La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



lunedì 20 aprile 2020

Dante Alighieri camminatore.



Se ci sono delle passeggiate che assomigliano a libri, il contrario non è meno vero e conosciamo grandi libri che per descrivere un universo ricorrono all’attività “interpretativa” del camminare.
L’esempio più compiuto è la Divina Commedia in cui Dante, guidato da Virgilio, intraprende l’esplorazione dei tre soggiorni dell’anima dopo la morte. Sorta di racconto di viaggio soprannaturale, la Divina Commedia avanza con l’andatura regolare dell’escursione, senza indugiare più del necessario davanti alle visioni o ai personaggi incontrati in cammino. (Rebecca Solnit, Storia del camminare)
Parlare di Dante è come mettersi in cammino. Ci si può perdere nell’immensità del suo universo, con immagini che arrivano a noi da tempi lontani e luoghi sconosciuti. Così è la forma poetica che ci attrae verso mondi ogni volta ancora da scoprire.
Leggere Dante è come partite per un’esplorazione sapendo che è l’infinito che si ha davanti ai nostri occhi ma un infinito umanizzato, a misura d’uomo.
E lo stesso poeta che ci fa da guida, percorre geografie che si sovrappongono, incrociano le loro tracce, i loro simboli.
C’è la carta del viaggio che sembra intrapreso per caso, quel “mi ritrovai per una selva oscura” non si sa come né perché; il colle interdetto dalle tre belve minacciose, poi il regno ultraterreno, quello dei dannati, scavato nella materialità del cuore del globo terrestre, il monte del Purgatorio fatto della roccia e della terra tolta dall’imbuto infernale, e poi il mondo aereo delle stelle, più evanescente e luminoso nel suo involucro ma anch’esso sostanziale e tangibile.
Una geografia concreta, tanto che molte edizioni della Commedia associano al testo le cartine dei luoghi visitati.
Ma durante il viaggio appaiono, evocate dallo stesso Dante o dalle ombre che egli interpella, altre contrade, altri paesi, percorrendo, quasi a volo di uccello, il mondo conosciuto: dalle Fiandre a Gibilterra, dall’Umbria a Gerusalemme.
Questa mappa si sovrappone alla prima, si intreccia con essa là dove le figure la percorrono e la narrano.
E infine c’è la mappa del viaggio terreno di Dante, quella dell’esule scacciato dalla propria patria, da una corte all’altra dell’Italia del suo tempo, lontano da Firenze.
Una vita da pellegrino, viaggiatore, rifugiato. La sua poesia nasce da questa condizione, non ne è il racconto – non solo – ne è la conseguenza, il frutto.
Diceva di lui il poeta russo Ossip Mandel’stam:
Leggere Dante è soprattutto uno sforzo infinito che, nella misura in cui è coronato dal successo, ci allontana dall’obiettivo. Se una prima lettura ci toglie il fiato e ci provoca una sana stanchezza, bisogna attrezzarsi per le seguenti, di un paio di inusabili scarponi da montagna con le suole chiodate. Non è per scherzo se chiedo quante suole Alighieri abbia usato, quante scarpe in pelle di bue, quanti sandali, per tutto il tempo che è durato il suo lavoro poetico, camminando sui sentieri per capre dell’Italia.
L’Inferno, e più in particolare il Purgatorio, celebrano la falcata dell’uomo, la lunghezza della scala e il ritmo dei suoi passi, la pianta del piede e la sua forma. Il passo, coniugato al soffio, saturo di pensieri. Dante vede in esso la fonte della prosodia. Usa, per definire il camminare, un gran numero di formule, varie ed avvincenti. Filosofia e poesia sono, in Dante sempre in cammino, sempre a piedi. La sosta essa stessa è un’altra figura del movimento che si raccoglie: una tappa propizia al dialogo che si conquista con degli sforzi di alpinista.

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