La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



lunedì 29 agosto 2011

In Borgogna: Chablis

Eccoci ora a Chablis. Il nome del paese è conosciuto in tutto il mondo. Non è raro, tra le stradine del centro storico, sentire parlare diverse lingue straniere.
Ristoranti di qualità si alternano ad alberghi di un certo livello. Non mancano i negozi di antiquariato. Tutto sembra fatto per accogliere una clientela agiata e danarosa.
Di fronte al paese le colline sono anche qui coperte di vigne. Sulla cresta una bruttissima scritta in lettere giganti scimmiotta quella di Hollywood.
Saliamo sulla via che attraversa i filari. I grappoli d'uva sono ancora in formazione.
Arrivati al limite più alto delle vigne entriamo nel bosco per poi uscirne quasi subito. Il panorama è bello sul paese, spicca, al centro, la chiesa con il classico campanile borghignone.
Le foglie delle viti di un bel verde scuro sono a tratti ingiallite. Il viticultore spiega che si tratta di una malattia: il court-noué. La vite deperisce e il terreno è infettato fino a un metro e mezzo di profondità. Non ci sono soluzioni; neanche estirpando la pianta perché il virus resta nel terreno. Fortunatamente la malattia resta molto localizzata.
Continuiamo la passeggiata, attraversando il paesino di Fleys e inerpicandoci sul Mont du milieu. La collina, sulla riva destra del torrente Serein e che un tempo segnava il confine tra Borgogna e Champagne è anch'essa coperta di vigne esposte a sud est. È qui, con il nome del luogo, che si produce uno dei grands crus dello chablis.
Risalita la costa, prima abbastanza ripida poi più dolce, ci addentriamo nel bosco per scavalcare la cresta e scendere dall'altro lato. Un cippo sulla sommità ricorda il confine tra i due ducati.
Il percorso si prolunga tra vigne e campi per arrivare a Chichée.
Qui facciamo una sosta per visitare una cantina ed assaggiare il nettare del posto.
Il ritorno a Chablis si fa lungo quello che fu il vecchio tracciato della ferrovia.

domenica 21 agosto 2011

In Borgogna: Irancy

Una serie ininterrotta di placide colline mai superiori ai 300 metri; solo le più alte impennacchiate da boschetti. Lunghi filari di vigne esposti a sud. Una terra argillosa e a tratti pietrosa. L'Yonne, il fiume che dà il nome al dipartimento, ha un bel corso, tranquillo e abbondante. L'affluente della Senna reggiungerà il suo gemello prima di arrivare a Parigi (alla confluenza i due fiumi hanno una portata quasi analoga, anzi, in teoria l'affluente sarebbe la Senna).

Siamo nella parte più settentrionale della Borgogna, ricca regione il cui ducato fu un tempo potente rivale del regno di Francia.
Da queste parti passa anche un ramo della via che porta a Santiago di Compostella. Nel rifugio che ci accoglie, a Saint Cyr les Colons, il «libro d'oro» conserva i messaggi dei pellegrini che qui hanno fatto una sosta.
Qui le vigne sono preziose. Il vino che se ne produce è rinomato e apprezzato.
Il paesino di Saint Cyr si trova al confine di due zone viticole: a est quella dello Chablis, quotato vino bianco, a ovest l'Irancy, rosso di grande fama.
Di origine romana la cultura del vino fu perpetuata da monaci e religiosi in generale: il vino è indispensabile durante la messa ed è soprattutto fonte di ricchezza, non solo spirituale.
La prima camminata parte da Saint-Bris-le-Vineux. Il paese, che deve al vino anche il nome, è a mezza costa, al centro di una bella campagna. L'architettura è quella tipica della Borgogna: pietra bianca e la piccole tegole quasi quadrate sui tetti.
Uno strano cartello non incoraggia certo il viandante assetato.
Andiamo verso Irancy, il comune all'origine della denominazione.
Il sentiero a volte si perde. Allora bisogna inventarsi un passaggio tra campi di soia e di grano. Più in là ritroviamo le vigne e poi numerosi ciliegi. Questi ultimi sono potati molto bassi, così che i frutti si possano cogliere senza bisogno di scale. Si cammina su un terreno argilloso che si incolla alle scarpe. 
Solo tra le vigne domina la pietra calcarea.
Il percorso è piacevole. I saliscendi sulle colline offrono panorami sempre diversi. Dominano il blu del cielo il bianco delle nuvole e il verde delle vigne e dei boschi. In lontananza, a tratti, si vede l'Yonne scorrere tra gli alberi nella valle.
Irancy appare, in una splendida posizione, al centro di un anfiteatro naturale coperto di viti.

È un paese non molto grande, sonnacchioso nel caldo del mezzogiorno di giugno. Uno strano manifesto ricerca eventuali avvistatori di UFO. 
Le insegne che invitano ad entrare nelle cantine per l'assaggio del vino sono numerose.
Anche noi cediamo all'invito. L'uva di Pinot nero dalla buccia nera e dalla polpa bianca è alla base di tutti i grandi vini rossi della regione. Per l'Irancy si aggiunge (un massimo di 10%) il César portato fin qui, dice la leggenda, dalle legioni romane. 
È un vino fruttato, che pare ricco al palato e che lascia un lungo e bel ricordo dopo l'assaggio.
La via del ritorno appare leggera e i panorami sembrano più vivi.

sabato 13 agosto 2011

Lo zio d'America

Non ricordo se il suo arrivo fosse previsto. Lo vidi alla porta e non lo riconobbi. Era l'autunno del 1965, io non avevo ancora compiuto 6 anni e moi zio, tornando dalla Germania, dov'era andato in cerca di lavoro, passò a trovarci.
Abitavamo a Pont Canavese, in Piemonte, dove sboccano le strette valli dei torrenti Orco e Soana che qui si uniscono per scorrere insieme verso il Po. Mio padre aveva lasciato le montagne d'Abruzzo per queste altre ma soprattutto per un lavoro, duro e faticoso, in fonderia; mia madre arrotondava i fine mese aiutando nelle cucine di un noto ristorante del posto.
La piccola comunità abruzzese (quasi tutta originaria dello stesso paese) era all'epoca molto solidale. Ci si ritrovava spesso, per feste o avvenimenti, felici o dolorosi.
Lo zio fu accolto da tutti. Si organizzarono bicchierate e chiacchierate. In quel gruppo di operai, lui che era sarto, sempre vestito con una certa eleganza, si faceva notare. A Castel del Monte aveva lasciato la sua bottega, un locale nel centro medievale del paese ed aveva deciso di andare all'estero in cerca di un posto dove svolgere con più profitto e soddisfazione il suo mestiere. Ma probabilmente il tentativo in Germania non era stato molto proficuo.
Aveva una macchina fotografica ed anche questa era per noi una novità. Oggi guardando quelle fotografie in bianco e nero, un po' sbiadite, con i bordi dentellati come si usava a quel tempo, sembra che siano passati dei secoli.
Abitavamo in un piccolo appartamento sotto i portici di via Caviglione. Portici di montagna, bassi e scuri ma che a me sembravano grandissimi. Per noi bambini erano un parco di divertimento, cosa che a volte infastidiva un po' i negozianti che vi esponevano le loro mercanzie.
Mentre i miei genitori erano al lavoro lo zio restava con me e la cosa mi pareva eccezionale. Fu lui che mi insegnò ad andare in bicicletta, proprio sotto quei portici; prima tolse una delle due rotelle che servivano per mantenermi in equilibrio, dopo qualche tentativo e qualche caduta tolse anche l'altra e a al ritorno dei miei genitori potei annunciare orgoglioso la novità.
Fu ancora lui ad accompagnarmi il primo giorno di scuola, io con il mio grembiule nero, fiero e nello stesso tempo intimorito da quel palazzo che mi sembrava imponente.
Un giorno andammo a cogliere castagne nei boschi vicini. Lo zio aveva una grossa radio a pile e la portò con sé. Ascoltando la musica (era un'appassionato di opera lirica) avevamo quasi riempito una borsa quando un contadino passando ci fece notare che i castagni avevano un padrone. Lo zio imbarazzato e confuso volle pagare la nostra raccolta ma l'uomo si allontanò senza altri commenti.
Quando andò via da Pont andammo ad accompagnarlo alla stazione ferroviaria da dove partiva la littorina (già, all'epoca la si chiamava ancora così) per Torino.
Mi lasciò per ricordo una fonovaligia di legno, di quelle che avevano l'altoparlante nel coperchio. Fu su quell'apparecchio che ascoltai i primi dischi che mia madre comprava d'occasione quando venivano sostituiti nel jukebox del bar del ristorante dove lavorava.
Qualche tempo dopo, dall'Abruzzo dov'era tornato, lo zio partì per l'America. Fu un viaggio particolare, a bordo della Raffaello, che con la Michelangelo era il transatlantico orgoglio della marina italiana. Particolare anche perché, a causa di un'avaria, la nave dovette fare dietro front e tornare a Genova dopo qualche giorno di navigazione. Ricevemmo una foto polaroid dallo zio insieme all'articolo di un giornale americano che parlava dell'incidente (ma noi non frequentavamo molti anglofoni e mai nessuno fu capace di capire che cosa c'era veramente scritto su quel foglio).
Da Rochester, nello stato di New York, dove si era stabilito con la famiglia non tornò in Italia che due volte, per qualche giorno. Ci mandava ogni tanto qualche lettera e qualche fotografia (non avevamo il telefono). In una delle ultime lo si vedeva orgoglioso davanti ad una serie di abiti da uomo appesi alle grucce.

mercoledì 3 agosto 2011

Alba Fucens

Non si incontrano molti visitatori sul sito di Alba Fucens. Poco conosciuta e poco inserita nei circuiti turistici. Forse è un peccato per la gente del posto che non vede valorizzato (così si dice) il proprio territorio ma è senz'altro un pregio per chi viene ad ammirare i resti di quest'antica città. 
Il paesino di Albe, a ridosso del sito, distrutto dal terremoto del 1915 e poi quasi completamente ricostruito, sonnecchia in questo pomeriggio di sole.
Il monte Velino è sullo sfondo e qui, su questa propaggine a mille metri d'altitudine gli Equi crearono un importante insediamento, conquistato poi dai romani durante la seconda guerra punica. Nel 300 avanti Cristo 6000 famiglie si stabilirono qui, la città contava allora circa 30000 abitanti. Le mura larghe tra due metri e mezzo a tre metri, si snodavano su un perimetro di quasi tre chilometri. L'anfiteatro largo 79 metri e lungo 96 dà un'idea dell'importanza e della ricchezza della città. 
Situata sul tracciato della via Valeria, Alba (chiamata Fucens per distinguerla dall'omonima laziale) controllava un punto strategico molto importante sulla strada di Roma. La disposizione visibile oggi è, secondo gli storici, quella dell'epoca di Silla quando, dopo molte vicissitudini, la struttura di Alba fu profondamente modificata. La storia della città finisce probabilmente nel IX secolo, quando, pare, venne distrutta dai Saraceni.

Fu solo nel 1949 che una missione belga cominciò gli scavi per riportare alla luce i resti dell'insediamento.
Oggi è emozionante percorrere queste vie con il lastricato consumato dal passaggio di chissà quanti carri.