La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



lunedì 14 maggio 2018

Ella Maillart, Oasi proibite

Nella prefazione ad una ormai lontana riedizione francese di Oasi proibite di Ella Maillart, il suo concittadino Nicolas Bouvier (erano entrambi ginevrini) esprime la sua ammirazione per questo libro: da vent'anni introvabile, è per me un capolavoro e mi rallegro per la sua riedizione. La freschezza coinvolgente dell'osservazione, una lingua estremamente precisa, infine una filosofia del viaggio che permette all'autrice di vivere la sua avventura senza volerla troppo governare, sostituiscono proficuamente “la pretesa di fare opera letteraria” e confermano la mia idea che si ha spesso più profitto nel leggere dei viaggiatori che scrivono che degli scrittori che viaggiano.*
È in effetti un libro scritto con molta leggerezza, spesso con autoironia, senza voler “fare letteratura” come sottolinea Nicolas Bouvier; forse però sta proprio qui la sua qualità letteraria: l'assenza di artificio, la naturalezza di uno stile che appare semplice e spontaneo.
Ella Maillart aveva 32 anni quando, nel 1935, partì per la sua avventura come corrispondete del giornale francese Petit Parisien e aveva già un'eclettica esperienza sportiva: provetta sciatrice, giocatrice di hockey su erba, alpinista, velista. In quest'ultima disciplina aveva rappresentato la Svizzera alle Olimpiadi del 1924 mentre dal 1932 al 1934 aveva partecipato, sempre per i colori svizzeri, ai campionati del mondo di sci. Nel 1930 aveva attraversato il Caucaso e l'Asia centrale sovietica. Ora la sua idea era di raggiungere quelle che erano all'epoca le Indie britanniche partendo dalla Manciuria, - Manchukuo stato indipendente sotto controllo giapponese -. Si trattava di attraversare tutta la Cina da est verso ovest fino alle più remote province occidentali del paese, lo Xinjiang, il turkestan cinese, per poi, attraverso i valichi del Pamir e dell'Himalaya, passare nel Kashmir. Migliaia di chilometri, percorsi ad una media di venti al giorno, attraverso regioni difficilissime, assolutamente isolate dal resto del mondo e i cui abitanti vivevano in condizioni praticamente immutate dalla notte dei tempi. E per questo bisognava tra l'altro superare, sempre a piedi, a cavallo o a dorso d'asino, il Gobi, il deserto, che è in effetti uno dei territori più aridi del pianeta. Nessuno, (in ogni caso nessun occidentale) ripercorrerà mai più quel tragitto. Un'impresa di per sé straordinaria ma resa ancora più difficile dal contesto politico di quell'epoca. La Cina subiva pressioni e attacchi da potenze coloniali e ribellioni interne che sembravano poter smembrare il paese. I giapponesi avevano occupato la Manciuria e creato uno stato vassallo, i sovietici che già controllavano la Mongolia esteriore, cercavano di inserirsi tra le varie fazioni che si combattevano nelle regioni musulmane, gli inglesi manovravano sul Tibet per difendere i loro interessi, i francesi dall'Indocina avevano delle mire sullo Yunnan, senza dimenticare l'insurrezione comunista guidata da Mao. Le enormi distanze e la difficoltà delle comunicazioni impedivano al governo nazionalista di Chiang Kai-shek basato a Nanchino di controllare o solo di conoscere in tempi ragionevoli la situazione di tutte le province.
Ella Maillart parte in compagnia dell'inglese Peter Fleming, corrispondente del Times, viaggiatore, avventuriero, ma anche spia al servizio del governo britannico. Peter Fleming non è altri che il fratello di Ian Fleming e probabilmente è stato lui ad ispirare molti aspetti del personaggio di James Bond.
Ella Maillart descrive le regioni attraversate e gli abitanti: mongoli, cinesi, tibetani, turkmeni. Incontri sovente inconsueti, con ricchi principi locali o con poveri contadini o pastori e sempre la difficoltà di comunicare in lingue sconosciute e di adattarsi a usi e costumi particolari. Accoglienze calorose caratterizzate dalla condivisione del té con il quale impastare le tradizionali polpettine di farina d'orzo ma a volte anche perplessità, diffidenza e sospetto inspirato da “occidentali”, scambiati per russi o per giapponesi, provenienti da vie che nessuno percorreva mai. Giornate interminabili sotto un sole implacabile verso punti d'acqua che sembrano irraggiungibili. Anche gli animali: cammelli, asini o cavalli, soffrono e succede che non sappiano più proseguire; bisogna allora abbandonarli al loro destino.
E poi, raggiunta un'oasi, l'attesa, a volte lunga - a volte in prigione -, aspettando che un'”autorità” accetti di fornire un lasciapassare per quegli strani viaggiatori che si dirigono verso regioni in rivolta.
Tutto questo racconta Ella Maillart e sempre con leggerezza. Nella sua narrazione affiora un'attenzione e una certa empatia verso le persone incontrate, un acuto senso d'osservazione che permette alla viaggiatrice di tracciare in qualche frase ritratti colmi di umanità.
L'arrivo nello Xinjiang è vissuto come il passaggio da un mondo ad un altro. Due civiltà differenti: quella dei mongoli dove i morti sono abbandonati all'aperto, lasciati agli uccelli predatori e quella musulmana dove sono seppelliti.
Ecco ad un tratto, sul culmine di una collina, cinque o sei paletti sui quali delle code di Yak dondolano al vento: riconosco alla prima occhiata la tomba di un musulmano, e si indovina la mia emozione: siamo nel Turkestan. Subito dopo, un cubo di terra secca protegge un forno a pane... Del pane! Che cosa non darei perché sostituisse i nostri vecchi biscotti induriti. Ma gli abitanti hanno lasciato la valle dopo le rivolte recenti, ed è il deserto che ci accoglie.
C'è poi la seconda parte del viaggio. Dall'estremo occidente cinese verso sud, sugli alti valichi del Pamir e dell'Himalaya verso il Cachemire britannico. Il paesaggio cambia, si sale sui fianchi delle altissime montagne, fino quasi a cinquemila metri di quota; gli animali soffrono al punto che bisogna forare le loro narici perché possano respirare.
Il viaggio si conclude quando i primi pali del telegrafo annunciano il ritorno nel mondo della modernità. Poi la conclusione con il volo verso l'Europa, passando da una velocità di venti chilometri a duemila chilometri al giorno.
E l'arrivo in Francia. Improvvisamente capisco qualcosa: sento adesso, con tutta la forza dei miei sensi e tutta quella del mio intelletto, che Parigi non è niente, né la Francia, né l'Europa, né i Bianchi... Una sola cosa conta, contro ogni particolarismo, è l'ingranaggio magnifico che si chiama mondo.
*Esattamente il contrario di quanto dicevo io qui.

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