sabato 28 febbraio 2015
Herman Melville: Moby Dick tra Pavese e Giono
Chiamatemi Ismaele. Alcuni
anni fa, - non importa esattamente quanti, - avendo poco o punto
denaro nella mia borsa e nulla di particolare che mi trattenesse a
terra, pensai di andarmene navigando un poco in giro a vedere la
parte del mondo coperta dalle acque. È questo un modo che uso per
scacciare l'umor nero e per regolare la circolazione. Quando
m'accorgo che mi si va formando una piega arcigna intorno alla bocca;
quando nel mio animo v'è un umido piovigginoso novembre, quando mi
vedo involontariamente sostare davanti ai negozi di casse da morto e
mettermi in coda ad ogni funerale in cui mi imbatto, e specialmente
quando l'ipocondria prende un tale sopravvento su di me, che io debba
ricorrere ad un forte principio morale per impedirmi di scendere
deliberatamente in strada per far regolarmente volar via dalla testa
della gente il cappello; allora giudico che sia gran tempo di andar
per mare quanto più presto possibile. Questo è il mio surrogato
della pistola e della pallottola.*
È uno degli incipit plus famosi della letteratura. Famoso a giusto titolo, e magnifico, con quella entrata così secca e concisa, in due parole. Un narratore che in realtà non si presenta, non ci dice chi è ma solo come vuole essere chiamato. E il riferimento biblico immediatamente ci trasporta nell'universo del mito e dei simboli: Ismaele, è il figlio illegittimo di Abramo, colui che troverà da solo la forza per sopravvivere nel deserto. Poi, dopo questa stoccata, l'attacco si srotola con il succedersi di onde portate dal ripetersi del quando in anafora. Sembra già di essere in alto mare. Una musicalità straordinaria; difficile dirne qualcosa di originale tanto gli studiosi ne hanno scandagliato la prosa, si corre il rischio, è evidente, di scadere nella banalità del commento.
Moby Dick è un libro mondo, dai molteplici livelli di lettura. Ognuno può scegliere il proprio: romanzo d'avventura, riflessione metafisica, analisi psicologica dell'animo umano… Ma ogni volta il lettore attento, preso nelle vicende del Pequod, si renderà conto che il libro non è solo questo.
Leggete Melville, -ci consiglia Cesare Pavese- che non si vergogna di cominciare Moby Dick, il poema della vita barbara, con otto pagine di citazioni, e di andare innanzi discutendo, citando ancora, facendo il letterato, e vi si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più vivo e più uomo.
Ed in effetti Melville non ha paura di cominciare con una pagina sull'etimologia della parola whale, con una serie di estratti, raccolti da un sostituto sostituto bibliotecario, di sospendere la narrazione per inserire un trattato di cetologia; di intercalare passaggi di scrittura teatrale.
Dice Agostino Lombardo, -che è stato uno dei maggiori studiosi italiani della letteratura anglosassone-, nella sua prefazione all'edizione De Agostini dell'opera: Riesce persino difficile usare il termine romanzo, perché Moby Dyck si carica di elementi di narrativa e tragedia, poema in prosa e oratoria, allegoria dell'uomo alla ricerca di se stresso ed esplorazione del mistero.
Pavese è stato il primo traduttore italiano di Moby Dick. Erano gli anni del fascismo autarchico, interessarsi alla letteratura americana era di per sé un atto rivoluzionario. E negli stessi anni Trenta lo scrittore Jean Giono fa un simile lavoro in francese. Pavese e Giono, entrambi poeti della Collina, le Langhe per il primo, quelle della Provenza per il secondo. I due scrittori sono affascinati dall'epopea della balena bianca, la leggono e traducono nello stesso periodo. E in entrambi il paesaggio collinare diventa metafora dei mari ondeggianti, dei grandi spazi, dei mondi lontani. Giono scriverà anche un libro: “Pour saluer Melville” omaggio empatico allo lo scrittore americano:
La traduzione di Moby Dick di Herman Melville […], cominciata il 16 novembre 1936 è stata terminata il 10 dicembre 1939. Ma ben prima di cominciare questo lavoro, per almeno cinque o sei anni, il libro è stato il mio compagno forestiero. Lo portavo regolarmente con me nei miei giri sulle colline. Così in momenti in cui spesso abbordavo le grandi solitudini, ondulate come il mare ma immobili, bastava che mi sedessi, la schiena contro il tronco di un pino, che tirassi fuori dalla tasca il libro che già sciabordava per sentire gonfiarsi sotto di me e attorno la molteplice vita dei mari. Quante volte, sul mio capo, ho sentito fischiare il cordame, la terra muoversi sotto i miei piedi come le assi di una baleniera, il tronco del pino gemere e ondulare contro la mia schiena come un albero di nave, pesante di vele sventolanti. Alzando gli occhi dalla pagina, mi è sovente sembrato che Moby Dick soffiasse laggiù davanti, al di là della schiuma degli ulivi, nel ribollire delle grandi querce.***
In Pavese la relazione al mare è più complessa. Esso è presente, ma più immaginato che reale, un altrove mitico, al di là dell'ultima collina, dove i treni arrivano nei porti e le navi fanno continuare il viaggio. Perché per lui quello marino è nella realtà un universo se non ostile, desolato, come quello di Brancaleone Calabro dov'era stato in confino: Il mare, già antipatico d'estate, d'inverno poi è innominabile: alla sera tutto giallo di sabbia smossa; al largo, d'un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello di Ulisse: figurarsi gli altri.** Ed ancora in una lettera ad Augusto Monti: Lei sa come odi il mare; mi piace nuotare però mi serviva molto meglio il Po. Ma a parte il nuotare, che del resto è già finito, trovo indegno della gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte odore di pesce.**
Ma quando come in Melville il mare è impeto e tempesta, quando le onde sono come colline, il discorso cambia. La lotta epica del capitano Ahab e del suo equipaggio assume i toni di un mito che sorge dal mondo antico, atemporale e grandioso. Mito che ispira anche il Pavese poeta. In una delle sue poesie più belle: I mari del sud, troviamo una scena che ricorda da vicino la storia della balena bianca.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
*Herman Melville Moby Dick Traduzione di Renato Ferrari Ed; De Agostini
**Citato da Muriel Gallot Pavese: paese e paesaggio.
***Jean Giono Pour saluer Melville Ed. Gallimard
È uno degli incipit plus famosi della letteratura. Famoso a giusto titolo, e magnifico, con quella entrata così secca e concisa, in due parole. Un narratore che in realtà non si presenta, non ci dice chi è ma solo come vuole essere chiamato. E il riferimento biblico immediatamente ci trasporta nell'universo del mito e dei simboli: Ismaele, è il figlio illegittimo di Abramo, colui che troverà da solo la forza per sopravvivere nel deserto. Poi, dopo questa stoccata, l'attacco si srotola con il succedersi di onde portate dal ripetersi del quando in anafora. Sembra già di essere in alto mare. Una musicalità straordinaria; difficile dirne qualcosa di originale tanto gli studiosi ne hanno scandagliato la prosa, si corre il rischio, è evidente, di scadere nella banalità del commento.
Moby Dick è un libro mondo, dai molteplici livelli di lettura. Ognuno può scegliere il proprio: romanzo d'avventura, riflessione metafisica, analisi psicologica dell'animo umano… Ma ogni volta il lettore attento, preso nelle vicende del Pequod, si renderà conto che il libro non è solo questo.
Leggete Melville, -ci consiglia Cesare Pavese- che non si vergogna di cominciare Moby Dick, il poema della vita barbara, con otto pagine di citazioni, e di andare innanzi discutendo, citando ancora, facendo il letterato, e vi si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più vivo e più uomo.
Ed in effetti Melville non ha paura di cominciare con una pagina sull'etimologia della parola whale, con una serie di estratti, raccolti da un sostituto sostituto bibliotecario, di sospendere la narrazione per inserire un trattato di cetologia; di intercalare passaggi di scrittura teatrale.
Dice Agostino Lombardo, -che è stato uno dei maggiori studiosi italiani della letteratura anglosassone-, nella sua prefazione all'edizione De Agostini dell'opera: Riesce persino difficile usare il termine romanzo, perché Moby Dyck si carica di elementi di narrativa e tragedia, poema in prosa e oratoria, allegoria dell'uomo alla ricerca di se stresso ed esplorazione del mistero.
Pavese è stato il primo traduttore italiano di Moby Dick. Erano gli anni del fascismo autarchico, interessarsi alla letteratura americana era di per sé un atto rivoluzionario. E negli stessi anni Trenta lo scrittore Jean Giono fa un simile lavoro in francese. Pavese e Giono, entrambi poeti della Collina, le Langhe per il primo, quelle della Provenza per il secondo. I due scrittori sono affascinati dall'epopea della balena bianca, la leggono e traducono nello stesso periodo. E in entrambi il paesaggio collinare diventa metafora dei mari ondeggianti, dei grandi spazi, dei mondi lontani. Giono scriverà anche un libro: “Pour saluer Melville” omaggio empatico allo lo scrittore americano:
La traduzione di Moby Dick di Herman Melville […], cominciata il 16 novembre 1936 è stata terminata il 10 dicembre 1939. Ma ben prima di cominciare questo lavoro, per almeno cinque o sei anni, il libro è stato il mio compagno forestiero. Lo portavo regolarmente con me nei miei giri sulle colline. Così in momenti in cui spesso abbordavo le grandi solitudini, ondulate come il mare ma immobili, bastava che mi sedessi, la schiena contro il tronco di un pino, che tirassi fuori dalla tasca il libro che già sciabordava per sentire gonfiarsi sotto di me e attorno la molteplice vita dei mari. Quante volte, sul mio capo, ho sentito fischiare il cordame, la terra muoversi sotto i miei piedi come le assi di una baleniera, il tronco del pino gemere e ondulare contro la mia schiena come un albero di nave, pesante di vele sventolanti. Alzando gli occhi dalla pagina, mi è sovente sembrato che Moby Dick soffiasse laggiù davanti, al di là della schiuma degli ulivi, nel ribollire delle grandi querce.***
In Pavese la relazione al mare è più complessa. Esso è presente, ma più immaginato che reale, un altrove mitico, al di là dell'ultima collina, dove i treni arrivano nei porti e le navi fanno continuare il viaggio. Perché per lui quello marino è nella realtà un universo se non ostile, desolato, come quello di Brancaleone Calabro dov'era stato in confino: Il mare, già antipatico d'estate, d'inverno poi è innominabile: alla sera tutto giallo di sabbia smossa; al largo, d'un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello di Ulisse: figurarsi gli altri.** Ed ancora in una lettera ad Augusto Monti: Lei sa come odi il mare; mi piace nuotare però mi serviva molto meglio il Po. Ma a parte il nuotare, che del resto è già finito, trovo indegno della gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte odore di pesce.**
Ma quando come in Melville il mare è impeto e tempesta, quando le onde sono come colline, il discorso cambia. La lotta epica del capitano Ahab e del suo equipaggio assume i toni di un mito che sorge dal mondo antico, atemporale e grandioso. Mito che ispira anche il Pavese poeta. In una delle sue poesie più belle: I mari del sud, troviamo una scena che ricorda da vicino la storia della balena bianca.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
*Herman Melville Moby Dick Traduzione di Renato Ferrari Ed; De Agostini
**Citato da Muriel Gallot Pavese: paese e paesaggio.
***Jean Giono Pour saluer Melville Ed. Gallimard
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