mercoledì 3 aprile 2013
Carlo Levi, Cesare Pavese e il confino
Carlo
Levi nasce a Torino all'inizio del Novecento. Negli anni della sua
giovinezza trova in questa città un ambiente culturale molto ricco
che il fascismo faticherà a soffocare. Lo zio, Claudio Treves, è
uno dei principali dirigenti del Partito Socialista ed è, si dice,
grazie a lui che Levi conosce Pietro Gobetti, quasi suo coetaneo, già
fortemente impegnato nella vita politica e culturale. Carlo Levi,
mentre segue ancora gli studi di medicina, scrive per la rivista di
Gobetti Rivoluzione liberale e
nello stesso tempo comincia a frequentare l'ambiente dei giovani
pittori torinesi, dando nuove basi alla passione della sua vita, la
pittura appunto.
Per
la sua militanza antifascista (nel 1931 aveva aderito al movimento
Giustizia e libertà)
è condannato al confino in Lucania, dove resterà un anno tra il
1935 e il 1936.
A
Torino Carlo Levi aveva conosciuto tra gli altri anche Cesare Pavese,
di qualche anno più giovane. Pavese si interessa e si appassiona
alla letteratura e alla poesia soprattutto grazie all'insegnamento di
Augusto Monti, suo professore di liceo, seguace anche lui di Pietro
Gobetti e convinto degli importanti e necessari legami tra
letteratura e etica.
Come
Levi, Pavese frequenta i gruppi antifascisti della città, ma il suo
impegno non sarà mai strettamente militante. Fatto sta che, durante
una perquisizione del suo domicilio, la polizia trova una lettera di
Altiero Spinelli, a quel tempo in carcere a Roma, lettera peraltro
non destinata a lui ma alla donna dalla voce rauca Tina
Pizzardo, con la quale Pavese aveva una complicata relazione. Ciò
basta per far scattare l'accusa di antifascismo. Pavese è inviato,
come Levi al confino ma a Brancaleone calabro, dove rimarrà un anno.
Carlo
Levi e Cesare Pavese sono quindi, malgrado loro, nell'Italia
meridionale, praticamente nello stesso periodo e vivono, lontano da
Torino, un'esperienza analoga. Entrambi scriveranno un libro,
ispirato da questa vicenda: per Levi sarà Cristo si è fermato a
Eboli, per Pavese Il carcere.
È
sorprendente allora il modo così differente che hanno i due
scrittori piemontesi di raccontare il loro viaggio in un'Italia che
era loro praticamente sconosciuta. Carlo Levi scrive il suo romanzo
all'inizio del 1944, mentre si trova a Firenze è la guerra sembra
non voler finire mai. Nel suo libro parla della sua esperienza, ma
soprattutto delle cose che ha visto. Descrive una società per molti
aspetti arcaica e feudale. Mentre in tutta l'Italia si festeggia
l'Impero (il 1935 è l'anno della guerra in Etiopia) e i ricchi
notabili pavoneggiano, il popolo analfabeta vive nella miseria e
stenta a sopravvivere tra fame e malattie, lontano dalla «civiltà»
fermatasi ad Eboli, ultimo avamposto prima di quel mondo dimenticato
da Dio. E di fronte all'abbandono, i contadini di Aliano hanno
cercato altrove una soluzione per i propri mali. Levi scopre
l'importanza della magia e del rito che non snobba come semplici
superstizioni ma che osserva con interesse, come un aspetto di quella
civiltà contadina che la modenità stava facendo scomparire. Carlo
Levi, riconosciuto come medico dai poveri abitanti del posto, entra
nelle catapecchie del paese per esercitare una professione che aveva
ormai abbandonato. È accolto con riconoscenza, apprezzato per la sua
umanità, qualità che mancava ai dottori del paese, descritti come
incompetenti ciarlatani. A poco a poco un legame molto forte, fatto
di compassione ma anche di simpatia e infine di affetto, lo lega alla
gente di Aliano.
Il
libro di Carlo Levi non è solo un romanzo. L'autore osserva il mondo
che lo circonda con l'occhio di un antropologo attento, scruta,
analizza, riflette. La sua opera diventerà un punto di riferimento
per quegli studiosi che si occuperanno con nuovo interesse alla
cultura contadina del meridione.
Siamo
anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime,
nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e
città, civiltà precristiana e civiltà non piú cristiana, stanno
di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la
sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e
quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo
dissidio secolare, giunto ora alla sua piú intensa acutezza, e non
soltanto in Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non
si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli
della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale
si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e
quello del secolo scorso non sarà l’ultimo. Finché Roma governerà
Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e
tirannica
Tutt'altra
disposizione è quella di Cesare Pavese.
Il
suo racconto del soggiorno in Calabria è sicuramente meno
autobiografico di quello di Carlo Levi, lascia maggior spazio alla
fantasia e all'invenzione; un paragone troppo formale sarebbe quindi
improprio. Resta però un'impressione di minore apertura al mondo,
anzi di uno sguardo che piuttosto di allargarsi verso l'universo che
lo circonda, si volge verso il ripiegamento e l'introspezione. I
personaggi che ruotano attorno alla figura di Stefano, il confinato,
sono osservati sempre con distacco. Manca l'empatia che appare nel
libro di Levi. Le loro azioni e le loro parole sono sempre riportate
verso Stefano che resta personaggio chiave e, in qualche modo l'unico
che ha una vera profondità. È nella solitudine che il protagonista
trova la condizione che più lo appaga e sembra avere quasi un
sentimento di sollievo quando Giannino, l'unica persona a cui si era
legato, va in prigione. E rifiuta di incontrare l'altro
confinato,chiudendo simbolicamente ogni velleità di impegno
politico. Solo i personaggi femminili assumono un certo rilievo: la
donna lasciata al nord, la proprietaria della casa in cui abita, la
giovane Concia simbolo di selvaggia vitalità. Ma i rapporti non sono
facili, la comunicazione non riesce ad innescarsi.
Nessuno
si fa casa di una cella, e Stefano si sentiva sempre intorno le
pareti invisibili. A volte, giocando alle carte nell'osteria, fra i
visi cordiali o inerti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e
precario, dolorosamente isolato, tra quella gente provvisoria, dalle
sue pareti invisibili. Il maresciallo che chiudeva un occhio e lo
lasciava frequentare l'osteria, non sapeva che Stefano, a ogni
ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua
vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui
come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe
tornato a casa.
Ma
Il carcere, a differenza di Cristo si è fermato a Eboli
non è che un romanzo, se Carlo Levi parla alla prima persona,
Stefano non è Cesare, non del tutto almeno.
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