La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



mercoledì 13 marzo 2013

Demetrio Paolin : La seconda persona

Le vie rimangono le stesse. Guardi corso Unione, qui ci si ricorda del tempo che fu, quando tutto era più chiaro. Il torto era torto, il giusto pure: il tempo di corso Unione finì a ottobre, tanti anni fa. La gente sfilava per le strade silenziosa e a tutti sembrò come se il tempo si chiudesse e nient'altro fosse possibile, dopo. E invece siamo ancora qui e siamo reduci...

Il 14 ottobre 1980 qualche migliaio di quadri intermedi Fiat scese in piazza e organizzò un corteo. I «colletti bianchi» protestavano contro i picchetti operai che, da più di un mese, bloccavano le fabbriche della famiglia Agnelli.
Tutto era cominciato il 31 luglio dello stesso anno, Cesare Rominti, amministratore delegato del gruppo Fiat, aveva assunto i pieni poteri e intrapreso una guerra aperta contro i sindacati che esprimevano ancora qualche velleità di opposizione alla sua strategia aziendale. Il 5 settembre, 24000 dipendenti erano stati messi in cassa integrazione e, una settimana dopo, la direzione aveva annunciato più di 14000 licenziamenti.
Tutti coloro che, durante le lotte degli anni Settanta avevano promosso o partecipato attivamente alle iniziative del movimento operaio, facevano parte della lista dei licenziati.
In risposta, il consiglio di fabbrica proclamò lo sciopero a oltranza. Cominciò un durissimo mese di lotta.
Poi, il 14 ottobre, ci fu il raduno, davanti al Teatro Nuovo, di «quelli che volevano lavorare». Fu una manifestazione silenziosa, di gente che non era abituata a sfilare in cortei. Erano fieri di lavorare per la grande fabbrica e, anche in pensione, fieri lo restavano, fino alla morte, quando il loro annuncio necrologico non dimenticava il dato essenziale della loro esistenza: «anziano Fiat». Quella volta, convocati in piazza dalla telefonata del capo, vennero in molti, chi per convinzione, chi per obbedienza o per timore. Per anni avevano rispettato e riverito il padrone e i suoi rappresentanti. Poi avevano chinato ancora la testa ma questa volta di fronte a chi li trattava da crumiri, a chi li insultava quando, davanti ai picchetti che bloccavano i cancelli, tentavano di entrare per riprendere il lavoro. E questo non lo accettavano.
Nel giorno di ottobre si ritrovarono, all'inizio un po' spauriti poi, quando il numero cominciò ad aumentare, rassicurati, riconoscendo nello sguardo degli altri i propri stessi sentimenti. Il corteo attraversò la città, grigio come il cielo di quell'autunno. Silenzioso e triste: un lungo funerale.
La sera, i mass media avevano già deciso chi fossero i vincitori dello scontro. La manifestazione dei quadri diventò «la marcia dei 40000» ed è così che sarà ricordata in futuro. Luigi Arisio, leader del movimento, fino ad allora oscuro travet, avrà l'onore delle prime pagine dei giornali. Sarà in seguito ringraziato da Susanna Agnelli, sorella del padrone-presidente, e senatrice repubblicana, con un posto di deputato nelle file del suo stesso partito.
Il 17 ottobre i sindacati firmarono l'accordo proposto dalla direzione.
Fu la fine dello sciopero alla Fiat (la fine di tutti gli scioperi alla Fiat), la fine del movimento sindacale, delle lotte del movimento operaio degli anni Settanta.
Cominciariono gli anni del craxismo e degli yuppies, delle televisioni berlusconiane e, come disse qualcuno, dell'edonismo reganiano. Al decennio dell'azione collettiva seguì quello del ritorno al privato e dell'individualismo.
Oggi il Lingotto, sede storica della Fiat, è diventato un grande centro commerciale.
A Mirafiori, lo stabilimento dove lavoravano più di cinquantamila persone, i pochi operai restanti si aggirano in immensi spazi deserti.
È qui che arrivano Damiano e Luca dopo aver attraversato la città. Il padre dei due fratelli ha lasciato la madre del primo per andare a vivere con quella del secondo. Muore di cancro. I due si ritrovano percorrendo le strade rettilinee di Torino, la città dove si da del tu alle strade (corso Massimo, corso Vittorio, via Madama). Noleggiano due biciclette, due graziella e decidono di percorrere il perimetro dell'immensa fabbrica in cui il padre aveva lavorato e nella quale aveva militato. Fabbrica nella città e fabbrica-città. Fabbrica prigione.
In un dittico che si dispiega come un monologo interiore, Demetrio Paolin si immerge nella fine del XX secolo attraverso immagini che catalizzano nel simbolo momenti chiave di un mondo che si sgretola e si trasforma. La narrazione non è mai cronaca, si ramifica, prende sentieri di traverso, si ferma, guarda indietro, trova un bigliardino in fondo al bar e il libro sussidiario delle scuole. Luigi Tenco si suicida al festival di Sanremo, là dove la banalità irride sempre le velleità di intelligenza. Suoni e musica che entrano nella fabbrica di parrucche, luogo ambiguo in cui il corpo diventa oggetto. I racconti mescolano Storia, memoria e finzione in una narrazione limpida e intensa, ricca di riflessioni che, quasi senza averne l'aria, prendono la forma di profonda meditazione. 

Transeuropa Edizioni 

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