La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 28 maggio 2011

Leopardi: La ginestra e il Vesuvio

LA GINESTRA
O IL FIORE DEL DESERTO
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme.

È importante questo canto di Leopardi. Non solo per la sua bellezza e per la sua complessità ma soprattutto per il messaggio che il poeta lascia agli uomini poco prima di morire. A lungo si è parlato, e si parla ancora, di Giacomo Leopardi come del poeta del pessimismo disperato, incapace di uscire dall'oscurità di un pensiero negativo e senza speranza. Lettura facile ma non esatta. I lettori più attenti hanno sottolineato la forza positiva dei suoi versi, anche quando, in superficie, questi lasciano apparire solo pena e tristezza.
E anche Francesco De Sanctis che non era certo tenero nel suo giudizio sul poeta, in qualche modo lo aveva capito: questo uomo odia la vita e te la fa amare, dice che l'amore e la virtù sono illusioni, e te ne accende nell'anima un desiderio vivissimo.

Il poeta compone La ginestra nel 1836 a Torre del Greco, ultima sua residenza, dettandola al suo amico Antonio Ranieri.
Descrive un paesaggio di desolazione, sul quale incombe l'ombra terribile del Vesuvio. Lo sterminatore ha già colpito gli uomini e le loro velleità di felicità e di progresso ed è sempre là, angosciante e opprimente, per ricordare a tutti la vanità di ogni speranza nel futuro.
Ma è proprio da questa filosofia disperata ma vera, capace di rigettare un paradiso illusorio, sia esso celeste o terreno, che nasce, non l'abbandono e l'inerzia, ma l'invito ad un agire più consapevole. 

Si è parlato di testamento leopardiano. Chissà. Certo il poeta non poteva sapere di essere così vicino alla morte al punto da voler lanciare un appello definitivo. Magari La ginestra è, più che una conclusione, l'inizio di un nuovo ciclo nella ricerca del poeta-filosofo, ciclo rimasto sospeso.
C'è il richiamo rivolto al genere umano a guardare la realtà con una consapevolezza nuova, ad abbandonare i vecchi miti e ad accettare coraggiosamente la verità ma c'è anche, e soprattutto, l'invito agli uomini, sull'esempio dello stoico fiore del deserto ad unirsi in una società solidare e consapevole. 

Poesia e filosofia si intrecciano nell'opera di Leopardi. Nietzche, che lo considerava tra i pensatori più importanti, l'aveva ben capito. La messa in variazione delle due discipline, lascia emergere una parola che sa trascendere ogni classificazione e ogni genere, al di là di ogni stile, verso qualcosa di unico e di mai udito prima.

Eccole Pompei ed Ercolano,
Città famose
che coi torrenti suoi l'altero monte
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme.
Oggi quasi parchi d'attrazione in cui decine di torpedoni riversano ogni giorno comitive di turisti.
Tra attenti visitatori, scolaresche un po' annoiate e veloci gruppi al seguito dell'ombrello colorato della guida, qualche operaio è al lavoro. Sì perchè, riportate alla luce, le antiche costruzioni hanno ripreso a subire il degrado del tempo, interrotto nei secoli di sepoltura ma oggi aggravato dal continuo via vai di chi è spesso poco rispettoso di quelle vecchie pietre. Alcune strade dell'antica città sono bloccate, gli ultimi crolli sono molto recenti. Restaurare costa e l'Italia di oggi ha altre priorità.
Qualche cane passaggia tra le rovine. Sembrano randagi ma la medaglietta appesa al collare dice che appartengono al sito archeologico. Fanno parte dell'iniziativa (C)ave canem che cerca, non senza polemiche, di risolvere il problema del randagismo.

Sullo sfondo, il cono del Vesuvio non fuma più (l'eruzione del 1944 chiuse il camino).
La strada che porta alla vetta è ingombra di Pullman che arrancano con difficoltà sugli strettissimi tornanti (sembra che per gli autisti sia una sfida quella di arrivare fino in alto senza dover fare manovre, ma sono pochi quelli che ci riescono).
Si arriva ad un piccolo spiazzo sul quale, scaricate dagli autobus, le comitive si accalcano. 
Dialoghi in tutte le lingue mentre ad uno sportello un impiegato vende i biglietti per accedere al cratere. Ci sono ancora una ventina di minuti di salita, questa volta a piedi, prima di arrivare sul bordo del vulcano. 

Si cammina sulla lava. In basso il panorama si apre sul golfo di Napoli. Il mare brilla dei riflessi del sole.
Il Vesuvio non fa paura, la montagna sembra riposare.
Ma un filo di fumo sale, a mo' di monito, tra le pietre.


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