania e Ucraina. Sempre conserva l'etimologia, pare di origine indoeuropea, della parola fiume.
L'erudizione di Claudo Magris ci trasporta, tra letteratura e storia, poesia e geografia, frastornandoci a volte, ma sempre sorprendendoci, tra i mille colti richiami.
Il libro dello scrittore triestino, né saggio né romanzo, si presenta come opera di fantasia, ma si fa fatica a crederlo, tanto i personaggi e i luoghi appaiono reali.
Il pretesto per la scrittura è, spiega l'autore, l'invito a contribuzione per un colloquio universitario: L'architettura del viaggio: storia e utopia degli alberghi.
Ed è così che Magris si ritrova ad osservare la sorgente del Berg (già Danubio?) seduto su una panchine nella Selva Nera, là dove una targa indica l'inizio del grande fiume.
Sì perché la disputa è secolare, se non millenaria, per rivendicarne la fonte. E gli abitanti di Donaueschingen, là dove Brigagh e Berg si uniscono, difendono la tesi che assegna allla loro cittadina il principio del corso.
Sta di fatto che, variando i punto di partenza, anche la lunghezza del Danubio diventa variabile. Secondo che si sposi una o l'altra tesi, il mar Nero, a quasi tremila chilometri, se ne avvicina o allontana di qualche decina.
Claudi Magris fa di questo fiume il simbolo della cultura che infrange le barriere e che scorrendo attraverso mezza Europa, irriga mondi diversi ma mai conrapposti. Al contrario del Reno, emblema della Nazione, il Danubio si allunga e divaga mescolando i popoli d'Europa.
Lungo la narrazione, gli incontri si moltiplicano. Incontri reali e incontri letterari, da Baudelaire a Kafka, da Canetti a Heine.
Il libro assume l'aspetto del suo soggetto, irriga il lettore di idee e di riflessioni. Un viaggio sorprendente, ricchissimo e istruttivo, poetico, appassionato e appassionante.

lunedì 13 giugno 2011

Pieve di Sant'Andrea di Furfalo, Serra pistoiese

Panicagliora è sulla cresta della montagna a quasi 800 metri di altitudine, tra i torrenti Nievole e Pescia. Il paesino, frazione di Marliana, è al centro di un fitto bosco composto soprattutto di castagni che hanno per secoli contribuito a nutrire le popolazioni di questi luoghi.
Sulla strada che lo attraversa, qualche raro passante e un gruppettto di uomini seduti ad un bar. I manifesti sul muro promettono una «Sagra dell'uovo sodo».
Prendendo la via in direzione di Pescia si incontra sulla destra, prima di uscire dal paese, una strada che scende rapidamente. Un primo breve tratto è in cemento, poi diventa in terra battuta. Un cartello dice che la strada è privata e che l'ingresso è riservato alla Protezione civile che ha qui un campo di addestramento; un altro cartello è turistico e indica, nella stessa direzione, la «Pievaccia». Tralasciando il divieto e seguendo le indicazioni per la pieve si scende nel bosco di castagni. Dopo aver attraversato un fosso (nel punto più basso del percorso), la strada risale sull'altro versante della valletta. A circa due chilometri dal punto di partenza si scorge, sulla destra, la chiesa di Sant'Andrea di Furfalo, la cosiddetta pievaccia appunto.
Non resta molto dell'antico edificio: un piccolo altare e qualche lembo delle mura con una porta laterale e un accenno dell'abside. 
Questi resti sono stati restaurati recentemente, in modo assai prepotente. Si sono aggiunte pietre (o blocchi di cemento) che discordano con quelle di origine.
La pieve ebbe il suo momento di gloria nel 1300, quando divenne Collegiata in una contrada strategica (tra Lucca e Pistoia) e popolata. Ma già nel 1327 una scorreria delle truppe di Castruccio Castracani la distrusse, insieme al castello di Serra pistoiese. Nel 1651 fu poi definitivamente abbandonata, sostituita nelle sue funzioni dalla chiesa di San Leonardo di Serra.
Si è voluto recuperare questi ruderi e attualmente quel che resta della pieve è ridiventato, occasionalmente, luogo di celebrazioni religiose.
Serra appare sul colle di fronte. Il paese si allunga sullo stretto crinale con, al centro, la torre campanaria. Domina il grigio scuro della pietra.
La strada risale dall'antica pieve, trasformandosi in mulattiera. L'ultimo tratto è ripido ed erboso.
Si sbuca sulla piazzetta del paese. Sulla sinistra un'edicola-cappella e una stradina che sale verso la torre ed il punto più alto dove c'è la chiesa di San Leonardo. 
Nell'antica torre di guardia, diventata campanile, è la porta di ingresso delle mura del castello. Sull'arco si vede l'emblema dei Medici.

Più in basso, sulla piazza, un gruppo di persone beve l'aperitivo parlando a voce alta davanti alla Casa paesana, il circolo ricreativo del paese. Il locale è diviso in due parti, ristorante e bar, separate da un'esposizione di bottiglie. Un bel soffitto a cassettoni.
Un generoso bicchiere di asprigno vino bianco disseta il viandante e un po' lo intorpidisce... 


sabato 4 giugno 2011

Lanza del Vasto: Pellegrinaggio alle sorgenti

Pubblicato nel 1943 in francese, Le pélerinage aux sources (Il pellegrinaggio alle sorgenti) è forse il libro più importante di Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto.
È il racconto di un lungo viaggio, che ha come primo obiettivo l'incontro del filosofo siciliano con Gandhi. Lanza del Vasto ne ha conosciuto il pensiero grazie ai lavori di Roman Rolland ed è per incontrare colui che egli considera come un maestro che nel 1936 parte verso l'India, pagando il viaggio con i diritti d'autore di un precedente libro (Giuda).
Lanza del Vasto arriva a Ceylon e scopre un mondo completamente sconosciuto nel quale si sente estraneo, solo, disorientato. Così si descrive alla terza persona:
Eccolo colui che è appena sbarcato: competamente solo, completamente bianco, completamente vergognoso, completamente sconcertato, importunato da chi vende, da chi promette, da chi implora, da chi vuole portarlo al tempio di Buddha o al bordello.
Attraversa come in sogno la folla colorata, dalle maschere scure, passa a caso lungo i poveri portici della città. Se ne allontana e scende passo a passo verso la ghiaia del fiume.
Arriva in Asia come uno straniero dunque, ma quando riparte per l'Europa lascia in India un ricordo di stima e di venerazione.
A poco a poco si immerge nella cultura indiana fino ad adottarne abiti e usanze. Profondamente cristiano, cerca tra i mistici indù o buddisti una via per la sua vita. L'incontro con Gandhi dura qualche mese. Il Mahatma lo accoglie nella scuola di Wardha e gli spiega il senso del proprio pensiero. L'importanza della pratica di un lavoro manuale, senza la quale nessun uomo può elevarsi:
Che il lavoro delle vostre mani sia un segno di gratitudine e un omaggio alla condizione umana. Ci si inchina per salutare. Salutate ogni giorno l'uomo, inchinandovi sul lavoro.
Sull'esempio di Gandhi, Lanza del Vasto fa della non violenza uno dei pilastri della propria vita e del proprio insegnamento. Ma, come per Gandhi d'altronde, la non violenza non è mai per lui sinonimo di passività o di rinuncia; si apparenta invece ad una virtù cristiana, del tutto simile alla carità. È prima di tutto benevolenza meravigliata e misericordiosa verso tutto ciò che vive.
E praticare la non violenza non significa certo rinunciare a far valere le proprie ragioni. Non rinunciare alla lotta ma lottare, tenacemente, con altri mezzi.
Come Gandhi, Lanza del Vasto utilizzerà il digiuno per le sue battaglie. Contro l'energia nucleare, contro la guerra, a fianco dei contadini del Larzac, in Francia, minacciati di espulsione dall'estensione di una base militare.
Nel racconto che dà il nome al libro: Il pellegrinaggio alle sorgenti, Lanza del Vasto descrive il suo viaggio, a piedi, verso le sorgenti del Gange, il fiume sacro. Un'impresa difficile e pericolosa dalla quale Gandhi aveva cercato di dissuaderlo.
Il 22 aprile 1937 il pellegrino è al Tadj Mahal, per poi passare da Agra e da Delhi. Osserva la difficile convivenza tra musulmani e indù, vede un paese in cui la vita è estremamente dura e nel quale la fraternità predicata da Gandhi tarda ad imporsi.
È poi ad Hardwar, l'ultima città di pianura dove i saggi meditano sulle rive del fiume, insensibili alla folla e al rumore. Tutta la miseria umana sembra raccolta qui. Quando il viaggiatore mette i piedi sul ponte una doppia siepe di membra contorte, secche, punteggiate di croste o sudanti pus sorge dal selciato; sono i mendicati che sembrano un unico albero coricato e che hanno un'unica e sola voce.
Immagini di santi e di imbroglioni, di folla che si accalca, venditori ambulanti, guru e mistici, donne che lavano i panni e devoti che fanno le abluzioni. Il grande fiume accoglie tutto l'universo indiano.
Lasciata Hardward, il cammino si fa più impervio; si comincia a salire verso Hrishikésh, là dove il fiume è appena sbucato dalle gole dell'Himalaya e dove i tre quarti degli abitanti portano la tunica rossa degli anacoreti. Città senza case vere e proprie, solo cortili circondati da portici con antri oscuri, rifugio dei monaci erranti.
Gli anacoreti praticano esperienze estreme, come quello che si è fatto murare vivo e che ha lasciato una sola piccola apertura da cui fare entrare l'aria o quell'altro che resta dodici ore al giorno immerso nell'acqua gelata del fiume.
Dopo Hrishikesh il sentiero si inoltra nella giungla; il paesaggio diventa montano.
Lanza del Vasto è ospite di principi nepalesi in esilio.
La seconda sera fui ospite della montagna.
Il crepuscolo scendeva, il sentiero saliva sempre. Mi avevano detto che avrei incontrato degli orsi neri in questa regione. Non ho incontrato niente, solo, spaventosa più di tutto, la solitudine di un paese sconosciuto e immenso.
A Dhalnôti si ferma a lungo, ospite e maestro spirituale della principessa nepalese, sorella dei precedenti. L'abbandona quando sente che un sentimento ambiguo sta nascendo.
Il Gange è qui un torrente di acque gelate. Il pellegrino continua il suo viaggio. Nel fazzoletto, una manciata di semi e un po' di zucchero grezzo sono tutte le sue provviste.
Il paesino di Outtœrkâshî appare, povero e solitario. Ultima città santa prima delle sorgenti. Isolata dal resto del mondo. Ha due templi, venti santuari e una dozzina di case.
Il tempio è ricco di simboli. Lanza del Vasto osserva i due uccelli scolpiti su cui poggia l'architrave. Ne fa l'immagine di un'umanità che fa gli stessi sogni.
Li conosco quei due uccelli su cui poggia l'architrave. Li ho visti nella cripta della cattedrale di Canterbury, li ho visti su un capitello della chiesa dei crociati a Vézelay, li ho visti sulla facciata di San Michele a Pavia. Li ho visti in un chiostro arabo normanno di Palermo, li ho visti su un'anta di baule di contadini d'Abruzzo e sulla pagaia d'ebano intagliata dai negri del Benin. Quei due uccelli che non hanno mai volato se non nella mente di qualche artigiano attento a mordere con lo scalpello in una pagnotta di buona materia. Sono dello stile che gli esperti d'arte chiamano romanico e che io chiamo umano.
Poco più in alto Lanza del Vasto si ferma. È malato, stanco, lontano da ogni possibile aiuto. Si stende sulla sua coperta e aspetta, forse la morte.
Quando si sveglia trova accanto a sé una ciotola di riso. L'ha portata un bambino.
Diventa egli stesso fonte di curiosità e di devozione. Arrivano i poliziotti: uno straniero non può entrare in territorio tibetano. Lanza del Vasto non arriverà mai alle sorgenti del fiume.
Ed è qui che incontra Krishme-Tchandre, il Brahma Tchari, colui che è alla ricerca del cammino di Brahma, che ha fatto il voto del silenzio e che comunica scrivendo.
Lanza del Vasto diventa penitente, sembra aver trovato in India un senso alla vita. Ma decide di tornare in Europa perché lo scopo di ogni viaggio è il ritorno. Ritorno che sente come un dovere più che come una necessità. Rimpiangerà di non essere restato immerso in quell'universo: solo, libero, nudo, confortato dalla saggezza e contento di me stesso.
Pensa di avere un debito da pagare agli altri uomini. Tutto quello che sa lo deve agli altri, non può tenerlo per sé.
Non era partito in cerca di avventura ma per lasciare l'avventura e trovare un'uscita ai nostri disordini.