La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 27 maggio 2016

Normandia: Dieppe

Da Le Treport a Le Havre la costa normanda è una successione di spiagge e di falesie. Poca sabbia, piuttosto ciotoli più o meno grandi. Un paesaggio sempre mutevole, nel ciclo giornaliero, quando le maree coprono e poi scoprono immensi litorali. Ma anche nei tempi più lunghi della storia, perché le scogliere non cessano di deformarsi, modificarsi, cedere al continuo via vai delle onde e del vento.

Arriviamo a Dieppe nel tardo pomeriggio. Negli ultimi chilometri la strada scende verso la città che si adagia nell'ansa di fronte al mare.
Superata l'ultima linea di palazzi borghesi e di alberghi ci appare un'ampia spianata. Il mare è ancora lontano.
Due alte falesie racchiudono la lunga spiaggia di ciottoli. Tra le facciate dei palazzi e il lungomare è un corso, poi un larghissimo prato di un bel verde, una passeggiata anch'essa molto spaziosa e infine la spiaggia che, a marea bassa, si stende in lontananza.
Fu l'imperatrice Eugenie, moglie di Napoleone III a disegnare la grande spianata caratteristica della cittadina. Nel XIX secolo Dieppe era meta di villeggiatura per i coniugi imperiali che ne diffusero la moda tra i parigini. Una linea ferroviaria collegò allora la città alla capitale. Fu il suo periodo più fasto, meta di vacanza per aristocratici e ricchi borghesi un po' snob. Oggi, ben più modestamente, Dieppe si vanta di essere la “capitale dell'aquilone”.

In questa serata di maggio, sulla lunghissima passeggiata bambini, ciclisti, pensionati, podisti sono molto numerosi. I gabbiani passano veloci e si fanno portare dal vento.
Sulla falesia più occidentale è il castello risalente al XV secolo, sull'altra, a picco sul porto, spicca la chiesa del Buonsoccorso, luogo di pellegrinaggio per marinai e pescatori.
Tutta l'animazione della cittadina è sul lungomare. Nelle vie e nelle piazzette più interne si incontrano rari passanti.
Dieppe appare tranquilla, anche un po' sonnolenta adesso che i visitatori del giorno sono ripartiti. L'aspetto borghese degli edifici contrasta con quello più popolare degli abitanti e dei turisti odierni.
Sotto le falesie, quando il mare si ritira, il paesaggio è sorprendente. La distesa è minerale con colori che vanno dal bianco al ruggine.
Le rocce, lavorate delle maree e dal vento, appaiono come sculture. Rari camminatori, un po' più intraprendenti, si avventurano verso la linea di costa.
I gabbiani si gettano dalla scogliera lanciando gridi stridenti e poi risalgono le correnti d'aria, lasciandosi portare dal vento, immobili. Il sole è ancora alto, una lunghissima parabola lo tufferà nell'orizzonte marino.
Tramonterà sulla Manica quando sono già quasi le dieci di sera.

sabato 14 maggio 2016

Benozzo Gozzoli a Montefalco

Il museo San Francesco, allestito attorno e all'interno della chiesa omonima di Montefalco, accoglie una bella collezione di dipinti e di arte sacra. Vi si possono anche ammirare, - ed è senz'altro questo il momento più interessante della visita – gli affreschi di Benozzo Gozzoli, affreschi che ornano i muri dell'antica chiesa ormai sconsacrata.
Allievo del Beato Angelico, Benozzo di Lese di Sandro, passato alla posterità con il nome di Gozzoli (nome che gli fu attribuito dal Vasari, non si sa con certezza perché) realizzò gli affreschi dell'abside nella chiesa di Montefalco e poi quelli delle cappelle dedicate a San Girolamo e a San Bernardino da Siena a partire dal 1450 dopo aver terminato, nella chiesa di San Fortunato il suo primo incarico da Maestro.
Furono i francescani conventuali a chiedergli di compiere un ciclo di dipinti incentrati sulla vita del Santo fondatore dell'ordine. Benozzo Gozzoli conosceva evidentemente il lavoro realizzato da Giotto per la basilica di Assisi anzi, in un medaglione egli rende omaggio al suo concittadino pittore fiorentino associandone il ritratto a quello di altri due concittadini illustri: Dante e Petrarca.
L'esempio dell'opera di Giotto è quindi presente nelle rappresentazioni di Montefalco ma, almeno in questo primo periodo della sua vicenda artistica, Benozzo Gozzoli lavora anche - soprattutto - nel ricordo dell'insegnamento del Beato Angelico.
Un'arte definita “ingenua” ma nel senso positivo del termine; che lascia da parte ragionamenti troppo razionali affidandosi principalmente alle emozioni. I paesaggi naturali, le umanissime espressioni dei personaggi devono molto alla lezione di Giotto ma i colori, limpidi e tersi, ricordano la tavolozza dell'Angelico.
Emozionante è la scena nella quale San Girolamo toglie la spina dalla zampa del leone.
Prima di realizzare questi affreschi però Benozzo Gozzoli aveva dipinto un polittico, destinato alla chiesa di San Fortunato: La Madonna della cintola. Nel 1848 il quadro fu donato dalla municipalità di Montefalco al Pontefice Pio IX dopo che quest'ultimo aveva concesso al comune il titolo di città. Si trova quindi di solito ai musei Vaticani ma, in occasione del suo restauro è stato esposto nella chiesa di San Francesco a Montefalco; un'occasione unica per ammirare l'opera nella città di origine nel ritrovato spendore dei suoi colori.
La Vergine che sale al cielo lascia a San Tommaso la cintola (oggi la reliquia è conservata nel duomo di Prato) che rappresenta il legame tra terra e cielo e che è la prova, per lo scettico apostolo, che già aveva dubitato della resurrezione di Cristo, dell'effettiva assunzione in Paradiso della Madonna.

Nella predella sottostante sono le immagini dei momenti essenziali della sua vita: nascita, sposalizio, annunciazione, natività di Cristo, circoncisione, morte della vergine.
Frate Antonio chiamò il trentenne Benozzo Gozzoli, il migliore allievo e a quell’epoca ormai socio del Beato Angelico, e gli affidò per la “sua” Montefalco, l’esecuzione di una pala d’altare che doveva essere quadrata – come voleva Leon Battista Alberti – senza decori di fogliami e di pinnacoli dorati. Doveva essere concepita, organizzata e messa in figura “secondo prospettiva”, come il Beato Angelico e, prima di lui e insieme a lui, Masaccio e Domenico Veneziano, Donatello e ser Brunellesco avevano insegnato. Doveva presentarsi infine agli occhi del riguardante, nella «amistà dei colori», nel variegato gioco cromatico dei pigmenti fra loro «amici» che – è ancora l’Alberti del De Pictura a parlare – «pigliano variazione dai lumi», mutano cioè tono e splendore a seconda dell’incidenza della luce.
Il risultato è uno dei capolavori del Rinascimento pittorico italiano: carpenteria lignea di straordinaria qualità, quasi un capolavoro di ingegneria strutturale, arrivato miracolosamente intatto fino ad oggi; cromia tenera e luminosa, sottigliezze fiamminghe degne dell’Angelico”.
Antonio Paolucci, curatore della mostra

Circondata da una corona di angeli, su uno sfondo d'oro, la Vergine porge delicatamente la sua cintura a Tommaso. A destra è un leccio, albero che ricorda San Fortunato, nella cui chiesa doveva essere collocata la pala. Armonioso e dolce è il contrasto tra l'oro dello sfondo e i colori degli abiti: azzurro, rosa, rosso, verde.

È stato lo storico dell'arte lituano Bernard Berenson, a fare il più bell'omaggio al pittore e nello stesso tempo a queste terre d'Umbria: “Benozzo sembra aver dimenticato il Paradiso celeste che gli aveva insegnato il suo maestro, il Beato Angelico, per raccontare quel paradiso che è il lembo di terra compreso tra Montefalco e Assisi”.

mercoledì 11 maggio 2016

Luigi Nacci: Viandanza

Diceva Gilles Deleuze, in una conferenza intitolata Cos'è l'atto di creazione che nessuno ha bisogno di un filosofo per riflettere su qualche cosa, tutti possono farlo anche se non sono specialisti nella materia. Altro è però fare della filosofia. Questa è una disciplina creatrice perché, al pari di un pittore, di un cineasta o di uno scrittore anche il filosofo crea. Crea dei concetti. E un concetto -aggiungeva Deleuze- non si fabbrica in un minuto né in un giorno. Bisogna che ci sia una necessità.
Luigi Nacci, dice la sua biografia, è insegnante, giornalista, scrittore e poeta. Ma è anche un filosofo, non fosse altro che per aver creato il concetto di viandanza. Scrivo questa parola ed anch'io come Nacci mi accorgo che il computer la sottolinea in rosso. È assente dal dizionario e vien da chiedersi perché. È senz'altro una parola necessaria perché (per parafrasare Deleuze) è molto più di un semplice sostantivo, è un concetto filosofico.
Detto così sembra però un po' cerebrale. In realtà in quello che scrive Nacci si vede che c'è sì molta riflessione ma anche molta passione.
La viandanza non è l'escursionismo, tanto meno il trekking, non è uno sport ne una attività salutista. Si tratta di un cambiamento vitale, di una scelta di vita.
Anni fa, non mi ricordo quando avvenne esattamente, se prima o dopo la curva, pensai ad una parola: “viandanza”. Me la ritrovai in bocca senza accorgermene. Era una parola, a giudicare dai dizionari che avevo consultato, che non esisteva. Sicché pensai: «Come può essere che una parola così bella non sia nel dizionario? Che nessuno l’abbia pensata prima?». Fu così che Luigi Nacci si inventò anche un Festival della Viandanza per riunire in quel di Monteriggioni tutti coloro che le strade le abitavano: pellegrini, pastori, briganti, clandestini, sognatori diurni, vagabondi, flâneur, o più semplicemente curiosi. E fu così che, coerente allo spirito che lo aveva animato, decise di abbandonare il festival quando gli sembrò che avesse perduto il suo senso iniziale.
Ora Viandanza è anche il titolo di un libro che Luigi Nacci ha pubblicato nel 2016 è che è un po', non il seguito ma l'approfondimento, del suo precedente Alzati e cammina.
Viandanza comincia quasi come un diario di viaggio; il racconto del cammino verso Santiago di Compostela. Potrebbe essere una delle ormai tante descrizioni di un'esperienza che ha ispirato innumerevoli resoconti. Ma ben presto ci accorgiamo che per Luigi Nacci gli aneddoti del cammino verso Santiago – e poi di quelli lungo la via Francigena- sono, se non un pretesto almeno un punto di partenza per un viaggio più profondo e intenso. Attraverso una serie di capitoli dedicati a sentimenti essenziali: Paura, Stupore, Spaesamento, Nostalgia, Disillusione, Luigi Nacci ci trasporta in un viaggio che è nello stesso tempo pedestre e interiore. Richiama compagni di viaggio incontrati nelle sue letture, dall'Ecclesiaste a Neruda a Pavese; ci racconta un percorso personale che lo porta, poco a poco, verso un cambiamento essenziale dell'idea stessa di Vita.
Viandanza è diventato un piccolo “fenomeno editoriale”. Anche se di solito non si può che non essere un po' scettici di fronte a quello che potrebbe assomigliare a un fenomeno di moda, in questo caso prevale forse l'ottimismo: la voglia di viandanza è forse, seppur piccolo, un barlume di speranza nell'umanità.

lunedì 2 maggio 2016

Colline dell'Umbria: da Valletamantina a Collemancio

Siamo tornati sulle colline di Bevagna. Ormai conosciamo bene la Valletamantina dove siamo sempre accolti a braccia aperte. Nel mese di aprile approfittiamo di una settimana di belle giornate di sole. Le fioriture colorano i prati e negli uliveti ci si attiva per la potatura.
Ci incamminiamo per un'escursione a Collemancio che fu comune autonomo fino al 1870 quando divenne una frazione di Cannara che si trova più in basso nelle piana. Collemancio è in bella posizione, situato su un colle a settentrione dei monti Martani a circa 500 metri di altitudine. I boschi occupano una parte del territorio mentre la zona intorno al paese è coltivata soprattutto con uliveti. Il borgo ha una settantina di abitanti, soprattutto agricoltori e pensionati.
Su un colle vicino al paese era un'antica città romana: Urvinum Hortense e i resti, soprattutto le massicce mura, sono ancora visibili anche se in parte circoscritti in un'area di scavi recintata nella quale lavorano gli archeologi. Nell'antichità la valle sottostante, tra queste colline e Assisi, era un grande lago e Urvinum Hortense si trovava in una posizione strategica eccezionale che permetteva di controllare un'ampia zona di territorio anche verso la valle del Tevere. Furono i Romani, in epoca repubblicana a intraprendere l'opera di prosciugamento del lago. Poco a poco Collemancio perse la sua importanza a favore del borgo di Cannara, situato nel fondovalle. Attualmente è nel museo di Cannara che si trovano tutti i reperti trovati durante le campagne di scavi.
La partenza per questa escursione si fa poco lontano da un altro antico borgo: Castelbuono, oggi frazione di Bevagna, e del quale abbiamo già parlato altrove.
Saliamo, lasciandoci alle spalle la valle Umbra, verso la cresta della collina lungo una ripida strada bianca che si trasforma poi in sentiero. Arrivati sull'alto del colle, ci fermiamo per prendere fiato e per approfittare del magnifico panorama che spazia tra Spoleto e Perugia.
In lontananza Santa Maria degli Angeli e la Basilica di San Francesco a Assisi
Da qui il percorso si fa più tranquillo, prima scendendo con un ampia curva che ci dirige verso nord, poi continuando con dolci saliscendi tra prati e boschi.
Camminiamo in effetti, non su un sentiero ma su una strada provinciale, la 412 che però, essendo interrotta in direzione di Pomonte è tranquilla come un sentiero di montagna.
Qua e là qualche casa con contadini al lavoro, soprattutto attorno agli ulivi.
Collemancio appare all'orizzonte sul suo colle fin dall'inizio della strada, poi lo perdiamo di vista, fino all'ultima curva.

All'ingresso del paese è il massiccio castello del X secolo che protegge il borgo fortificato, poi due vie si allungano sul colle, riunendosi dalla parte opposta.
Facciamo una passeggiata tra le viuzze del paesino.
Sembra un paesaggio da cartolina. Incontriamo qualcuno dei rari abitanti, sorridenti e cortesi.
Dopo essere usciti dal borgo saliamo sul colle vicino sove si trovava l'antica città romana.
Una strana pensilina di autobus sembra sia stata riconvertita in cappella votiva.






Sul colle, in magnifica posizione, le grandi pietre squadrate delle antiche mura. Sono vestigia che a prima vista non hanno nulla di artistico ma che sembrano racchiudere e raccontare una storia millenaria.
Torniamo sui nostri passi e riprendiamo la provinciale 412 in senso inverso.
Limigiano
Sulla sinistra, più in basso, appare il paese di Limigiano, altra frazione di Bevagna. Decidiamo di dirigerci verso quel borgo prendendo una mulattiera che sembra andare in quella direzione.
Ben presto la via si trasforma in sentiero, continuando a scendere verso la valle. Davanti ad una casa isolata chiediamo informazioni sul cammino ad una signora seduta nel giardino.
Ci assicura senza esitazione che Limigiano è in fondo alla strada... solo che dopo qualche centinaio di metri la stessa strada si perde in un uliveto. Continuiamo in direzione del paese che è sempre visibile sull'altra costa del vallone.
Dopo un percorso scelto a naso ritroviamo un sentiero che ci porta fino alle prime case. Da qui, dopo aver attraversato il borgo risaliamo in direzione di Castelbuono, attraversando per un tratto il parco delle sculture.