Pinolo Scaglione, l'amico falegname la cui bottega era poco lontano dalla casa in cui lo scrittore aveva passato l'infanzia, glielo aveva suggerito: perchè non scrivi un libro su questi posti e Pavese gli aveva risposto che ci stava pensando. Così Pinolo diventò il Nuto del romanzo e lo accompagnò ancora una volta, forse l'ultima, sui sentieri e tra i campi, raccontandogli le storie recenti o più antiche -Te ne conto una-* che lo scrittore avrebbe trasformato nel libro.
L'ultimo romanzo di Cesare Pavese fu scritto in qualche mese, tra il settembre e il novembre del 1949 e concluse un periodo di intensa attività narrativa. Nel giugno dell'anno successivo lo scrittore riceveva il premio Strega per La bella estate, ultima apparizione pubblica prima della morte in una stanza d'albergo davanti alla stazione di Torino.
La luna e i falò è epilogo e sintesi dei temi pavesiani. Il dialogo è tra Anguilla, il trovatello tornato, con qualche soldo in tasca, a Santo Stefano dopo aver percorso il mondo e Nuto che invece il suo viaggio lo ha fatto tra i borghi e la fiere: Coi colleghi di banda che istruiva lui sotto una tettoia il sabato sera alla Stazione, arrivavano sulla festa leggeri e spediti; poi per due tre giorni non chiudevano più la bocca né gli occhi via il clarino il bicchiere, via il bicchiere la forchetta, poi di nuovo il clarino, la cornetta, la tromba, poi un'altra mangiata, poi un'altra bevuta e l'assolo, poi la merenda, il cenone, la veglia fino al mattino*.
Ma ora Nuto ha lasciato le feste e il clarino, ha ripreso la bottega del padre e provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo*.
Nuto è uomo che riflette, che conosce i suoi simili e che sa cos'è vivere. Non si è mai tirato indietro, neanche quando la guerra civile è arrivata in quei posti. Per Anguilla è un fratello maggiore, una guida: A me piace parlare con Nuto; adesso siamo uomini e ci conosciamo; ma prima, ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni più di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava l'occhio alle donne*. E l'amico sorprende Anguilla che non è più il ragazzino di un tempo, spiegandogli adesso che la terra bisogna ascoltarla, che c'è del vero nel mito del falò che rigenera i campi.
Questa è nuova - dissi-. Allora credi anche nella luna? La luna -disse Nuto-, bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano*.
Anguilla ha scoperto crescendo che al di là di quelle colline c'è un mondo più grande; che nemmeno il mare è confine. Il piroscafo lo ha portato in America e lui l'ha attraversata, fino alle rive di un altro oceano. Ed è laggiù che ha deciso di tornare indietro: Ero arrivato in capo al mondo, sull'ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne*. Non a casa, perchè la sua casa non sa dove sia, ma nei luoghi dell'infanzia, in quello che appare come un tempo se non felice almeno di speranze e di possibilità: Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le colline di Canelli sono la porta del mondo*.
Ma il mondo visto con gli occhi di un ragazzo è scomparso con l'infanzia. Anguilla se ne accorge quando vede che i noccioli sulla collina di Gaminella sono stati tagliati. Non è che un dettaglio ma che sembra aprirgli gli occhi sulla realtà presente. Il casotto in cui aveva vissuto e ora occupato da gente ancora più misera. Valino, il mezzadro, sfoga la sua rabbia sulle donne e sul figlio. In Cinto, il ragazzino sciancato figlio del mezzadro, vede se stesso bambino: Cos'avrei dato per vedere il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba - adesso che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo*.
Ma la storia finisce nel dramma, e un altro falò distrugge il casotto. Una possibile speranza rimane per Cinto che scampa al massacro e trova in Nuto un padre adottivo. Ad Anguilla non resta che una nuova partenza, un nuovo imbarco. Nella riva, degli uccelli facevano baccano e qualcuno svolava in libertà sulle viti. - Un fico me lo mangio,- dissi,- non fa più danno a nessuno-. Presi il fico, e riconobbi quel sapore*.
L'epilogo del libro è lasciato a Nuto che racconta la storia di Santa, la ragazza della Mora, spia dei fascisti, uccisa dai partigiani. Un altro falò che ha lasciato il segno sulle colline.
Sarà anche l'epilogo dell'opera narrativa di Cesare Pavese. Qualche mese dopo chiuderà il suo diario preannunciando il suicidio, il vizio assurdo che lo aveva accompagnato per troppo tempo: Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.**