La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



giovedì 8 marzo 2018

Maya Ombasic, Mostarghia

Ridatemi il mio paese, ridatemi la mia vita, il mio ponte e la mia città.
Abbiamo dimenticato rapidamente che solo pochi anni fa, una guerra cruenta e spietata aveva luogo alle nostre porte. Esattamente dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, Sarajevo, una città a cinquecento chilometri in linea d'aria da Roma, subiva uno dei più lunghi e spietati assedi della storia moderna. Si stima il numero di civili uccisi a più di centomila. Record degli obici caduti sulla città in un solo giorno: tremilasettecentosettantasette, e ciò a un'ora di aereo da Parigi e nel nome di un nazionalismo simile a quelli che crescono come funghi velenosi un po' dappertutto in Europa.*
Persone che vivevano insieme, che parlavano la stessa lingua si ritrovarono da una parte o dall'altra di un fronte e poi ancora di un altro. Ogni nazione fu associata, come spesso accade quando ci si vuole dividere, ad una religione: i croati cattolici, i serbi ortodossi, i bosniaci musulmani. Si cercarono le differenze nel serbocroato, fino ad allora, con lo sloveno e il macedone, lingua ufficiale della Federazione Jugoslava ma anche lingua di una letteratura comune e si definirono artificialmente quattro lingue separate: il serbo, il croato, il montenegrino, il bosniaco, intensificando e esacerbano differenze che in realtà, a detta dei linguisti, sono ben poche.
Anche Mostar, cittadina nel sud dell'Erzegovina, arrivò la guerra. Abitata da bosniaci e croati, nel 1992 fu assediata dai serbi, respinti da un fronte comune. Poi, l'anno dopo, la guerra fu tra croati e bosniaci e il famoso “ponte vecchio” che univa le due rive del fiume Nerevta da più di cinquecento anni, fu distrutto.

Maya Ombasic aveva dodici anni nel 1991, era nata e abitava a Mostar. Vista dall'alto, la cittadina provinciale dai tetti rossi fa pensare a Siena o a Tolosa, secondo l'angolo del sole e i suoi riflessi sulle colline che la circondano.* Una famiglia quasi banale: un fratello minore, un padre pittore, che amava andare a spasso in cerca di ispirazione e poco propenso ad occuparsi del quotidiano lasciato sulle spalle della moglie.
Tutto comincia il 6 aprile 1991 […]
Delle ciliegie nere. Il loro gusto per marcare l'ultimo giorno della mia infanzia. Quel giorno, a cavalcioni su un ramo del ciliegio nel giardino della detestabile Emma, un'ottantenne che ama i suoi frutteti più degli uomini, faccio una scorpacciata dei succulenti piccoli frutti. Noto che ho macchiato il mio vestito bianco con il porpora delle ciliegie rubate quando all'improvviso un'enorme esplosione fa fremere gli alberi, gli oggetti e le persone, riducendo ad un immenso ammasso di vetro tutte le finestre della città. Un silenzio sepolcrale s'installa nei minuti che seguono. Il cielo è oscurato da una nuvola densa e arancione come quella che annuncia una tempesta di sabbia. Poi il silenzio è rotto dalle grida delle madri sconvolte che cercano i loro figli. Sono stata sbalzata dal ciliegio e sono ancora a terra quando scorgo mia madre che corre al mio soccorso. Sconvolta, chiama il mio fratellino urlando. […] Qualcuno ha fatto scoppiare una cisterna di gas. È l'inizio della guerra ma noi ancora non lo sappiamo.*
Il padre di Maya è comunista, non si è mai occupato di religione ma la famiglia è bosniaca, dunque musulmana. Bisogna partire, lasciare la città verso la costa, poi con un traghetto fino ad Ancona e da qui in Svizzera, da Chiasso a Basilea per arrivare poi a Ginevra e infine in Canada, senza dimenticare un viaggio essenziale a Cuba, alla ricerca di un paradiso perduto.
Se la famiglia cerca di adattarsi alla vita nei paesi di soggiorno, per il padre di Maya ciò è impossibile. Rifiuta di imparare un'altra lingua, rifiuta di “integrarsi”; il ricordo della sua città, la mostarghia – il titolo è ispirato dal film Nostalghia di Andrei Tarkoski -, è troppo intenso e forte, lo porterà alla depressione, all'alcolismo e alla morte.
Il libro è un omaggio a questo padre, amato e però invadente e distruttivo ma attraverso lui è l'evocazione di un paese perduto e di una vita costruita malgrado tutto. Maya Ombasic insegna la filosofia all'università di Ottawa, è tornata in Erzegovina per seppellire il padre. Ha ritrovato una città ricostruita dagli aiuti internazionali ma ormai divisa in due dal fiume Nerevta, da un lato i bosniaci, dall'altro i croati. […] su una delle “facciate della vergogna”, quella lungo il famoso corso in cui si svolsero i combattimenti più cruenti, Coca-cola ha avuto l'ultima parola. Un telo enorme è stato steso dai pubblicitari della multinazionale per nascondere le tracce della guerra e fare la promozione della loro pozione miracolosa; Podjelite dobar osjecaj! “Condividete un buon sentimento”. Come se Coca-cola fosse da sola capace di unire le due rive della città che fu, tempo fa, la più multietnica d'Europa.*
Per Maya Ombasic l'esilio non è libertà, non sono spazi aperti, l'esilio, la sopravvivenza, la lotta, ci consumano, ci fanno sprecare l'energia vitale.
Ma in definitiva Mostarghia non è un libro né triste né malinconico. Certo, è il racconto di un mondo scomparso, sostituito da un altro nel quale ognuno diffida del proprio vicino; una città che possiede più porte blindate pro capite al mondo*, nella quale ogni comunità si è barricata attorno ai propri miti e ai propri valori. Ma, malgrado tutto, la storia di Maya Ombasic è carica di forza e anche di ottimismo. Una denuncia del nazionalismo, caposaldo della stupidità umana e che porta morte e distruzione ma anche momenti e personaggi pieni di umanità e di fraternità. E, rivolgendosi al padre morto la scrittrice spiega: È il tempo di scrivere una nuova storia, nella lingua che la tua nipotina sceglierà. Perché è una bambina che Leandro amerebbe avere, una ex-Jugoslava che ballerà come una cubana, avrà crisi esistenziali degne dei personaggi di Dostoevskij, e crederà di essere un'acrobata nata, come tanti monrealesi che, appena finisce l'inverno, invadono i parchi con le loro piroette un po' goffe.*

*Maya Ombasic, Mostarghia

venerdì 2 marzo 2018

Pierre Milza, Voyage en Ritalie

Sono un migrante, scomodamente collocato tra due culture cugine eppure dissimili: quella francese che ho bevuto con il latte materno e che mi ha formato così come sono – cartesiano e di fibra piuttosto giacobina – e quella italiana che era quella di mio padre e che ho scoperto a sedici anni, orfano a metà, partito per una prima esplorazione delle proprie origini. […]
Al passaggio della “frontiera”, sempre nella stazione di Ventimiglia, avevo fatto l'ultimo gesto di rivolta, non molto rischioso, scrivendo sul formulario d'ingresso che datava ancora del fascismo dopo la parola religione: senza (senza religione, cosa che all'epoca non era del tutto vera), e dopo la parola razza: umana. Appartengo alla generazione dei figli che hanno avuto tra i dieci e i quindici anni alla Liberazione e che non smetteranno mai di chiudere i conti con il fascismo e con il razzismo, in mancanza di aver potuto combatterli armi alla mano.*
Lo storico francese Pierre Milza, morto a Saint-Malo il 28 febbraio all'età di 86 anni.
Il padre era un operaio italiano, nato in provincia di Parma ed emigrato in Francia in cerca di lavoro. Laureatosi in Storia e poi in Lettere, Pierre Milza ha insegnato la Storia contemporanea all'università. La sua bibliografia è estremamente ricca e abbraccia epoche diverse, ma due temi hanno, più degli altri, interessato le sue ricerche: l'emigrazione italiana in Francia e il fascismo, quello di ieri e quello contemporaneo. Nel 2003 è stato pubblicato in Italia Europa estrema. Il radicalismo di Destra dal 1945 a oggi. Milza vi analizza con precisione l'evoluzione dell'estrema destra, sottolineandone l'eredità con il fascismo storico ma anche, e soprattutto, le differenze, non per attenuarne la minaccia e la pericolosità ma per sottolineare la necessità di evitare anacronismi e per trovare strumenti nuovi per contrastarla. Un argomento quanto mai di attualità e che purtroppo, per fatti di cronaca e per lo spazio che questa destra è riuscita a monopolizzare nel panorama mediatico, occupa il dibattito politico con termini perlomeno discutibili e contestabili, tra banalizzazione e condiscendenza.
Evidentemente anche il tema dell'emigrazione (qualunque sia il termine che si vorrà utilizzare : profughi, clandestini, rifugiati) è al centro dell'attualità. E spesso i due temi si incrociano considerando che per alcuni l'uno è la conseguenza dell'altro.
Ma l'emigrazione non è una novità del mondo contemporaneo, al contrario, essa è il destino comune dell'umanità. Come dice lo scrittore Pino Cacucci : Le radici sono importanti, nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici, e le gambe sono fatte per andare altrove.
I libri di Pierre Milza si focalizzano sul fenomeno dell'emigrazione italiana in Francia ma indubbiamente, raccontando quell'epopea, mettono in luce aspetti comuni ad altre esperienze, sfatando stereotipi e luoghi comuni, dando tangibilità alle vite di quegli uomini e quelle donne che non sono stati accolti sempre a braccia aperte, come si racconta spesso, ma che hanno dovuto subire pregiudizi, razzismo e anche violenza (ricordiamo il massacro di Augues-mortes nella regione di Marsiglia nel 1893), e che hanno dovuto battersi per essere accettati. I giornali francesi dell'epoca evocavano la “ferociadegli italiani, il lorospirito sanguinario, la loroperfidia”.**
Tre milioni e mezzo di discendenti di Italiani vivono oggi in Francia. Che siano nipoti di emigrati politici – quelli dell'epopea garibaldina o del fascismo -, o eredi degli operai della Lorena, dei minatori o dei venditori ambulanti, venuti dalle periferie o stabiliti lungo la Costa Azzurra, contadini del Gers o artigiani parigini, formano la grande famiglia dei Ritals***.
Da centocinquant'anni, la loro sorte intreccia inestricabilmente due patrie, due sensibilità spesso difficili da associare et, soprattutto, il sentimento unico di esseri liberi, sempre in partenza per un universo popolato di ricordi d'infanzia o di immagini raccolte sul filo dei ritorni.
Così dice la quarta di copertina di Voyage en Ritalie, pubblicato in Francia nel 1993. Un libro ricco di umanità, quella incontrata durante il “viaggio” ma anche quella dello storico che ha saputo far riemergere storie ormai lontane, dando dignità a chi è spesso dimenticato dalla grande Storia.

*Pierre Milza, Voyage en Ritalie 1993 (p.9/10)
**Pierre Milza, Voyage en Ritalie 1993 (p.105)
***I ritals sono gli emigrati italiani; il termine deriva dall'iscrizione R.Ital., che appariva sui documenti di identità (Ressortissant Italien = Cittadino Italiano). Il termine divenne un neologismo e, anche se utilizzato in passato dai francesi con un certo disprezzo, fu adottato dagli stessi italiani residenti in Francia (ricordiamo il romanzo autobiografico di François Cavanna: Les Ritals).


giovedì 1 marzo 2018

Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi

Nel Libro di Giobbe Dio domanda: “ Dov'eri mentre ponevo le fondamenta della Terra? Dillo se hai tanta intelligenza! […] Chi ne ha posto la pietra angolare. mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?
“Ero là” è sicuramente la risposta alla domanda di Dio. Perché, qualunque sia il modo in cui è nato il mondo, la maggior parte degli atomi in questo aggregato fluttuante che noi designamo come nostro corpo esistono fin dall'inizio.
Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi