domenica 24 giugno 2012
Colfiorito di Foligno
Sui bordi della strada qualche contadino vende sacchetti di patate rosse, prodotto tipico della zona. Nella domenica soleggiata un gruppo di ciclisti passa chiacchierando allegramente. Il percorso, dopo una bella salita, è qui quasi pianeggiante e i pedalatori possono tirare il fiato.
Prima di lasciare l'Umbria e di addentrarsi nella provincia di Macerata, la statale 77 della Val di Chienti attraversa gli altipiani Plestini, così chiamati dal nome dell'antico municipio romano di Plestia. La regione era popolata già prima dell'arrivo dei romani, scavi archeologici hanno riportato alla luce reperti dell'età del bronzo.
La cresta dell'Appennino non è qui molto elevata e questa zona era un punto importante di collegamento tra la costa tirrenica e quella adriatica. Sono ancora visibili il Castelliere del monte Cassicchio, una costruzione fortificata di origine preromana, poi rioccupata nel medioevo e la chiesa protoromanica di Santa Maria, situata esattamente sul confine tra Umbria e Marche.
Oggi questo altopiano è meglio conosciuto con il nome di Colfiorito, la frazione di Foligno che qui si trova. Sono sette conche carsiche, ormai prosciugate. Solo una è ancora occupata da una palude, di un certo interesse ecologico, luogo essenziale del parco naturale omonimo.
La strada statale aggira il centro del paese e quest'ultimo sembra un po' addormentato nella mattinata domenicale. Colfiorito fu violentemente colpito dal terremoto del 1997 e le conseguenze sono ancora visibili.
All'ingresso del borgo prendiamo la strada ai piedi del monte Orve, che va verso Forcatura, un'altra piccola frazione sul colle vicino. Il percorso aggira la palude, passando vicino alla cosiddetta casa del Mollaro e all'antico inghiottitoio salendo poi verso l'abitato di Forcatura bel punto panoramico sulla valle.
La palude è un punto di osservazione privilegiato per gli appassionati di avifauna, molte specie rare, airone, germano reale, gufi, nidificano o sostano tra i canneti. Noi non siamo stati molto fortunati, o magari non abbastanza pazienti e ci siamo accontentati del panorama.
mercoledì 13 giugno 2012
Via Centrale
Una canna di fucile, pesantissima, serviva, soffiandoci dentro, a ravvivare il fuoco del camino. Le pigne, raccolte durante l'autunno nella pineta sovrastante il paese, odoravano e il fumo, prima di salire, si allargava sulle mattonelle annerite.
Stava, dal mattino alla sera, seduta sulla poltroncina di vimini. Vestita di scuro, di fustagno ruvido e spesso; solo un grembiule un po' più chiaro colorava la figura. Un fazzoletto nascondeva i capelli bianchi, raccolti in una treccia arrotolata sulla nuca. Ogni tanto guardava l'ora, in un orologio da tasca che bisognava aprire. Sul coperchio uno sbalzo rappresentava un treno a vapore. Era il regalo che un cugino, andato in Francia per lavorare in miniera, aveva, al ritorno, portato a suo marito e che lei aveva conservato dopo la morte di quest'ultimo. Era seduta accanto ad una macchina da cucire di marca americana in legno e ghisa sulla quale stava una tovaglia bianca di lino che la figlia aveva ricamato. In uno dei cassettini, oltre all'orologio, conservava un coltellino usato per sbucciare la mela mangiata dopo pranzo. Più che un vero coltello era un ciondolo, decorato sul manico con l'immagine colorata di un santo, ricordo di un pellegrinaggio di gioventù, al di là delle montagne.
Appoggiava i piedi su un bracere di rame, sempre lucido e brillante, sostenuto da un supporto di fòrmica. La brace era coperta da un velo di cenere. Sgranava un rosario di grani neri, guardando la strada al di la della vetrata e della pesante porta sempre aperta, sulla quale il vento faceva muovere la tenda fatta all'uncinetto.
Dalla sedia si vedevano i larghi gradini della via in salita. Il cielo era grigio e basso, la luce del breve pomeriggio si stava spegnendo ma la neve, forse l'ultima della stagione, si era ormai sciolta e la stada, ridotta fino a qualche giorno prima ad uno stretto passaggio, era adesso pulita. I passanti però erano ancora rari, la loro apparizione costituiva quasi l'avvenimento della giornata. Allora, se si trattava di un conoscente, prima di proseguire il cammino si fermava sulla soglia e scostava la tenda, salutandola
Capitava che qualcuno entrasse, una vicina o qualche parente venuto in visita. Allora si prendevano notizie, si rievocavano avvenimenti passati, si offriva il caffé o il liquore tenuto apposta per queste occasioni..
Passavano così i giorni, nel ritmo blando e sempre uguale delle azioni quotidiane. Erano ormai anni che non usciva più. Da quell'ormai lontano inverno in cui il gelo e della neve l'avevano costretta a rinunciare alle sue, pur rare, escursioni settimanali fino alla messa della chiesa parrocchiale. La primavera era tornata ma ormai i suoi passi erano troppo insicuri per permetterle di salire la lunga scalinata che portava lassù. Così il suo orizzonte, già modesto, si era ristretto ancora un po', limitato a quello scorcio di strada che la porta aperta lasciava intravedere e alle notizie che ogni tanto qualcuno le raccontava.
domenica 3 giugno 2012
Abbazia di Sassovivo: la lecceta
Dall'abbazia di Sassovivo, risalendo per qualche centinaio di metri lungo la strada asfaltata, si arriva ad un'altra, più modesta, costruzione a forma di loggia.
È la cripta del beato Alano un venerato monaco che visse quassù morendovi nel 1313. È proprio dove oggi si trova la cripta che la prima comunità benedettina aveva deciso di installarsi. La scelta sembrò però infelice (il terreno era poco stabile) e fu così che i monaci optarono per il luogo, più roccioso, un po' più a valle dove l'abbazia si trova tuttora.
Subito dopo, la strada fa un'ampia curva a destra ed è qui che la si abbandona e ci si inoltra, a sinistra, nel bosco seguendo la mulattiera che risale le pendici del monte.
La lecceta di Sassovivo copre un territorio assai ampio, tra il monte Serrone, su cui ci troviamo e il monte Aguzzo. Tra i due è il Fosso Renaro, una profonda valletta anch'essa coperta dagli alberi.
È un bosco secolare, probabilmente quello che resta, con quello di Monteluco sopra Spoleto e quello dell'eremo delle carceri del Subasio di una ben più ampia foresta che doveva coprire la dorsale della valle Umbra.
Le comunità monastiche si sono spesso installate in luoghi già carichi di richiami religiosi, come lo erano le leccete per i popoli italici ed è forse questa sacralità che ha, almeno in parte, preservato i boschi.
La salita è ombreggiata e fresca, abbastanza ripida tra gli alberi e gli arbusti di corbezzolo che rendono il bosco impenetrabile al di fuori del sentiero. Poi, più in alto, gli alberi diventano più radi.
Nel silenzio del mattino ascoltiamo gli uccelli che salutano la bella giornata.
Arriviamo ad un belvedere che si apre sulla valle del fiume Menotre l'affluente del Topino che ci separa dal monte di Pale.
Arriviamo ad un belvedere che si apre sulla valle del fiume Menotre l'affluente del Topino che ci separa dal monte di Pale.
La mulattiera si trasforma in sentiero e poi si perde in una bella radura. Bisogna attraversarla, continuando a salire un po' verso destra, senza lasciarsi ingannare dalla via, ben più visibile che scende verso la valle.
Il sentiero ricomincia nel bosco e la passeggiata continua, tra fiori e erbe. Arrivati nel punto più alto dell'escursione il panorama spazia verso i monti Sibillini ancora innevati alla fine di aprile.
Scavalcato un ultimo passo, la via comincia a scendere verso l'abitato di Casale che appare da lontano. Intanto il sentiero e ridiventato mulattiera e poi carrareccia.
Arriviamo nel paesino, tranquillo e silenzioso; solo un gatto ci saluta sulla piazzetta.
Uscendo da Casale si vede, a destra, la strada percorsa che scende dal monte Serrone.
Uscendo da Casale si vede, a destra, la strada percorsa che scende dal monte Serrone.
Da Casale si riscende verso Sassovivo, lungo il fosso Renaro, lasciando il monte Serrone sempre sulla destra.
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