La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 18 agosto 2013

Emeric Fisset: L'ebbrezza del camminare

L'ivresse de la marche, tradotto in italiano con lo stesso titolo: L'ebbrezza del camminare e pubblicato dalle edizioni Ediciclo, è un libretto di una novantina di pagine. Esile ma ricco di idee. Un piccolo manuale di filosofia del viandante che si legge rapidamente ma che si medita lungamente; un'acuta riflessione sul senso del camminare e sulle sue implicazioni.
L'autore non è solo un teorico - tra l'altro responsabile di una casa editrice francese Transboréal che ha come tema essenziale il viaggio a piedi - ma, prima di tutto, un appassionato viaggiatore. Ha percorso strade e sentieri ai quattro angoli del mondo, dall'Asia all'Africa all'America: a piedi, in bicicletta, con gli sci. Nel 1984 è
Partito da Parigi e, dopo aver attraversato diciassette paesi, è arrivato, due anni e 12500 chilometri dopo, a Roma.
Dal 1999 viaggiava per il mondo in compagnia di Julie Boch con la quale aveva camminato in Sudamerica o nella penisola della Kamchatka, nell'estremo oriente russo. Il loro sodalizio ha avuto un tragico epilogo nell'estate del 2011. Mentre i due si dirigevano verso le sorgenti dell'Ob, su una strada in costruzione, lontano da tutto, Julie Boch è morta, vittima di un impensabile incidente stradale. Per perpetuare il suo impegno per la condivisione delle conoscenze e promuovere i lavori di ricercatori che testimoniano alte qualità intellettuali – acutezza dell'osservazione, curiosità universale, distanza critica – e morali – etica dell'azione, generosità, disinteresse – di cui lei ha dato prova, Emeric Fisset ha fondato la Società degli amici di Julie Boch.
In questo breve saggio, che a Julie Boch è dedicato, Emeric Fisset, alla maniera del filosofo americano Henry David Thoreau, fa l'apologia del viaggio a piedi.
Viaggio quindi, non escursione, trekking, passeggiata con andata e ritorno programmati da parcheggio a parcheggio. Viaggio senza tappe prestabilite, senza tempi prestabiliti, senza record da battere e senza data di ritorno.
Secondo Fisset viaggiare in questo modo implica l'abbandonarsi allo spazio e al tempo. Dopo aver stabilito una direzione o una meta, lasciarsi trasportare dagli eventi e dalla casualità degli incontri e della strada.
Viaggiare a piedi permette di riallacciare il contatto con gli altri esseri: umani, animali e vegetali. I nomi dei luoghi attraversati si iscrivono perennemente nella memoria meglio che in un atlante geografico. Percorrere a piedi un territorio dà alla sua scoperta una sensazione di ebbrezza appunto, impossibile da dimenticare.
Camminare soli piuttosto che in compagnia facilita - rende quasi obbligatorio - l'incontro, il contatto con l'altro a cui chiedere un'informazione, un posto per dormire o solo un bicchiere d'acqua.
E anche se lo scambio si limita a luoghi comuni - per un francese ci saranno le inevitabili domande sul calciatore famoso o sulla torre Effeil - piuttosto che su questioni culturali o artistiche, esso sarà nondimeno proficuo e ricco. Sarà il contatto umano, al di là delle incomprensioni e della barriera linguistica che, miracolosamente, riuscirà a creare legami profondi. Così Emeric Fisset descrive l'incontro con due anziani contadini nel nord della Finlandia. Nessuna possibilità di scambio linguistico con due persone che probabilmente non si erano mai allontanate dalla loro isba. Eppure una relazione forte e intensa si stabilisce, sorprendente e straordinaria: [...] per tutta la sera, nel nostro desiderio di scambio, parlammo ciascuno nella propria lingua materna e ci capimmo. Grazie alla disponibilità mentale in cui li aveva portati il loro isolamento invernale, grazie alla sensibilità acutissima che il lungo cammino aveva sviluppato in me, percepivamo come per magia, le vibrazioni della lingua dell'altro senza conoscerne minimamente né il vocabolario né la grammatica.
Partire così all'avventura significa rinunciare alla sicurezza di un pasto e di un letto. È questo il primo sforzo del sedentario che vuole diventare nomade. Superato lo scoglio, abbandonata la preoccupazione che l'allontanamento dalle persone care procura, si entra nel nuovo spazio di vita. E poi paradossalmente - dice Fisset - più l'umanità ci è lontana più apprezzeremo il suo contatto e ce ne sentiremo partecipi. Ma soprattutto il viandante deve spogliarsi di tutti di orpelli che fanno del viaggio un evento. Rinunciare all'idea di impresa sportiva e alla luce dei proiettori che ne è spesso associata, alle ragioni pseudoscientifiche o falsamente umanitarie (camminare per aiutare, per raccogliere fondi, per far conoscere...)
Il viaggio verso una destinazione diventa così, senza volerlo, pellegrinaggio, non solo perché la fatica, le privazioni (fame, sete, solitudine) ne fanno quasi un percorso ascetico ma anche grazie al contatto e all'esposizione permanente agli elementi atmosferici e naturali; perché la meta, a poco a poco idealizzata, assume, anche al di fuori di ogni riferimento religioso, il carattere del sacro.

4 commenti:

  1. Veramente uno splendido post che fa riflettere soprattutto quelli che come me amano camminare e condividere pensieri e sensazioni attraverso gesti e foto ma che vorrebbero sempre immedesimarsi con chi o con che cosa lo circonda!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Giulano, grazie del commento.
      Il merito è tutto dell'autore del libro.

      Elimina
  2. Dalla recensione, letta qualche giorno fa, al libro... poche pagine capaci di racchiudere lo spirito del camminatore.
    L'ho apprezzato moltissimo, ti devo ringraziare Gius.ante!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sono contento che ti sia piaciuto.
      Grazie della fiducia.

      Elimina