La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 23 settembre 2012

Monte Bolza estate 2012

Il silenzio è il rifugio universale, il seguito di tutti i discorsi noiosi e di tutti gli atti stupidi, un balsamo su ognuno dei nostri dispiaceri, ugualmente benvenuto dopo la sazietà o la delusione; lo sfondo che il pittore non può cancellare, che sia maestro o mediocre nella sua arte e che, qualsiasi pallida figura facciamo, resta sempre come il nostro rifugio inviolabile, nel quale nessum malore può raggiungerci, in cui nessuna personalità ci disturba. H.D. Thoreau.
Ritorno sul monte Bolza. Quasi una tradizione.
La montagna che fa da corona al borgo di Castel del Monte si distingue dalle altre che circondano il paese per le erte rocce granitiche che contrastano con i colli arrotondati del paesaggio circostante. 
Lasciando Castel del Monte che appare sotto la pineta
Tuttavia non è una meta molto ambita. Il picco, a sud della piana di Campo Imperatore, non supera i duemila metri e non attira gli appassionati della performance. Eppure la sua posizione ne fa un punto panoramico d'eccezione. Qualcuno lo ha definito uno dei più bei panorami d'Abruzzo.
La Rocca di Calascio, sempre ben visibile.
Dalla sua cima si ammirano le catene più importanti della regione: Maiella, Sirente, Velino e naturalmente Gran Sasso. Il cucuzzolo si vede da lontano. Già sullo stradone che da Popoli va verso L'Aquila, nella bassa valle del Tirino, si riconosce il profilo inconfondibile della montagna che poi accompagna quasi costantemente il viaggiatore che sale da Ofena e Villa Santa Lucia.
Salendo, il panorama si apre sulla valle del Tirino
I più anziani abitanti del luogo lo chiamano (lo chiamavano) monte Corno, forse per la sua somiglianza con il fratello maggiore (il Grande) alle sue spalle. La stessa forma trapeziodale anche se di dimensioni ovviamente diverse. È il punto più orientale di una serra che si chiude, sul lato opposto, con il meno severo, monte Coccia, sulle carte Cima di Bolza, il punto più alto (1927 metri) della barriera che separa qui il versante rivolto verso la piana di Navelli da quello di Campo Imperatore.
La via di salita è, nella prima parte, la stessa del Sentiero Italia. Si allontana dal paese in corrispondenza della chiesetta di San Donato, a lato di una bella pineta. Il sentiero sale rapidamente sulla costa del monte Licciardi, allontanandosi dalla strada bianca che, più in basso a sinistra si dirige verso fonte Frenda.
Arrivati sul dosso tra Bolza e Licciardi la mulattiera scende leggermente, aggirando il monte verso il Guado della montagna, là dove la via scende verso Campo Imperatore. È da qui che abitualmente si sale, lasciando il sentiero e inerpicandosi a sinistra sulle pendici del monte, da questa parte più erbose e meno ripide.
C'è però una via più diretta. Quando il sentiero scavalca il crinale, invece di continuare verso il Guado si punta direttamente sul Bolza. 
Dal crinale, si lascia il sentiero. Appare monte Camicia
Qualche vecchio segno, difficilmente visibile però, indica il cammino ma sarà piuttosto un imponente ed evidentissimo masso a servire da riferimento. 
Dal pietrone si vede la strada che sale a Capo la Serra
Scavalcato il pietrone si continua a salire fino ad un primo colle (chiamiamola anticima). Da qui, senza cambiare direzione si scende per qualche metro per poi riprendere la salita indicata da una fin troppo evidente freccia rossa.
La via è indicata da una freccia.

Si sale con qualche modestissimo passaggio in arrampicata, per arrivare rapidamente sulla cima, annunciata da una figurina sacra in terracotta fissata sulla roccia. 
Lì vicino è anche una targa della polisportiva di Castel del Monte.
Nelle giornate più limpide il belvedere è sorprendente.
La Maiella, il Morrone, le montagne della Marsica.

















Il Sirente, i Simbruini

















Il Velino

















Il Corno Grande, il Prena

















Monte Prena e Monte Camicia











Verso Vado di Sole

venerdì 14 settembre 2012

Montefalco


Arriviamo a Montefalco in una splendida giornata d'estate. La città si stende sul suo colle, ben visibile tra le valli di Tevere e Topino. Terrazza, balcone, o ringhiera dell'Umbria, gli epiteti omaggiano la bella posizione del borgo. Il panorama è suggestivo.
La leggenda fa risalire il nome della città alla presenza di Federico II di Svevia, appassionato di caccia e di falchi, che qui si fermò per qualche tempo.
Anche Herman Hesse rimase affascinato da questo borgo nel quale arrivò, nel suo divagare per l'Italia, quasi per caso nel 1907. Nell'inverno che si attarda il clima non è mite e il vento è gelido ma il luogo incanta il viaggiatore.
Pur essendo situata in posizione ardita e avendo l’aspetto di una rocca fiera e bellicosa, Montefalco è oggi uno dei luoghi più pacifici della Terra, un quieto centro di arte francescana. Sale attraverso l’antica porta una ripida stradina, stretta e buia e ovunque si volga lo sguardo, ovunque si passi, tutto è antico, medioevale, sassoso, freddo e duro. 
Minuscoli vicoli ritagliati fra alte case di pietra grezza, antiche torri, portali, castelli, chiese e mura. Sulla sommità fui accolto da un vento freddo e tagliente. Imbacuccato nel mio mantello, ebbi una visione bella e toccante: oltre un’antica muraglia il paesaggio umbro, verde e luminoso, rinchiuso entro una possente cerchia di alti monti ancora innevati.
Tra le ripide vie e le piazzette del borgo il tempo scorre tranquillo. Cantine e negozietti propongono il celebre vino che dal paese prende nome. I turisti, soprattutto stranieri, sono numerosi ma, sarà suggestione, sembra mancare la frenesia di altri luoghi più famosi.
Ogni tanto uno slargo o un muretto più basso apre il panorama da Assisi a Spoleto. Sulla sommità del colle è la piazza principale con i bei palazzi che la decorano.

Sulle mura della cittadina una lapide ricorda l'omaggio di Gabriele D'Annnunzio, sempre un po' enfatico. Il poeta canta Montefalco tra le città del silenzio.

Montefalco, Benozzo pinse a fresco
giovenilmente in te le belle mura,
ebro d'amor per ogni creatura
viva, fratello al Sol, come Francesco.

Dolce come sul poggio il melo e il pesco,
chiara come il Clitunno alla pianura,
di fiori e d'acqua era la sua pintura,
beata dal sorriso di Francesco.

E l'azzurro non désti anche al tuo biondo
Melanzio, e il verde? Verde d'arboscelli,
azzurro di colline, per gli altari;

sicché par che l'istesso ciel rischiari
la tua campagna e nel tuo cor profondo
l'anima che t'ornarono i pennelli.

È all'interno della chiesa dedicata a San Francesco, oggi trasformata in museo, che si possono vedere gli affreschi di Benozzo Gozzoli.

Continuando il nostro divagare, a circa un chilometro dal borgo, arriviamo al convento di San Fortunato. Immerso in un bel bosco.
 Da qui la cittadina sembra a corona del suo colle.

mercoledì 5 settembre 2012

Sergio Scacchia: Il mio Ararat

Ci sono mille ragioni per mettersi in cammino e mille motivi per divagare sulle montagne. Ognuno sceglie i propri e tutti sono ugualmente legittimi.
Sergio Scacchia cerca sui monti dell'Abruzzo, in un dialogo con il sacro, una risposta ai suoi interrogativi ontologici. È un'impresa rispettabile anche se potrà essere condivisa solo da coloro che desiderano imbarcarsi su quell'Arca approdata sull'Ararat (in Armeno il nome della montagna su cui la tradizione fa approdare l'imbarcazione di Noé significa Creazione di Dio). 
Sergio Scacchia cerca, tra i boschi e le pietre dei monti della Laga e del Gran Sasso un nouvo senso alla sua esistenza. In un lungo trekking, con l'amico Massimiliano Fiorito parte alla scoperta delle Alte terre della regione, decidendo, in un momento chiave della sua vita di mettere alla prova il suo fisico e soprattutto il suo spirito. Un intento legato alla fede quindi, ma non solo.
L'escursione alla scoperta di luoghi perduti è anche il tentativo di ritrovare e di fare conoscere un universo che sta scomparendo: Un itinerario tra paesi e vette alla ricerca di quello che eravamo e di quello che saremo. Perché le tradizioni delle nostre valli, i capolavori di pietra della catena del Gran Sasso, le foreste infinite della Laga, la natura selvatica, sono un concentrato di bellezza che il tempo cerca di cancellare.
È un mondo ancora abitato da uomini e donne sempre meno numerosi ma che non vogliono abbandonare paesini ormai quasi deserti, dove la vita non è facile e dove la bella natura diventa ostile nella lunga stagione invernale.
Da Piano a Vomano a Crognaleto, da Nerito a Pietracamela, verso Santo Stefano di Sessanio e il versante aquilano del massiccio roccioso, per poi tornare verso Castelli e le colline del teramano, Sergio Scacchia e Massimiliano Fiorito abbracciano, in un lungo circuito, la grande montagna che da sempre è magnifico sfondo alla scena di questi paesaggi.
Nel mio viaggio assieme all'amico Massimo – dice Sergio Scacchia – nei posti più nascosti dell'Abruzzo, ho visto spesso gente vivere aggrappata alle sue pietre, persa a volte tra prati sterminati, rubando la sopravvivenza agli umori di Madre Natura. Ho visto i loro volti continuare a tradire l'assoluta devozione, comune e spontanea, alla magia della pietra e del legno. Se provaste a mangiare il loro povero pane di segale e grano saraceno messo a seccare in madie di legno corrose dal tempo, sentireste il sapore di un mondo in bilico tra antica coscienza e ricordi sbiaditi.
Il libro di Sergio Scacchia non è quindi una guida (anche se include un'appendice con alcuni percorsi proposti da Massimiliano Fiorito) ma il diaro di un viaggio e soprattutto degli incontri ricchi di umanità, fatti lungo il cammino. C'è il pastore ancora nomade, contento di avere qualcuno con cui parlare e che snocciola aneddoti e antiche storie, c'è Marino, incontrato sul monte San Franco, esperto del culto dell'acqua miracolosa di quelle grotte, Giuseppe il novantenne che lavorava come arrotino in giro per l'Italia e che tornava d'estate per dare una mano al raccolto, c'è l'uomo dalle rughe che sorridono che non ha mai lasciato il suo borgo, e c'è anche il pastore macedone, arrivato quassù per fare un lavoro che nessuno più vuole.
Sono storie di vita raccontate senza troppo angelismo, a volte con qualche luogo comune, ma certo sempre con sincerità e rispetto. Gente testimone di un passato che si aggrappa e resiste ancora, chissà fino a quando, in questi borghi solitari, dimenticati dal progresso e dalla modernità.
Sergio Scacchia Il mio Ararat La Cassandra edizioni (Pineto TE 2011)