La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 15 marzo 2019

Erri De Luca, Il giro dell'oca

Ho un corpo e sono stato al gioco di viverci dentro. Che gioco? Il gioco dell’oca. Si tira un dado e ci si sposta in un circuito a spirale.
Erri De Luca centellina i suoi libri, anno dopo anno. Sono spesso esili volumi, non per questo meno profondi. Storie di personaggi che hanno vissuto e che osservano il mondo un po’ discosti ma sempre con acutezza; sullo sfondo, scorci di un'esperienza autobiografica che si fa luce, discreta, tra le righe. Un tratto autobiografico rivendicato. Egli si dice scettico davanti alla definizione di “autore”, di fronte ai “diritti d'autore” che pure gli danno di che vivere: C'è un malinteso, un'impostura da parte mia. Ma non ho voglia di chiarirla. Si presenta piuttosto come redattore di storie vissute, viste o sentite e che poi racconta, reinventando parole già dette. Non sono mie, appartengono alla vita e al vocabolario, io le metto insieme. Mi spetta il diritto di assemblaggio. Non è un caso – dice - se i suoi libri sono scritti in prima persona, la terza, quella che farebbe di lui uno scrittore, sarebbe troppo distante, straniera. E poi, in definitiva, preferisce considerarsi lettore piuttosto che scrittore. Non c’è miglior appagamento che tra le pagine di Dostoevskij.
Erri De Luca è uomo dalle molte vite. Nessuna però sembra aver mai rinnegato le precedenti. Militante politico, operaio, muratore, alpinista, umanitario nell’ex Jugoslavia, ognuna è legata alle altre, ne è la causa o la conseguenza. Ormai il giovane rivoluzionario ha assunto la fisionomia e la posa del vecchio saggio, anche se molto probabilmente rifiuterebbe l’epiteto. I tempi sono cambiati, sono lontani gli anni della battaglia fisica, della lotta collettiva per cambiare la società: gli anni Settanta, non di piombo ma anni di rame, raccontati in uno scritto omonimo, anni di connessione e di comunicazione tra gli esseri umani. Ma, ci sembra, non ci sono in lui né rimpianti né rimorsi. Una sconfitta vissuta in prima persona, quando i picchetti davanti alla Fiat Mirafiori annunciavano l’ultimo avamposto prima del deserto degli anni Ottanta, ma non l’abbandono di una riflessione e di una partecipazione che non si sono mai smentite, fino a confronti recenti con i tribunali.
I suoi libri sono snelli ma non per questo i testi in essi racchiusi sono gracili; al contrario, ogni frase, ogni parola pesa, appare scritta nella pietra, scavata con forza e sottratta a tutto quello che è accessorio. A volte emerge come sentenza, aforisma che impregna lo spirito del lettore, più spesso l'espressione si fa poesia che sembra secca nella scansione paratattica ma che ha la sua musicalità, quella di una prosodia che fluisce e scorre.
Nell’ultimo testo pubblicato “Il giro dell’oca”, questa carica poetica è ben presente, inonda il racconto e lo impregna, aprendo al lettore larghi spazi di riflessione ben al di là dell’esplicito.
La nota autobiografica si fa qui più precisa che in passato, “non un bilancio ma una ricerca interiore” ci segnala la nota dell’editore.
Il narratore evoca un figlio mai avuto, lo fa emergere e crescere dal passato. Come un singolare Geppetto, lo intaglia, gli dà forma e poi, a poco a poco, la parola. Leggevo il libro dove un uomo anziano inventa un figlio. È un falegname e se lo fa di legno. Gli piaceva l’idea di farsi dire babbo. Il monologo si trasforma in dialogo. Un tenue dialogo con questo figlio di poche parole. È il momento per raccontare una vita scivolata, fare riaffiorare ricordi di infanzia, brandelli di esistenza che sono diventati momenti forti, che hanno, a poco a poco, riempito il quotidiano. Ed è anche l’occasione per confrontare le proprie convinzioni con l’altro, di precisarle: le scelte politiche, l’interesse per le questioni metafisiche di un ateo che legge un passo della Bibbia ad ogni risveglio e che ha voluto studiare quei testi sacri nella loro lingua di origine.
E proprio la lingua infine, è elemento centrale per Erri De Luca, che pensa, parla e scrive tra Napoli e L’Europa e a cui il suo figlio interlocutore immaginario rimprovera di passare dalla mistica del vocabolario a quella della geografia. Egli che ribadisce più volte il ruolo della lingua materna, il Napoletano, con coi spera di dire addio al mondo, risponde con una frase scovata tra Dante e Proust: se fossi costretto all’esilio – dice - , non sarei esule, perché porto con me la lingua italiana che mi fa abitare ovunque.
Erri De Luca, Il giro dell’oca Feltrinelli 2018

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