A Bernardo Soares, l'eteronimo a cui Pessoa fa scrivere Il libro dell'inquietudine*, basta aprire la finestra dell'ufficio in cui lavora per partire in viaggio. Un rumore che sale dalla strada, una nuvola o un volo di uccelli, un soffio di vento o la luce improvvisa del sole che passa attraverso il grigio del cielo; d'un tratto un nuovo universo sostituisce quello fatto di pratiche da completare e di lettere da redigere.
Ma anche l'arrivo di un fattorino, l'odore dell'inchiostro, la frase di un collega o un gesto del capufficio bastano per far sì che Bernardo Soares cominci a riflettere e a spaziare in panorami di paesi lontani: I veri paesaggi sono quelli che noi stessi creiamo, perchè così, essendo i loro Dei, noi li vediamo come sono veramente, cioè come sono stati creati.
E così che questa raccolta di appunti e riflessioni del malinconico impiegato che dichiara di avere due sole certezze: la mia vita quotidiana di passante incognito e i miei sogni come insonnie di uomo desto diventa un libro di immagini e di descrizioni come affreschi dalla presenza concreta e reale.
Certo Il libro dell'inquietudine non è solo questo. Le pagine del diario di Bernardo Soares si aprono verso il mondo esteriore ma scendono anche nell'animo umano. E senz'altro i due percorsi si intrecciano. Riflessioni che analizzano e scrutano l'essere, divagano, approfondiscono, si interrogano. Come dice Antonio Tabucchi nella prefazione al libro: La finestra di Bernardo Soares ha le imposte che si possono aprire nei due sensi, sul fuori e sul dentro. La modestia della figura dell'impiegato scribacchino, per molti versi autobiografica, fa emergere con più chiarezza la forza del ragionamento. È il solo libro in prosa di Pessoa, ma spesso la frase si fa poetica, dalla musicalità mesta.
È nel 1982, quarantasette anni dopo la morte dell'autore, che fu pubblicato per la prima volta in portoghese Il libro dell'inquietudine (Livro do desassosego por Bernardo Soares). Raccolta di appunti scritti, a partire dal 1913, durante più di vent'anni, ma mai diventati il libro che Pessoa avrebbe voluto. Quella che leggiamo oggi è solo un'ipotesi, costruita e poi modificata dagli studiosi attorno alle migliaia di fogli sparsi ritrovati in un baule.
Al centro del libro è Lisbona, la città in cui Bernardo Soares lavora. Una città amata soprattutto nei suoi contrasti tra notti silenziose e giornate animate e caotiche, cieli luminosi e stradine ancora nella penombra, con il grande fiume Tago a fare da sfondo e ad aprire la vista verso il sud. Lo svegliarsi di una città, che avvenga con la nebbia o altrimenti, per me è sempre più commovente dello spuntare del giorno in campagna. Pessoa, prima di lasciare la parola al suo alter ego lo presenta e racconta il loro incontro in un ristorantino dai prezzi modesti. È là che Soares, uomo solitario e schivo, prende i suoi frugali pasti ogni giorno; ed è là che osserva i presenti: il suo non era uno sguardo censorio, ma un'attenzione che tuttavia non sembrava rivolta ai tratti e alle fisionomie della gente. Perchè quello che lo interessa non è l'aspetto superficiale né degli uomini né delle cose ma piuttosto il loro senso profondo e nascosto. Soares finirà per confessare al suo interlocutore, quasi scusandosene, la sua passione per la scrittura, passione che riempie una vita vuota di amici e di altri interessi. Quello che leggiamo è il risultato delle serate solitarie in una stanza d'affitto.
Chissà cosa sarebbe stato questo libro se Pessoa avesse potuto concludere il progetto. Tutta una (breve) vita non gli è bastata. E forse non è un caso. Il libro dell'inquietudine era probabilmente destinato a restare quello che è, un «romanzo» che, con la parola fine avrebbe perso tutto il suo senso e che invece è uno dei libri più importanti del ventesimo secolo.
Io ho viaggiato poco. Anzi, dico una cosa che non si dovrebbe dire, non sono attirata dal viaggio, ma dal quotidiano, dalle cose belle che vedo ogni giorno, che non mi stancano mai.
RispondiEliminaPerò una volta ho sognato che ero a Lisbona sulla scia di un romanzo di Tabucchi.