La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



lunedì 10 febbraio 2014

Luciano Bianciardi: La vita agra

E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno stavolta lui dirà niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo so fin da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda, Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, lassù.

Erano già gli anni Sessanta, gli anni del miracolo economico e gli italiani sognavano l'utilitaria e il televisore. Le catene di montaggio delle fabbriche del nord correvano sempre più veloci. I contadini e i pastori del sud, abbandonavano già pieni di rimpianto la loro terra e partivano verso il promesso benessere del triangolo industriale. Il paese si trasformava a vista d'occhio; nelle periferie i palazzoni spuntavano come funghi nella notte, costruiti dagli stessi contadini meridionali trasformatisi in manovali. L'Italia agricola e sottosviluppata del dopoguerra vendeva ormai elettrodomestici al mondo intero, ricercati perché economici, grazie ai salari di miseria degli operai: a quel tempo turchi e bengalesi erano i nostri padri.
Tra gli intellettuali poche erano le voci critiche che, come Pasolini, denunciavano una corsa al progresso che era piuttosto corsa al profitto degli uni e all'alienazione degli altri.
E tra le poche, quella di Luciano Bianciardi è stata presto dimenticata. Solo nel 1993, grazie al saggio di Pino Corrias Vita agra di un anarchico, si è riscoperta l'importanza dello scrittore grossetano. Il titolo del saggio di Corrias è un evidente richiamo al romanzo che Bianciardi ha pubblicato nel 1962: La vita agra, riferimento doveroso dato il carattere ampiamente autobiografico di quest'ultimo.
La vita agra è la storia di un intellettuale che lascia la provincia grossetana per andare a Milano con uno scopo ben preciso: vendicare la morte dei 43 minatori di Ribolla, uccisi nel 1954 da un colpo di grisù nella miniera della Montedison. L'idea è di fare esplodere il torracchione, sede della società.
Ma le vita nella metropoli non è facile. Il protagonista deve fare i conti con una società che a poco a poco tenta di inghiottirlo. Si rende conto ben presto che il suo gesto isolato non avrebbe senso, solo una presa di coscienza e un'azione collettiva sarebbero efficaci.
La vita agra, -il titolo è un'evidente contrapposizione alla Dolce vita felliniana, uscita due anni prima- , è un libro vitale e sostanzioso, un testo che resta, a distanza di più di cinquant'anni di grande modernità anzi, a tratti, profetico. È l'espressione piena di un pensiero eretico: Occorre che la gente impari a non collaborare, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.
Ma non e solo il contenuto a fare di questo romanzo un'opera importante. La scrittura di Bianciardi gioca a spiazzare il lettore fin dalla divagazione filologica di un incipit che si dilunga nella rievocazione del quartiere di Brera. Si diverte con sottintesi letterari che mettono a repentaglio le riminiscenze scolastiche del lettore, tra Manzoni (il securo napoleonico del Cinque maggio) e Cassola (si sa come son fatte queste ragazze di Bube), Carducci e Verga: (e sono capaci di mangiare vivo te con tutta la casa del nespolo).
E poi richiami storici più o meno velati come quello di Vittorio Emanuele III: quel gambecorte di un italiano rimasto sul trono cinquant'anni, ma cosa comandava quel poveretto sposato con la montanara pecoraia se a Roma c'era quell'altro, quello tutto nero, a fare e disfare ogni cosa.
E ancora accumulazioni di sinonimi, termini tecnici o dialettali, latinismi...
Bianciardi sembra irridere i manierismi e la ricerca dello Stile; fa l'occhiolino a Gadda, altro scrittore fuori dalle forme, e costruisce un romanzo in cui forma e contenuto operano concretamente nello stesso senso, nella stessa critica radicale al conformismo.
Paradossalmente il successo del libro, le interviste, la fama, furono fatali a Luciano Bianciardi. Lui che quando lavorava da Feltrinelli, era stato licenziato per scarso rendimento è ormai sotto i riflettori della celebrità. La società dei consumi che aveva voluto denunciare è riuscita a fagocitare il libro e il suo autore. Ritiratosi a Rapallo lo scrittore abbandonerà ogni velleità, morendo alcolizzato a soli 49 anni, nel 1971.

1 commento:

  1. le tue recensioni sono piene, generose, non c'è quasi bisogno di leggerlo, il libro. ne avevo solo sentito parlare di questo libro, dal titolo indovinavo il senso che ti fa storcere la bocca, torcere il viso.. una vita quella di bianciardi coerente dunque.. sì nel frastuono delle eterne estati del Sorpasso c'erano voci profetiche. interessante la pre-monizione della decrescita felice.
    grazie e complimenti !

    RispondiElimina