sabato 16 novembre 2019
Robert Macfarlane, Luoghi selvaggi.
È
il termine inglese Wilderness,
per la sua capacità di definire precisamente e concretamente il
concetto, che si è imposto nelle altre lingue e anche in italiano.
Si tratta di “natura selvaggia”, cioè di quegli spazi ambientali
non ancora modificati o contaminati dalla presenza dell'uomo. Il
dibattito è però aperto tra coloro che difendono un'esigenza di
natura integra
e “vergine” e altri che considerano accettabile la presenza di
pratiche tradizionali come per
esempio il pascolo, il taglio
il legnatico (il diritto di raccogliere legna) o
addirittura
la caccia tradizionale.
Difendere e proteggere gli
ultimi spazi di wilderness
presenti nel mondo è una
necessità non solo etica ma anche pragmatica di fronte ad una
deteriorazione generalizzata dell'ecosistema che ha in definitiva
effetti concreti e drammatici su tutti gli esseri viventi.
In
Italia un'associazione Wilderness
fondata a Grosseto nel 1985 si prefigge di diffondere questi
concetti, legandosi al movimento analogo fondato più di due secoli
fa negli Stati Uniti. Così si presenta:
Originatasi
in America nei primi decenni del 1800 e diffusasi soprattutto nel
secolo XX, fino ad allargarsi al resto del mondo, la filosofia
“Wilderness” ritiene che la natura selvaggia vada conservata in
quanto valore di per sé, e considera questo valore un patrimonio
spirituale per l’uomo per ciò che essa suscita a livello interiore
e di emotività; una filosofia ambientalista che ha le sue radici nel
pensiero di Henry David Thoreau (filosofo), di Aldo Leopold
(cacciatore/conservazionista) ed altri, e che è contraria all’uso
di massa dell’ambiente; seppure la ricreazione fisica e spirituale
sia uno dei fini della sua preservazione, e conciliabile l’uso
corretto di certa parte delle risorse naturali rinnovabili
Il
Wilderness e
diventato un vero e proprio genere letterario e ha prodotto opere di
grande valore poetico ma
anche etico e filosofico. Tra le molte, alle quali si è accennato
anche in queste pagine, ricordiamo quelle di Thoreau, Walden,
i libri di Bruce Chatwin o
anche l'ammaliante
libro di Nan Sheper,
La montagna vivente.
Bisogna
aggiungere alla lista il nome
di Robert
Macfarlane,
scrittore,
insegnante, giornalista e alpinista inglese, nato nel 1976 e
che ha scritto delle pagine appassionate ed
avvincenti su questo argomento.
Non
saprei dire adesso quando mi innamorai della selvaticità, so solo
che così fu e che il bisogno che ne provo resterà sempre forte in
me. Da bambino, ogni volta che leggevo wildness,
fantasticavo di spazi vasti, remoti, senza contorni. Isole solitarie
al largo delle coste atlantiche. Foreste sconfinate e azzurro luce
nivea che cadeva su terreni segnati da orme di lupi.
Vette scheggiate di ghiaccio e conche glaciali coperte da laghi
profondissimi. E l'immagine di luogo selvaggio che da sempre serbavo
in cuore era questa: un posto boreale, invernale vasto, isolato,
elementare, che metteva alla prova il viaggiatore con le sue
asperità. Raggiungere un luogo selvaggio, per me, voleva dire
inoltrarsi fuori dalla storia umana.
Così
nel suo libro Luoghi
selvaggi
edito da
Einaudi, Macfarlane descrive il desiderio, quasi irrefrenabile di
andare alla ricerca di spazi inesplorati o almeno privi di tracce
umane. Luoghi
selvaggi (il
titolo originale è The
wild places) è
diviso in capitoli-luoghi: l'isola, la valle, la foresta, la
brughiera, la foce… ed è racchiuso tra due capitoli consacrati al
faggeto.
Sorprendentemente
il suo viaggio comincia infatti vicino a casa, a un chilometro e
mezzo dal proprio quartiere di Cambridge, dove, sulle orme del Barone
rampante di Italo Calvino, trova un universo fantastico. A poco a
poco la ricerca di spazi selvaggi lo porta sempre più lontano,
studiando sulle cartine i luoghi, non segnati, lontani da, paesi,
strade, linee ferroviarie.
Ma
dopo
aver percorso in lungo e in largo le regioni più desolate del suo
paese, lo
scrittore si accorge che il “selvaggio” è soprattutto un
concetto mentale. Sono
i sensi, acuiti e affinati dall'ambiente circostante che
mutano
lo stato d'animo disponendolo
ad
un più stretto e
profondo
legame con lo spazio naturale che ci circonda.
La
natura selvatica dimorava anche qui, a poco più di un chilometro
dalla città in cui vivevo.
Assediata
da strade e edifici, minacciata in gran parte dei suoi rifugi,
agonizzante in alcuni. Ma in quel momento la terra sembrava
riecheggiare in una luce selvaggia.
domenica 10 novembre 2019
Colore del cielo
Ricordo
quando, ancora bambino, arrivavo con la corriera sulla piazza del
paese. C'era sempre molta gente e i passeggeri, prima della fermata
erano già in piedi, allungavano il collo a destra e a sinistra,
cercavano con lo sguardo una madre, un padre, un fratello o una sorella venuti ad
aspettarli.
Il
dialetto che nella città del nord era riservato alle conversazioni
familiari diventava improvvisamente lingua ufficiale, le sonorità
così particolari, specifiche e ristrette a quel territorio,
riempivano la piazza con i loro timbri e con la loro peculiare
pronuncia.
Rapidamente
quella piccola folla di disperdeva, a poco a poco la piazza ritrovava
la sua calma consueta, lo scroscio dell'acqua della fontana
riprendeva il sopravvento nel silenzio del luogo.
Ma
la prima impressione che mi colpiva, superando la curiosità per lo
spazio circostante, era il colore del cielo. Nella città del nord
ero abituato, anche nei giorni più chiari, ad un celeste tenue e
evanescente, un po' più limpido solo nei rari giorni di vento.
Quassù
il blu esplodeva, quasi irreale. Il grande albero vicino
all'abbeveratoio – a quell'epoca era molto più rigoglioso -
contrastava con la sua chioma lussureggiante, come un fuoco
d'artificio e si apriva il quel cielo luminoso. Il verde delle foglie
accentuava l'emergere della volta di un cobalto abbagliante. Restavo
affascinato e impressionato da quel colore così intenso e perentorio
e per un momento mi guardavo attorno. Cercavo negli altri
l'espressione di meraviglia che potesse confermare la realtà del mio
sentimento di fronte ad un evento imprevedibile ed a una cosa
inaspettata. Il distacco e l'indifferenza che vedevo attorno a me, senz'altro dovuti all'abitudine, mi
lasciavano perplesso.
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