sabato 13 agosto 2011
Lo zio d'America
Non ricordo se il suo arrivo fosse previsto. Lo vidi alla porta e non lo riconobbi. Era l'autunno del 1965, io non avevo ancora compiuto 6 anni e moi zio, tornando dalla Germania, dov'era andato in cerca di lavoro, passò a trovarci.
Abitavamo a Pont Canavese, in Piemonte, dove sboccano le strette valli dei torrenti Orco e Soana che qui si uniscono per scorrere insieme verso il Po. Mio padre aveva lasciato le montagne d'Abruzzo per queste altre ma soprattutto per un lavoro, duro e faticoso, in fonderia; mia madre arrotondava i fine mese aiutando nelle cucine di un noto ristorante del posto.
La piccola comunità abruzzese (quasi tutta originaria dello stesso paese) era all'epoca molto solidale. Ci si ritrovava spesso, per feste o avvenimenti, felici o dolorosi.
Lo zio fu accolto da tutti. Si organizzarono bicchierate e chiacchierate. In quel gruppo di operai, lui che era sarto, sempre vestito con una certa eleganza, si faceva notare. A Castel del Monte aveva lasciato la sua bottega, un locale nel centro medievale del paese ed aveva deciso di andare all'estero in cerca di un posto dove svolgere con più profitto e soddisfazione il suo mestiere. Ma probabilmente il tentativo in Germania non era stato molto proficuo.
Aveva una macchina fotografica ed anche questa era per noi una novità. Oggi guardando quelle fotografie in bianco e nero, un po' sbiadite, con i bordi dentellati come si usava a quel tempo, sembra che siano passati dei secoli.
Abitavamo in un piccolo appartamento sotto i portici di via Caviglione. Portici di montagna, bassi e scuri ma che a me sembravano grandissimi. Per noi bambini erano un parco di divertimento, cosa che a volte infastidiva un po' i negozianti che vi esponevano le loro mercanzie.
Mentre i miei genitori erano al lavoro lo zio restava con me e la cosa mi pareva eccezionale. Fu lui che mi insegnò ad andare in bicicletta, proprio sotto quei portici; prima tolse una delle due rotelle che servivano per mantenermi in equilibrio, dopo qualche tentativo e qualche caduta tolse anche l'altra e a al ritorno dei miei genitori potei annunciare orgoglioso la novità.
Fu ancora lui ad accompagnarmi il primo giorno di scuola, io con il mio grembiule nero, fiero e nello stesso tempo intimorito da quel palazzo che mi sembrava imponente.
Un giorno andammo a cogliere castagne nei boschi vicini. Lo zio aveva una grossa radio a pile e la portò con sé. Ascoltando la musica (era un'appassionato di opera lirica) avevamo quasi riempito una borsa quando un contadino passando ci fece notare che i castagni avevano un padrone. Lo zio imbarazzato e confuso volle pagare la nostra raccolta ma l'uomo si allontanò senza altri commenti.
Quando andò via da Pont andammo ad accompagnarlo alla stazione ferroviaria da dove partiva la littorina (già, all'epoca la si chiamava ancora così) per Torino.
Mi lasciò per ricordo una fonovaligia di legno, di quelle che avevano l'altoparlante nel coperchio. Fu su quell'apparecchio che ascoltai i primi dischi che mia madre comprava d'occasione quando venivano sostituiti nel jukebox del bar del ristorante dove lavorava.
Qualche tempo dopo, dall'Abruzzo dov'era tornato, lo zio partì per l'America. Fu un viaggio particolare, a bordo della Raffaello, che con la Michelangelo era il transatlantico orgoglio della marina italiana. Particolare anche perché, a causa di un'avaria, la nave dovette fare dietro front e tornare a Genova dopo qualche giorno di navigazione. Ricevemmo una foto polaroid dallo zio insieme all'articolo di un giornale americano che parlava dell'incidente (ma noi non frequentavamo molti anglofoni e mai nessuno fu capace di capire che cosa c'era veramente scritto su quel foglio).
Da Rochester, nello stato di New York, dove si era stabilito con la famiglia non tornò in Italia che due volte, per qualche giorno. Ci mandava ogni tanto qualche lettera e qualche fotografia (non avevamo il telefono). In una delle ultime lo si vedeva orgoglioso davanti ad una serie di abiti da uomo appesi alle grucce.
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