La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 8 giugno 2014

Antonio Gramsci: Piove, governo ladro!

Quando nel 1928 Antonio Gramsci fu giudicato, dopo quasi due anni di detenzione, dal tribunale speciale fascista, il pubblico ministero Isgrò precisò, con una frase rimasta tristemente celebre, il compito che il regime attribuiva a quel processo: per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare. I giudici ubbidirono docilmente condannando l'imputato a vent'anni di reclusione. Gramsci decise che per resistere avrebbe dovuto opporsi all'intento del tribunale, continuando appunto a far funzionare la sua mente per non sparire come un sasso nell'oceano. Fu così che, nel carcere di Turi, cominciò la redazione di quei Quaderni che diventeranno una delle opere più importanti del pensiero contemporaneo. Sì, perché ancora oggi, Antonio Gramsci è uno degli autori italiani più tradotti, letti e studiati nel mondo. Il crollo del blocco sovietico, la cosiddetta “fine delle ideologie”, non hanno messo fine a questo interesse anzi, ne hanno definitivamente mostrato l'originalità e la modernità. Si studia il suo pensiero in India, in Brasile, in Giappone e in Australia. Può sorprendere ma negli Stati Uniti Gramsci, con Dante, è uno degli scrittori italiani considerati essenziali negli studi di italianistica ma è anche indicato dalla destra reazionaria come un ideologo ancora pericoloso e capace di ispirare una rivoluzione sovversiva contro l'America.
La sua prigionia e la sua morte prematura lasciarono ad altri il compito di pubblicare ed interpretare i suoi scritti. Il Partito Comunista volle farne un simbolo dell'ortodossia marxista nella sua lettura più ligia alla strategia stalinista. Per altri egli era un martire non solo del fascismo ma anche dello stalinismo che avrebbe preferito far tacere, o almeno lasciare nell'ombra, un critico troppo scomodo.
Sta di certo che per Antonio Gramsci il marxismo non è mai stato una dottrina, una doxa da utilizzare in modo acritico ma piuttosto uno strumento di analisi della società, capace di dare linee di interpretazione necessarie ma non sufficienti per la comprensione della società umana.
Non a caso, dopo il successo della rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia, Gramsci aveva scritto per il quotidiano L'Avanti, un editoriale intitolato: La rivoluzione contro “Il Capitale” (il libro di Karl Marx) nel quale, rifiutando ogni determinismo storico, sottolineava che Il Capitale era in Russia il libro della borghesia e che se si fossero seguite schematicamente le sue tesi la rivoluzione proletaria non avrebbe dovuto aver luogo prima di un'evoluzione borghese di tipo occidentale. I fatti avevano invece fatto saltare in aria lo schema previsto.
Un concetto essenziale era per Gramsci quello dell'egemonia culturale. Analizzando la situazione italiana egli pensava che il potere dei partiti reazionari si basasse, più che sulla forza, sulla capacità di controllare gli strumenti della cultura (intesa in senso molto largo). Per questo considerava che il compito di un movimento progressista dovesse essere prima di tutto quello di sottrarre il popolo da questa egemonia. Da qui nasce il suo interesse per l'analisi e la critica delle espressioni culturali destinate al popolo e di solito considerate con un semplice sdegno dal mondo intellettuale.
Tra il 1916 e il 1918, Antonio Gramsci scrisse una serie di articoli per l'edizione torinese de L'Avanti. La rubrica, intitolata Sotto la Mole, si occupava di fatti di società o di costume, critiche teatrali, critiche e polemiche editoriali. Sempre con un linguaggio libero, spesso ironico, Gramsci osserva la società torinese e ne svela i meccanismi mentali, propone delle considerazioni morali che ancora oggi sono di attualità.
Una raccolta di quegli scritti è stata pubblicata dagli Editori Riuniti con il titolo: Piove, governo ladro!
L'indifferenza:
È invero la molla più forte della storia. Ma a rovescio. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto di valore può generare, non è tutto dovuto all'iniziativa dei pochi che fanno, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa dei cittadini abdica alla sua volontà, e lascia fare, e lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada può tagliare, e lascia salire al potere degli uomini che poi solo un ammutinamento può rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia è appunto l'apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. [...]

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