La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



mercoledì 30 ottobre 2019

Ella Maillart: La via crudele


Nel giugno 1939, mentre l’Europa è sull’orlo della guerra, Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach (nel racconto chiamata Christina) partono a bordo di una Ford verso l’Afganistan. L’obiettivo è semplice e nello stesso tempo impegnativo: scoprire “come si può vivere in accordo con il proprio cuore”. Entrambe sono giornaliste già note, ciascuna ha già girato il mondo scrivendo reportage acuti e coinvolgenti sui paesi visitati.
Ma, a parte questo importante elemento, tutto sembra dividere le due donne. Ella Maillart è forte ed energica, dallo spirito ottimista e ironico, Annemarie Schwarzenbach soffre di depressione, è tossicodipendente e ha l’impressione di aver perso il senso della vita. Questo viaggio ha per lei anche – soprattutto – uno scopo terapeutico.
Ella Maillart è già stata in Afganistan qualche anno prima; vuole ritrovare il paese che l’aveva affascinata ma soprattutto scoprire nuove realtà.
È una viaggiatrice infaticabile. Ha attraversato l’Asia a piedi, a cavallo, a dorso di cammello, sfidando tutte le difficoltà climatiche, geografiche e burocratiche. (qui)
Attraverso l’Italia de nord, i Balcani, la Turchia e l’Iran le due donne arriveranno fino a Kabul. Nell’Europa di quell’anno le croci uncinate sventolano e preannunciano la catastrofe ma, lungo il viaggio, l’eco della Storia presente a poco a poco di attenua fino a scomparire. Ne resta qualche segno tangibile anche se aneddotico come l’automobile – dono di Hitler, è indicato sulla targa sul cruscotto – con la quale il re d’Albania Zog I era scappato da Tirana, occupata dalle truppe italiane, e che le due donne trovano casualmente accanto alla loro, parcheggiata in un garage di Istanbul.
Per Ella Maillart l’Afganistan rappresenta una sorta di paradiso perduto, un luogo mitico di vita pacifica e armoniosa che vuole ritrovare lontano dal caos del mondo. Ma non si tratta di una fuga, piuttosto c’è il desiderio di osservare l’attualità e il presente da un punto di vista più distante e distaccato. La descrizione dell’itinerario lascia trasparire l’entusiasmo che la guida.
A est del mar Caspio visiteremo l’indimenticabile torre del Gumbad-i-Kabus e ci accamperemo tra i turkmeni d’Iran: forse vivono ancora secondo i costumi che non ho potuto osservare dai loro cugini, trasformati dai Soviet. Vedremo la cupola d’oro della moschea Reza, preziosa tomba liscia e compatta che punta verso il cielo. Poi raggiungeremo i due giganteschi Budda scolpiti nella pura valle di Bamiyan e, nella stessa regione, i laghi incredibilmente blu del Band-i-Amir. Ancora più lontano, ai piedi del versante nord dell’Hindu Kuch, risalendo la valle dell’Amu-Daria (in passato chiamata Oxus), spariremo tra le montagne prima che un divieto, venuto da Kabul, possa fermarci. È là che vivono gli uomini che voglio studiare, in una regione in cui mi sento a mio agio. Sono dei montanari che la schiavitù dei bisogni artificiali non ha ancora raggiunto, uomini liberi che nessuno spinge ad “aumentare la loro produzione giornaliera”. Se il Kafiristan ci fosse vietato potremmo attraversare l’India, raggiungere la nuova strada di Birmania e vivere laggiù come i Lolos del Tibet orientale. Allora tutto sarà perfetto.”
Ella non si dilunga sulle difficoltà dei rapporti personali tra lei e Annemarie-Christina, sentiamo però come i momenti di crisi che quest’ultima attraversa aggiungano una difficoltà supplementare al viaggio. La separazione, quasi repentina, alla fine dell’avventura, sarà quindi per lei quasi un sollievo.
Ci resta il resoconto di questa epopea, ricco di osservazioni e di riflessioni accorte e penetranti, lo sguardo su società umane probabilmente ormai perdute, alla ricerca di valori che la tragedia mondiale stava spazzando via.

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