lunedì 10 febbraio 2014
Luciano Bianciardi: La vita agra
E se ora ritorno al mio paese, e ci
incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno
stavolta lui dirà niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo so
fin da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda,
Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se
caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta
appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare,
credi pure che la vita è agra, lassù.
Erano già gli anni Sessanta, gli anni
del miracolo economico e
gli italiani sognavano l'utilitaria e il televisore. Le
catene di montaggio delle fabbriche del nord correvano sempre più
veloci. I contadini e i pastori del sud, abbandonavano
già pieni
di rimpianto la loro terra e
partivano verso il promesso benessere del triangolo industriale. Il
paese si trasformava a vista d'occhio; nelle periferie i palazzoni
spuntavano come funghi nella notte, costruiti dagli stessi contadini
meridionali trasformatisi in manovali. L'Italia agricola e
sottosviluppata del dopoguerra vendeva ormai elettrodomestici al mondo
intero, ricercati perché
economici, grazie ai salari
di miseria degli operai: a quel tempo turchi
e bengalesi
erano i nostri padri.
Tra
gli intellettuali poche erano le voci critiche che, come Pasolini,
denunciavano una corsa al progresso che era piuttosto corsa al
profitto degli uni e all'alienazione degli altri.
E
tra le poche, quella di Luciano Bianciardi è
stata presto dimenticata. Solo nel
1993,
grazie al saggio di Pino Corrias Vita
agra di un anarchico,
si è riscoperta l'importanza dello scrittore grossetano. Il
titolo del saggio di
Corrias è
un evidente richiamo
al romanzo che Bianciardi ha pubblicato nel
1962: La vita
agra,
riferimento
doveroso dato il carattere ampiamente autobiografico di quest'ultimo.
La
vita agra
è
la
storia di un intellettuale che lascia la provincia grossetana per
andare a Milano con uno scopo ben preciso: vendicare la morte dei 43
minatori di Ribolla, uccisi nel 1954 da un colpo di grisù nella
miniera della Montedison. L'idea
è di fare esplodere il torracchione,
sede
della società.
Ma
le vita nella metropoli non è facile. Il protagonista deve fare i
conti con una società che a poco a poco tenta di inghiottirlo. Si
rende conto ben presto che il suo gesto isolato non avrebbe senso,
solo una presa di coscienza e un'azione collettiva sarebbero
efficaci.
La
vita agra, -il
titolo è un'evidente
contrapposizione alla Dolce vita
felliniana, uscita due anni prima- , è
un libro vitale e
sostanzioso, un testo che
resta, a distanza di più di cinquant'anni di grande modernità anzi,
a tratti, profetico. È
l'espressione piena
di un pensiero eretico:
Occorre che la gente impari a non collaborare, a non farsi
nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.
Ma
non e solo il contenuto a fare di questo romanzo un'opera importante.
La scrittura di Bianciardi gioca a spiazzare il lettore fin dalla
divagazione filologica di un incipit che si dilunga nella
rievocazione del quartiere di Brera. Si diverte con sottintesi
letterari che mettono a repentaglio le riminiscenze scolastiche del
lettore, tra Manzoni (il securo napoleonico del Cinque
maggio) e Cassola (si sa come son fatte queste ragazze di
Bube), Carducci e Verga: (e sono capaci di mangiare vivo te
con tutta la casa del nespolo).
E
poi richiami storici più o meno velati come quello di Vittorio
Emanuele III: quel gambecorte di un italiano rimasto sul trono
cinquant'anni, ma cosa comandava quel poveretto sposato con la
montanara pecoraia se a Roma c'era quell'altro, quello tutto nero, a
fare e disfare ogni cosa.
E
ancora accumulazioni di sinonimi, termini tecnici o dialettali,
latinismi...
Bianciardi
sembra irridere i manierismi e la ricerca dello Stile; fa
l'occhiolino a Gadda, altro scrittore fuori dalle forme, e costruisce
un romanzo in cui forma e contenuto operano concretamente nello
stesso senso, nella stessa critica radicale al conformismo.
Paradossalmente
il successo del libro, le interviste, la fama, furono fatali a
Luciano Bianciardi. Lui che quando lavorava da Feltrinelli, era stato
licenziato per scarso rendimento è ormai sotto i riflettori
della celebrità. La società dei consumi che aveva voluto denunciare
è riuscita a fagocitare il libro e il suo autore. Ritiratosi a
Rapallo lo scrittore abbandonerà ogni velleità, morendo alcolizzato
a soli 49 anni, nel 1971.
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le tue recensioni sono piene, generose, non c'è quasi bisogno di leggerlo, il libro. ne avevo solo sentito parlare di questo libro, dal titolo indovinavo il senso che ti fa storcere la bocca, torcere il viso.. una vita quella di bianciardi coerente dunque.. sì nel frastuono delle eterne estati del Sorpasso c'erano voci profetiche. interessante la pre-monizione della decrescita felice.
RispondiEliminagrazie e complimenti !