La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



martedì 14 giugno 2016

Paolo Rumiz: La leggenda dei monti naviganti

Era lassù, a fil di mare, che cominciavano le Alpi. In un posto di nome Vrata, lo stesso termine che i dalmati usano per indicare gli stretti tra le isole. Salimmo a piedi, e in quei sedici chilometri – poco più di due miglia austroungariche -, fu come passare dalla Grecia alla Boemia.
È qui, in Dalmazia, dove iniziano le Alpi, che Paolo Rumiz comincia un lungo viaggio (ottomila chilometri, la stessa distanza che c'è dall'Atlantico alla Cina) che lo porterà, a piedi, in treno, autobus, bicicletta e poi con una Fiat Topolino, a percorrere il grande punto interrogativo rovesciato delle montagne italiane, fino a Melito di Porto Salvo, contrada Lembo, il punto più meridionale della penisola.
Prima le Alpi, alla scoperta di contrade e di popoli dimenticati, attraversando paesi sfigurati dal turismo di massa ma anche luoghi rimasti intatti nei quali la natura sembra ancora padrona. Rumiz intraprende il suo periplo seguendo le orme del suo concittadino Claudio Magris, alla ricerca di un punto di inizio che sembra un po' evanescente, proprio come lo era stato per Magris quello del Danubio. Tra lingue e culture diverse e nonostante tutto vicine, ritrova ricordi della prima guerra mondiale lontani dalla retorica nazionalista che causò morte e distruzioni, una guerra ancora presente nella tradizione orale della gente che la subì. Va incontro a figure emblematiche che hanno vissuto e vivono su queste montagne e che hanno scritto su di esse pagine importanti: Mario Rigoni Stern sull'altipiano di Asiago o anche Mario Corona, l'uomo del Vajont che gli regala un coltellino che sarà in seguito protagonista di strane vicissitudini.
Quello di Paolo Rumiz non è un trekking sportivo, né un pellegrinaggio. È piuttosto una ricerca in immersione tra antropologia e sociologia. La prima parte del viaggio, in bicicletta, sembra concludersi a La Turbie, pochi chilometri sopra Montecarlo, là dove Augusto imperatore aveva fatto erigere un monumento per celebrare la sua vittoria sui popoli alpini.
Sembra. Invece non finisce un bel niente. Le montagne continuano, piegano a nord-est, diventano Alpi Liguri, poi Appennino in poche decine di chilometri.
C'è poi la visita ai cantieri dell'Alta velocità che (siamo nel 2006) scavano tra Emilia e Toscana frugando in un paesaggio dantesco tra le viscere della terra. È forse qui che nasce l'idea di continuare il viaggio verso sud. Un viaggio alla scoperta di quell'Italia minore, lontana dall'attualità dei mass media o della Storia ma anche vera e propria colonna vertebrale del paese. [...]era soprattutto quel viaggio nelle fondamenta dell'Appennino a rendere indispensabile una ricognizione in superficie: un viaggio capillare, non programmato, su strade minori.
Rumiz pensa ad un mezzo di locomozione che gli permetta di avvicinarsi il più possibile a questa realtà: Dopo anni di bicicletta sapevo che i mezzi lenti non sono solo un modo per vedere di più, ma anche un filtro per selezionare gli incontri. Difficile che un arrogante o un idiota si soffermi a scambiare due chiacchiere con il conducente di un'utilitaria o di una bicicletta.
Sarà quindi a bordo di una Topolino del 1953 (anche nel ricordo dello scrittore svizzero Nicolas Bouvier e del suo viaggio verso l'Asia con un'utilitaria dello stesso tipo) che affronterà l'infinito saliscendi verso la Calabria (Settantamila metri in su e in giù, più o meno. Sette volte l'Everest.).
Perché non è facile andare verso sud seguendo la cresta delle montagne, anzi è praticamente impossibile. Non ci sono vie di comunicazione che seguono il crinale. Il viaggio di Rumiz è quindi un continuo scavalcare passi, scendere e risalire valli, da un lato all'altro della catena. L'utilitaria arranca, a volte sembra venir meno, ma resiste. Una Topolino non passa inosservata, attira i curiosi, permette incontri inattesi. Sono decine i personaggi sorprendenti, a volte eccezionali, che popolano le pagine di questo libro. Ma Rumiz racconta anche e soprattutto un mondo semplice che nella banalità di ogni giornata affronta una vita a volte difficile e dura; un mondo spesso dimenticato dai centri di potere che sono sempre lontani, laggiù nella pianura.
È un universo che cerca di resistere malgrado lo spopolamento che, in ondate successive, ha privato queste regioni di risorse e di energie.
Il lungo viaggio di Rumiz di conclude con un ritorno nel mondo della modernità. Arrivato a Bova Marina, nell'estremo sud della penisola: La televisione del bar dice che la guerra in Libano può riprendere, mi notifica che per quasi un mese ho vissuto fuori dal tempo.

3 commenti:

  1. Grande bel viaggiatore Rumiz !! io sto leggendo il suo Il Ciclope. Viaggi per mare viaggi per fari. Antichi fari oramai abbandonati. Mi viene una voglia di partire accidenti !!!

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  2. Ho letto questo libro tardivamente, oltre 10 anni dopo la pubblicazione. Pur riconoscendo all'autore un certo stile, forse un po' troppo da rivista patinata ma comunque scorrevole e intrigante, il contenuto non mi ha convinto molto e spesso proprio annoiato. Non sono riuscito a finirlo e spesso ho saltato intere parti di capitolo perché le trovavo infarcita di banalità. A mio parere gli spunti interessanti non mancano, alcuni sono dei veri e propri gioiellini. Però quasi sempre Rumiz finisce per volerne trarre la sua morale politica, che a distanza di tempo appare ancor più semplicistica e demagogica di quel che forse poteva sembrare ai tempi della pubblicazione. Sarebbe forse risultato un bel libro se l'autore si fosse limitato a raccontare le storie dei personaggi incontrati in maniera più realistica e neutrale. Non mi stupisco che sia piaciuto molto ad una certa classe di benpensanti che fanno riferimento alla cosiddetta sinistra intellettuale. Da parte mia lo considero un'ottima occasione mancata.

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    1. Grazie per il commento Andrea, del tutto legittimo e comprensibile. Una sola cosa mi indispone: questo riferimento (oramai estremamente diffuso e stereotipato) a una "certa" classe di "benpensanti" di una "cosiddetta" sinistra "intellettuale". Ci manca solo un accenno al "buonismo" e poi abbiamo tutti i cliché dell'attualità.

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