La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



mercoledì 3 aprile 2013

Carlo Levi, Cesare Pavese e il confino

Carlo Levi nasce a Torino all'inizio del Novecento. Negli anni della sua giovinezza trova in questa città un ambiente culturale molto ricco che il fascismo faticherà a soffocare. Lo zio, Claudio Treves, è uno dei principali dirigenti del Partito Socialista ed è, si dice, grazie a lui che Levi conosce Pietro Gobetti, quasi suo coetaneo, già fortemente impegnato nella vita politica e culturale. Carlo Levi, mentre segue ancora gli studi di medicina, scrive per la rivista di Gobetti Rivoluzione liberale e nello stesso tempo comincia a frequentare l'ambiente dei giovani pittori torinesi, dando nuove basi alla passione della sua vita, la pittura appunto.

Per la sua militanza antifascista (nel 1931 aveva aderito al movimento Giustizia e libertà) è condannato al confino in Lucania, dove resterà un anno tra il 1935 e il 1936.

A Torino Carlo Levi aveva conosciuto tra gli altri anche Cesare Pavese, di qualche anno più giovane. Pavese si interessa e si appassiona alla letteratura e alla poesia soprattutto grazie all'insegnamento di Augusto Monti, suo professore di liceo, seguace anche lui di Pietro Gobetti e convinto degli importanti e necessari legami tra letteratura e etica.

Come Levi, Pavese frequenta i gruppi antifascisti della città, ma il suo impegno non sarà mai strettamente militante. Fatto sta che, durante una perquisizione del suo domicilio, la polizia trova una lettera di Altiero Spinelli, a quel tempo in carcere a Roma, lettera peraltro non destinata a lui ma alla donna dalla voce rauca Tina Pizzardo, con la quale Pavese aveva una complicata relazione. Ciò basta per far scattare l'accusa di antifascismo. Pavese è inviato, come Levi al confino ma a Brancaleone calabro, dove rimarrà un anno.

Carlo Levi e Cesare Pavese sono quindi, malgrado loro, nell'Italia meridionale, praticamente nello stesso periodo e vivono, lontano da Torino, un'esperienza analoga. Entrambi scriveranno un libro, ispirato da questa vicenda: per Levi sarà Cristo si è fermato a Eboli, per Pavese Il carcere.

È sorprendente allora il modo così differente che hanno i due scrittori piemontesi di raccontare il loro viaggio in un'Italia che era loro praticamente sconosciuta. Carlo Levi scrive il suo romanzo all'inizio del 1944, mentre si trova a Firenze è la guerra sembra non voler finire mai. Nel suo libro parla della sua esperienza, ma soprattutto delle cose che ha visto. Descrive una società per molti aspetti arcaica e feudale. Mentre in tutta l'Italia si festeggia l'Impero (il 1935 è l'anno della guerra in Etiopia) e i ricchi notabili pavoneggiano, il popolo analfabeta vive nella miseria e stenta a sopravvivere tra fame e malattie, lontano dalla «civiltà» fermatasi ad Eboli, ultimo avamposto prima di quel mondo dimenticato da Dio. E di fronte all'abbandono, i contadini di Aliano hanno cercato altrove una soluzione per i propri mali. Levi scopre l'importanza della magia e del rito che non snobba come semplici superstizioni ma che osserva con interesse, come un aspetto di quella civiltà contadina che la modenità stava facendo scomparire. Carlo Levi, riconosciuto come medico dai poveri abitanti del posto, entra nelle catapecchie del paese per esercitare una professione che aveva ormai abbandonato. È accolto con riconoscenza, apprezzato per la sua umanità, qualità che mancava ai dottori del paese, descritti come incompetenti ciarlatani. A poco a poco un legame molto forte, fatto di compassione ma anche di simpatia e infine di affetto, lo lega alla gente di Aliano.

Il libro di Carlo Levi non è solo un romanzo. L'autore osserva il mondo che lo circonda con l'occhio di un antropologo attento, scruta, analizza, riflette. La sua opera diventerà un punto di riferimento per quegli studiosi che si occuperanno con nuovo interesse alla cultura contadina del meridione.

Siamo anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime, nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non piú cristiana, stanno di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo dissidio secolare, giunto ora alla sua piú intensa acutezza, e non soltanto in Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e quello del secolo scorso non sarà l’ultimo. Finché Roma governerà Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e tirannica



Tutt'altra disposizione è quella di Cesare Pavese.

Il suo racconto del soggiorno in Calabria è sicuramente meno autobiografico di quello di Carlo Levi, lascia maggior spazio alla fantasia e all'invenzione; un paragone troppo formale sarebbe quindi improprio. Resta però un'impressione di minore apertura al mondo, anzi di uno sguardo che piuttosto di allargarsi verso l'universo che lo circonda, si volge verso il ripiegamento e l'introspezione. I personaggi che ruotano attorno alla figura di Stefano, il confinato, sono osservati sempre con distacco. Manca l'empatia che appare nel libro di Levi. Le loro azioni e le loro parole sono sempre riportate verso Stefano che resta personaggio chiave e, in qualche modo l'unico che ha una vera profondità. È nella solitudine che il protagonista trova la condizione che più lo appaga e sembra avere quasi un sentimento di sollievo quando Giannino, l'unica persona a cui si era legato, va in prigione. E rifiuta di incontrare l'altro confinato,chiudendo simbolicamente ogni velleità di impegno politico. Solo i personaggi femminili assumono un certo rilievo: la donna lasciata al nord, la proprietaria della casa in cui abita, la giovane Concia simbolo di selvaggia vitalità. Ma i rapporti non sono facili, la comunicazione non riesce ad innescarsi.

Nessuno si fa casa di una cella, e Stefano si sentiva sempre intorno le pareti invisibili. A volte, giocando alle carte nell'osteria, fra i visi cordiali o inerti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e precario, dolorosamente isolato, tra quella gente provvisoria, dalle sue pareti invisibili. Il maresciallo che chiudeva un occhio e lo lasciava frequentare l'osteria, non sapeva che Stefano, a ogni ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe tornato a casa.

Ma Il carcere, a differenza di Cristo si è fermato a Eboli non è che un romanzo, se Carlo Levi parla alla prima persona, Stefano non è Cesare, non del tutto almeno.

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