lunedì 14 maggio 2018
Ella Maillart, Oasi proibite
Nella
prefazione ad una ormai lontana riedizione francese di Oasi
proibite di Ella Maillart, il suo concittadino Nicolas
Bouvier (erano entrambi ginevrini) esprime la sua ammirazione per
questo libro: da vent'anni introvabile, è per me un capolavoro e
mi rallegro per la sua riedizione. La freschezza
coinvolgente dell'osservazione, una lingua estremamente precisa,
infine una filosofia del viaggio che permette all'autrice di
vivere la sua avventura senza volerla troppo governare,
sostituiscono proficuamente “la pretesa di
fare opera letteraria” e confermano la mia idea che si ha spesso
più profitto nel leggere dei viaggiatori che scrivono
che degli scrittori che viaggiano.*
È
in effetti un libro scritto con molta leggerezza, spesso con
autoironia, senza voler “fare letteratura” come sottolinea
Nicolas Bouvier; forse però sta proprio qui la sua qualità
letteraria: l'assenza di artificio, la naturalezza di uno stile che
appare semplice e spontaneo.
Ella
Maillart
aveva
32 anni quando, nel 1935, partì
per la sua avventura come
corrispondete del giornale francese Petit Parisien e
aveva già
un'eclettica esperienza
sportiva:
provetta sciatrice, giocatrice di hockey
su erba, alpinista, velista. In quest'ultima disciplina aveva
rappresentato la Svizzera
alle Olimpiadi del 1924 mentre
dal 1932 al 1934 aveva partecipato, sempre per i colori svizzeri,
ai campionati del mondo di sci. Nel 1930 aveva attraversato il
Caucaso e l'Asia centrale sovietica.
Ora la
sua idea era di raggiungere
quelle che erano all'epoca
le Indie britanniche partendo dalla
Manciuria, -
Manchukuo
stato
indipendente sotto controllo giapponese -.
Si trattava di attraversare
tutta la Cina da est verso
ovest fino alle più remote
province occidentali del paese, lo
Xinjiang, il turkestan
cinese, per poi, attraverso i
valichi del Pamir e dell'Himalaya,
passare nel Kashmir.
Migliaia di chilometri, percorsi ad una media di venti al giorno,
attraverso regioni difficilissime, assolutamente isolate dal resto
del mondo e i cui abitanti vivevano in condizioni praticamente
immutate dalla notte dei tempi. E per questo bisognava tra l'altro
superare, sempre a piedi, a cavallo o a dorso d'asino, il Gobi, il
deserto, che è in
effetti uno dei territori più aridi del pianeta. Nessuno, (in ogni
caso nessun occidentale) ripercorrerà mai più quel tragitto.
Un'impresa di per sé straordinaria ma resa ancora più difficile dal
contesto politico di quell'epoca. La Cina subiva pressioni e attacchi
da potenze coloniali e ribellioni interne che sembravano poter
smembrare il paese. I giapponesi avevano occupato la Manciuria e
creato uno stato vassallo, i sovietici che già controllavano la
Mongolia esteriore, cercavano di inserirsi tra le varie fazioni che
si combattevano nelle regioni musulmane, gli inglesi manovravano sul
Tibet per difendere i loro interessi, i francesi dall'Indocina
avevano delle mire sullo Yunnan, senza
dimenticare l'insurrezione comunista guidata da Mao.
Le enormi distanze e la difficoltà delle comunicazioni impedivano al
governo nazionalista di Chiang
Kai-shek basato a
Nanchino
di controllare o solo di conoscere in tempi ragionevoli la situazione
di tutte le province.
Ella
Maillart parte in compagnia dell'inglese Peter Fleming,
corrispondente del Times, viaggiatore, avventuriero, ma anche
spia al servizio del governo britannico. Peter Fleming non è altri
che il fratello di Ian Fleming e probabilmente è stato lui ad
ispirare molti aspetti del personaggio di James Bond.
Ella
Maillart descrive le regioni attraversate e gli abitanti: mongoli,
cinesi, tibetani, turkmeni. Incontri sovente inconsueti, con ricchi
principi locali o con poveri contadini o pastori e sempre la
difficoltà di comunicare in lingue sconosciute e di adattarsi a usi
e costumi particolari. Accoglienze calorose caratterizzate dalla
condivisione del té con il quale impastare le tradizionali
polpettine di farina d'orzo ma a volte anche perplessità, diffidenza
e sospetto inspirato da “occidentali”, scambiati per russi o per
giapponesi, provenienti da vie che nessuno percorreva mai. Giornate
interminabili sotto un sole implacabile verso punti d'acqua che
sembrano irraggiungibili. Anche gli animali: cammelli, asini o
cavalli, soffrono e succede che non sappiano più proseguire; bisogna
allora abbandonarli al loro destino.
E
poi, raggiunta un'oasi, l'attesa, a volte lunga - a volte in prigione
-, aspettando che un'”autorità” accetti di fornire un
lasciapassare per quegli strani viaggiatori che si dirigono verso
regioni in rivolta.
Tutto
questo racconta Ella Maillart e sempre con leggerezza. Nella sua
narrazione affiora un'attenzione e una certa empatia verso le persone
incontrate, un acuto senso d'osservazione che permette alla
viaggiatrice di tracciare in qualche frase ritratti colmi di umanità.
L'arrivo nello Xinjiang è
vissuto come il passaggio da un mondo ad un altro. Due civiltà
differenti: quella dei mongoli dove i morti sono abbandonati
all'aperto, lasciati agli uccelli predatori e quella musulmana dove
sono seppelliti.
Ecco
ad un tratto, sul culmine di una collina, cinque o sei
paletti sui quali delle code di Yak dondolano al vento: riconosco
alla prima occhiata la tomba di un musulmano, e si indovina la mia
emozione: siamo nel Turkestan. Subito dopo, un cubo di terra secca
protegge un forno a pane... Del pane! Che cosa non darei perché
sostituisse i nostri vecchi biscotti induriti. Ma gli abitanti
hanno lasciato la valle dopo le rivolte recenti, ed è
il deserto che ci accoglie.
C'è
poi la seconda parte del viaggio. Dall'estremo occidente cinese verso
sud, sugli alti valichi del Pamir e dell'Himalaya verso il Cachemire
britannico. Il paesaggio cambia, si sale sui fianchi delle altissime
montagne, fino quasi a cinquemila metri di quota; gli animali
soffrono al punto che bisogna forare le loro narici perché possano
respirare.
Il
viaggio si conclude quando i primi pali del telegrafo annunciano il
ritorno nel mondo della modernità. Poi la conclusione con il volo
verso l'Europa, passando da una velocità di venti chilometri a
duemila chilometri al giorno.
E
l'arrivo in Francia. Improvvisamente capisco qualcosa: sento
adesso, con tutta la forza dei miei sensi e tutta quella del
mio intelletto, che Parigi non è niente, né la Francia, né
l'Europa, né i Bianchi... Una sola cosa conta, contro ogni
particolarismo, è l'ingranaggio magnifico che si chiama mondo.
*Esattamente
il contrario di quanto dicevo io qui.
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