La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



giovedì 30 settembre 2010

Monte Prena (Gran Sasso d'Italia)

Per molti è uno dei pochi luoghi ancora selvaggi del Gran Sasso.
Visto da sud, il monte Prena (2561m.) si stacca dalla piana di Campo Imperatore con la sua mole rocciosa e frastagliata. La cresta si allunga a ovest con la cima dell'Infornace, le Torri di Casanova (a Isola del Gran Sasso chiamate « Cimette di Santa Colomba») fino al Brancastello. Qui il crinale comincia a scendere dolcement fino all'intaglio del vado di Corno (1924m.), importante via di collegamento tra i due versanti della montagna.
A est del Prena il profilo della cresta cambia radicalmente e le forme arrotondate del mammellone del monte Camicia contrastano decisamente con le rocce del monte vicino.
Al chilometro 48 della statale che attraversa l'altipiano una strada sterrata si dirige verso nord-ovest. La carrareccia, lunga più di quattro chilometri, fu costruita negli anni Trenta e doveva permettere, in periodo di autarchia, lo sfruttamento della lignite presente sul territorio. L'arrivo dei Tedeschi, nel 1943 interruppe un progetto di miniera che non sarà mai più ripreso. Ai nostri giorni la strada è in pessime condizioni; ormai da tempo abbandonata alla sua sorte a primavera si trasforma a tratti in torrente.
Dopo aver compiuto, in salita, un'ampia curva verso est, la sterrata arriva ai ruderi di quelli che avrebbero dovuto essere i forni e le baracche per gli operai addetti all'estrazione del bitume. Qualche centinaio di metri prima di queste rovine il sentiero per il vado di Ferruccio si stacca sulla sinistra, inerpicandosi in uno stetto intaglio per poi attraversare un vallone sempre più ampio il cosiddeto Altare di monte Camicia. La via sale a poco a poco sulle pendici sud occidentali di questo monte. A sinistra è la valle della Fornaca con al centro un paio di colli che la separano in due. Su uno di questi, a 1768 metri di quota, era, fino a qualche anno fa, il bivacco Lubrano. Spazzato via da una tormenta oggi non ne restano che le fondamenta.
Risalendo in diagonale, il sentiero si inerpica più rapidamente sboccando poi sulla parte più orientale del largo vado. Da qui lo sguardo spazia sul versante teramano, in fondo è l'Adriatico, verso nord i monti di Campli, quelli della Laga. Dopo aver attraversato, nel senso della lunghezza il vado verso ovest, la via ricomincia a salire in direzione del vallone a nord del Prena.
Si arriva così al Piano d'Albruno e poi, piegando verso sud si risale rapidamente sulla cresta del monte. Ancora qualche metro verso ovest per trovare infine la croce di vetta. Il panorama è splendido, il blu del cielo contasta con il verde dei prati e il bianco delle rocce. Queste ultime formano guglie e pinnacoli, altre sono in sorprendente equilibrio simili a complicate sculture. Lo sguardo spazia a 360 gradi, dal Velino al Sirente, dalla Marsica alla Majella, fino alla costa abruzzese.

sabato 25 settembre 2010

H.D. Thoreau Camminare


Per Henry David Thoreau camminare non è né un'attività fisica né uno sport. Andare a spasso nei boschi è un'occupa- zione ben più importante. Nelle ore passate nella marcia (almeno quattro ogni giorno), non cerca semplicemente un « contatto con la natura »; il suo desiderio è di ritrovare il posto che l'essere umano deve avere, parte integrante, in questa Natura stessa.
Un'escursione non ha senso se si limita ad un semplice e programmato periplo. E' necessario mettersi in marcia con un altro spirito, quello della partenza definitiva, lasciando dietro di sé preoccupazioni e affari materiali, e senza avere, fin dall'inizio, l'idea del ritorno a casa.
Lo spunto Thoreau lo trova anche nel vangelo di Matteo che parafrasa:
Se sei pronto ad abbandonare padre e madre, fratello e sorella, moglie, figli e amici e a non rivederli mai più; se hai rimborsato tutti i tuoi debiti, fatto testamento, concluso tutti i tuoi affari e se sei un uomo libero; allora sei pronto per metterti in cammino. 
Il camminare ci porta spontaneamente verso campi e boschi. Ma non avrebbe senso il restare nel bosco se i nostri pensieri fossero altrove. Per Thoreau la marcia è soprattutto un'attività intellettuale e la ricchezza delle scoperte supera quella di ogni bene materiale. Le strade sono fatte per i cavalli e gli uomini d'affari, egli preferisce perdersi nei sentieri che nessuno percorre, salire colline conosciute solo dalla volpe, ritrovare luoghi nei quali la presenza dell'uomo ha la stessa importanza di quella di un passero.
Purtroppo poco a poco, le strade, le case e soprattutto le recinzioni, riducono gli spazi liberi e delimitano, addomesticandola, la natura. Natura addomesticata è anche pensiero addomesticato. Solo nello spazio selvaggio è possibile ritrovare l'essenza vitale che il cosiddetto progresso uccide.
E nell'America di Thoreau il nuovo, lo sconosciuto, il selvaggio sono ad ovest. Per questo, istintivamente, è in questa direzione che lo spingono i suoi passi. Ad est è la città, la civiltà, la cultura ma tutto ciò rappresenta il passato. Mentre è nella natura selvaggia, nell'humus del sottobosco, nella vitalità di uno stagno che si trova il nutrimento anche per lo spirito umano. Il pensiero di Omero o di Confucio si è sviluppato, come pianta, nutrito da una natura vergine e ricca. (E' il mito della "Frontiera" al quale Thoreau aderisce. Mito al quale sarà meno legato in seguito quando teorizzerà la Disobbedienza civile).
Che sia animale, pianta o uomo, l'essere vivente può esprimere pienamente se stesso solo se è libero, cioè non costretto da legami sociali. Addomesticato perderà la sua forza diventando un membro docile della società a cui appartiene. Più che spingere gli uomini verso una speudoconoscenza che non è null'altro che « sapere utile » bisognerebbe avere come obiettivo « l'ignoranza utile » capace di allontanare da un preteso sapere che in realtà non è che vanagloria e presunzione, accumulazione di nozioni archiviate nella nostra memoria e mai utilizzate.
È meglio essere consapevoli della propria ignoranza piuttosto che, conoscendo ben poco, credere di sapere tutto. E chi è coscente della propria ignoranza può vivere libero perchè non ha convenzioni alle quali sottomettersi.
Così il camminare è per Thoreau un vivere nel presente, sbarazzati delle reminiscenze del passato, una consapevolezza del senso della propria vita. Il sole che illumina la foresta al tramonto darà al camminatore la percezione di un'esistenza intera: potrà cosi' vivere con saggezza.

Henri David Thoreau Camminare Arnoldo Mondadori 2009

sabato 18 settembre 2010

Bruce Chatwin: Le Vie dei Canti

Bruce Chatwin racconta il suo vagabondare in giro per il mondo. Descrive persone e popoli, paesaggi e animali, senza pregiudizi né complessi di superiorità. Si interessa al nomadismo, cerca negli altri i motivi che spingono all'erranza, forse per scoprirne le similitudini con se stesso.

Percorrere il mondo per dare il nome alle cose è il grande mito delle origini dei popoli autoctoni australiani. Ed è per questo che il suo viaggio lo porta in Australia, all'incontro degli aborigeni. Vede un popolo che vive spesso nella miseria, subendo il disprezzo e il razzismo dei bianchi e delle teorie che parlano dello « stato infantile e primitivo » dell'intelligenza di questa gente ma scopre anche una cultura antica, ricca e complessa.
Nelle Vie dei Canti parla di questi incontri e del suo tentativo di capire il sistema con il quale gli aborigeni descrivono il mondo:
Nel « Tempo del sogno » le creature totemiche hanno percorso il mondo in lungo e in largo dando un nome alle cose, cantandole e, dunque, creandole. Per gli aborigeni era la terra che dava vita all'uomo. Gli dava nutrimento, linguaggio, intelligenza e, quando lui moriva, se la riprendeva. Anche per questo, dice Chatwin, gli aborigeni si muovono con passo leggero, meno prendevano sulla terra, meno dovevano restituirle. Una terra non cantata è una terra morta. Il territorio è dunque un reticolo di vie che « dicono » il mondo ma stabiliscono anche le relazioni tra le varie tribù, ne definiscono i confini e i rapporti. Non a caso le parole usate per paese sono le stesse che per via.

Nel suo peregrinare Chatwin incontra personaggi sorprendenti come padre Terence che ricerca l'ascetismo: oggi più che mai, gli uomini dovrebbero imparare a vivere senza gli oggetti. Gli oggetti riempiono gli uomini di timore: più oggetti possiedono, più hanno da temere. Gli oggetti hanno la specialità di impiantarsi nell'anima per dire all'anima cosa fare. Incontra Hanlon che vive in una baracca di lamiera. Sulla porta un manifesto scolorito « Lavoratori di tutto il mondo unitevi. » Hanlon prende un libro e finge di aprirlo a caso. Il vangelo secondo il nostro padre Marx dice. E legge un passaggio che potrebbe far riflettere chi, anche tra i sedicenti marxisti odierni non esita a far l'elogio del lavoro: In cosa consiste dunque l'alienazione del lavoro? Innanzitutto nel fatto che il lavoro è esterno al lavoratore, cioè non appartiene al suo essere più profondo; che nel lavoro egli non afferma se stesso, non si sente appagato bensì inappagato; non sviluppa la propria energia fisica e mentale ma mortifica il corpo e distrugge la mente.

Chatwin ascolta e annota nei suoi taccuini. Lega la sua esperienza giornaliera a quella passata. Trova affinità tra popoli distanti migliaia di chilometri. Cita Guatama Buddha: Non puoi percorrere la Via prima di essere diventato la Via stessa; e l'antropologo norvegese Frederick Bart a proposito dei Basseri, popolo nomade dell'Iran e del fatto che questi avessero così pochi rituali: giunse alla conclusione che il viaggio era di per sé un rituale, che la strada verso gli altipiani era la via e che il montare e lo smontare le tende era una preghiera più eloquente di quelle che si recitano nelle moschee.
Al termine del viaggio, il libro, tra romanzo e diario, appare come un insieme coerente e ricco di spunti. Un omaggio al popolo viandante.

domenica 12 settembre 2010

Da Navelli ad Anversa degli Abruzzi

Navelli sembra un paese ancora attivo. Situato su un basso cucuzzolo al centro della piana, è stata la capitale dello zafferano. Oggi, 21 agosto, è giorno di sagra (ceci allo zafferano appunto) e la piazza, nella parte più bassa del borgo, comincia a riempirsi di gente.
Ma il terremoto del 2009 ha lasciato anche qui i suoi segni. Salendo nell'antico centro si incontrano barriere e travi di consolidamento.
Quassù poche persone, una sensazione di abbandono. L'erba cresce tra le pietre e le porte hanno l'aria di essere chiuse da tempo. Sul punto più alto è la chiesa, anch'essa sembra chiusa definitivamente. La breve scalinata, coperta da una loggia, è sporca del guano dei piccioni. Ha una bella porta in legno intagliato, protetta da una grata di ferro. Sul lato c'è un'altra porta con una figura mancante, già rubata; una piazzetta panoramica con un pozzo in pietra. L'erba è secca. Si sente, dal basso, il rumore della strada statale che attraversa la piana con un lungo rettilineo. Vicino sono i prefabbricati « MAP » montati dopo il terremoto.
La statale 17 continua verso Popoli. A destra una strada sale verso San Benedetto in Perillis., ultimo comune della comunità montana Campo Imperatore Piana di Navelli. Come molti altri borghi anche San Benedetto è su un colle con la parte più antica in alto. E, come in molti altri, anche qui le transenne bloccano l'accesso al centro storico. Il paese appare deserto; una cagna con mammelle gonfie e pendenti si allontana impaurita.
In basso, vicino alla strada c'è una grande piazza vuota. Si direbbe il parcheggio di una stazione. Sul lato opposto alla strada un palazzone piuttosto brutto; un bar con, fuori, sedie e tavoli di plastica bianca. Sono quasi tutti occupati, non ci sono donne.
La strada prosegue verso Molina Aterno. Anche qui il paese è sulla sinistra, mentre sulla destra c'è una grande piazza con un bar in un angolo. Una scritta sulla parete di un gazebo chiuso, propone dei kebab.
La piazza è vuota, ci sono solo due furgoni Wolsvagen con tendine ai finestrini, un gruppo di ragazzi, evidentemente in viaggio con i loro strumenti (uno di loro sta suonando la chitarra seduto su una sedia) e qualche cane. Un altro ragazzo, con i capelli alla moda rasta, si allontana con, sotto il braccio, dei cartelli in legno che appende agli angoli del vasto spazio. Propongono uno spettacolo « per famiglie » questa sera. Il gruppo si chiama « Musicare il mondo ».
Dopo Castel di Ieri, con il solito centro storico impraticabile si arriva a Cocullo dove il bar sulla piazza deserta spara a tutto volume le voci di una radio commerciale. La strada prosegue per Anversa. Il centro storico è chiuso alla circolazione ma questa volta solo per permettere la tenuta di un « mercatino artigianale ».
In realtà sulla piazza di Anversa degli Abruzzi ci sono due bar aperti e sono la sola cosa ad avere un certo successo. Piuttosto uno dei due, i cui tavoli sono affollati di gente con tanto di organetto e di canzoni popolari. Non sembrano persone del posto, sono soprattutto giovani, donne con gonne a fiori e uomini con pantaloni colorati; bambini e passeggini. Il mercatino si riduce a tre espositori e non attira molta attenzione: oggetti in legno, il modellino di una capanna che sembra fatto da un bambino, fiori secchi che paiono non interessare nessuno.
Ai tavoli del secondo bar, quello meno frequentato, una donna è seduta con un bambino a torso nudo che sta mangiando un gelato. Un'altra ragazza si avvicina. Parla con un accento romanesco piuttosto marcato. Dice alla prima di averla riconosciuta (si sono viste l'ultima volta qualche anno fa). Segue quasi un interrogatorio: sei sposata?, Dove vivi?, Con chi vivi?, Divorziata? La ragazza che fa le domande parla a voce alta ma le risposte non si sentono. Parlando forte fa dondolare velocemente il passeggino che porta. Un'altra bambina, più grande (deve avere 3 o 4 anni), la segue. Si chiama Maria Sole, ha i capelli rossi e lunghi. Le due ragazze, quella con il passeggino e quella seduta si danno appuntamento per più tardi. La prima deve andare « a chiudere la tenda » e cerca qualcuno a cui affidare il bambino sul passeggino. Chiede all'altra ragazza di tenerglielo ma quest'ultima (cosi' sembra dirle) ha da fare. Trova la soluzione affidandolo ad una terza che fa parte della comitiva dell'altro bar. Quest'ultima non smette di far dondolare velocemente il passeggino e redarguisce animosamente un automobilista, che sta attraversando la piazza a passo d'uomo, dicendogli di andare più piano. L'autista la guarda stupito, senza risponderle.
La madre del bambino si allontana con due altre ragazze che portano sotto il braccio due materassini da campeggio arrotolati. Si avvicina ad un auto parcheggiata lungo la strada che scende verso Sulmona. Dice « tutti mi apprezzano per la mia semplicità e la mia spontaneità. » Sullo sfondo, sulla cresta dei due colli vicini, le pale della centrale eolica girano lentamente.

sabato 4 settembre 2010

Pastori abruzzesi

I grandi cani che da secoli accompagnano i pastori dell'Abruzzo nel loro lavoro sono forse gli stessi che disegno' Leonardo da Vinci.
La razza è completamente bianca, gli individui più grandi possono facilmente raggiungere i 60 chili di peso.
In questo paese alle pendici del Gran Sasso, Bernardino, con molta passione e buona volontà ma anche con pochi mezzi, ha allestito un canile per raccogliere i numerosi randagi che vagavano sulle montagne.
Bernardino conosce bene i cani ed anche la loro storia. Ci spiega che l'origine è asiatica, più precisamente tibetana, e la razza è la stessa che si ritrova sui Pirenei. In Italia questi cani sono più conosciuti con il nome di maremmani ma in realtà, in quanto tale, quest'ultima razza non esiste. Fu una contessa toscana, ci spiega Bernardino, a selezionare qualche individuo ed a inventare questa denominazione.
Un pastore abruzzese non deve avere né speroni né macchie, anche se queste ultime sono tollerate dietro le orecchie. Sembra che la scelta di cani dal colore bianco fosse dovuta alla necessità di non confonderli con i lupi quando questi attaccavano il gregge.
Fino a qualche tempo fa i cani pastore portavano collari irti di punte per proteggerli da lupi e orsi.

venerdì 3 settembre 2010

Arte

Malevic, pittore dell'avanguardia russa, dipinse le tele bianco su bianco. Idea estrema, l'esposizione di queste tele voleva rappresentare la fine della pittura come forma di espressione artistica. "L'ultimo quadro è stato dipinto" disse un altro pittore.
Ma un quadro bianco su bianco non si guarda, non c'è nulla da guardare. Il dipinto non è più l'espressione dell'autore, non dice più nulla. Anzi, quello che vorrebbe dire : non c'è più pittura non puo' funzionare perché l'oggetto esposto anti-pittura non puo' esprimersi se non cadendo in contraddizione. Se dice "la pittura non è niente" dice pur sempre qualcosa e dunque è qualcosa e non niente.