venerdì 21 giugno 2019
Alexandra David-Néel, Una parigina a Lhasa
Per giorni
camminavamo nella semi-oscurità di fitte foreste vergini, poi, all’improvviso,
una schiarita ci svelava paesaggi che non si vedono che in sogno. Picchi
aguzzi, che puntavano alti nel cielo, torrenti ghiacciati, gigantesche cascate,
le cui acque gelate appendevano scintillanti drappeggi alle creste delle rocce,
tutto un mondo fantastico, di un candore accecante, sorgeva al di là della
linea scura tracciata dai giganteschi abeti.
Guardavamo quello
straordinario spettacolo, muti, in estasi, pronti a credere di aver raggiunto
il limite del mondo degli umani e di trovarci sulla soglia di quello dei geni.
Quello
che colpisce immediatamente, leggendo il libro di Alexandra David-Néel, è la
leggerezza.
La
leggerezza e la semplicità con cui la scrittrice ci racconta un’avventura
straordinaria, probabilmente il momento culminante di una vita altrettanto
straordinaria: a piedi dalla Cina a Lhasa la capitale del Tibet e poi ancora
per centinaia di chilometri, fino in India.
L’accesso
alla regione, sotto dominazione inglese, era vietato agli occidentali e i posti
di controllo sulle principali strade del paese, impedivano il passaggio a chi
non avesse una speciale autorizzazione. Nel 1924, Alexandra David-Néel fu la
prima donna occidentale a visitare quei luoghi e ad arrivare nella capitale,
sede del Dalai Lama “il pontefice del buddismo”.
Un
personaggio davvero eccezionale Alexandra David-Néel; cercando qualche dato
biografico si scopre il ritratto di un’orientalista,
tibetologa, cantatrice d’opera, e femminista, giornalista e anarchica,
scrittrice ed esploratrice, frammassone e buddista, lista che anche così
resta incompleta perché bisognerebbe almeno aggiungervi etnologa, linguista e
geografa.
La
sua lunga vita di esploratrice (visse più che centenaria, dal 1868 al 1969) era
cominciata a diciott’anni quando, in bicicletta, partì dal Belgio, dove la sua
famiglia risiedeva, per andare fino in Spagna. Interessatasi fin
dall’adolescenza alle filosofie orientali, si convertì al buddismo e non smise
mai, in seguito, di approfondire i suoi studi e le sue conoscenze in questo
campo, diventando senza alcun dubbio, uno dei più importanti eruditi in
assoluto, dal sapere veramente enciclopedico, riconosciuta come Bodhisattva Illuminata da alcuni lama tibetani.
Il
suo resoconto Viaggio di una parigina a
Lhasa: a piedi e mendicando dalla Cina all’India attraverso il Tibet, primo
volume di una trilogia pubblicata tra il 1926 e il 1933, tradotto in italiano
nel 1992, racconta la genesi e il compimento di questa lunghissima escursione e
si chiude, dopo otto mesi di cammino tra le montagne tibetane, con l’arrivo a
Lhasa e con la descrizione della città, della sua società e dei suoi riti.
L’esploratrice
era arrivata per la prima volta in oriente, nello Sri Lanka, a ventitré anni e
da allora non aveva smesso di percorrere le vie dell’Asia.
L’idea
di visitare il Tibet si era concretizzata nel 1912, dopo l’incontro con il
Dalai Lama, che in quell’anno risiedeva, in esilio a Kalinpong, nella regione
del Bengala.
Fu nel 1912 -racconta
l’autrice nella prefazione – dopo un
lungo soggiorno tra i tibetani dell’Himalaya, che gettai una prima occhiata sul
Tibet propriamente detto. La lenta salita verso gli alti valichi fu un incanto
poi, d’improvviso, mi apparve l’immensità formidabile degli altipiani tibetani,
delimitati in lontananza da una sorta di miraggio sfumato, mostrando un caos di
cime lilla e arancioni coperte da cappelli innevati.
Che visione
indimenticabile! Il suo fascino mi ammaliò per sempre.
Il
progetto si concretizzò una decina di anni più tardi.
Impossibile
però di ottenere un permesso per visitare quel paese. Alexandra David-Néel
decise dunque di entrarvi clandestinamente, travestita da mendicante e
accompagnata de un giovane lama, Youngden, con il quale aveva già fatto molte
escursioni e che diventerà poi suo figlio adottivo. E il travestimento non sarà
solo esteriore. Alexandra David Néel sarà concretamente una mendicante,
adottandone le abitudini, le coercizioni e lo stile di vita.
Sarà
un viaggio lunghissimo ed estenuante, reso ancora più difficile dalla necessità
di non farsi riconoscere come straniera e di evitare i posti di controllo.
Salire fino a cinquemila metri di altezza, dormire all’aperto o sotto una
leggera tenda, camminare per 19 ore, con calzature spartane, nutrendosi di tè
al burro (alla maniera tibetana) e di un pugno di tsampa (farina d’orzo) e a
volte quando le provviste sono finite, senza mangiare e senza bere. Fu una
prova fisica straordinaria eppure mai, nel racconto che Alexandra David-Néel ci
propone, si sente il peso di questa fatica. Evidente è invece l’entusiasmo e la
passione che la guidano di fronte ad ogni scoperta, la capacità di affrontare
tranquillamente i momenti più difficili e le situazioni più complicate.
Era veramente una
cosa meravigliosa l’avere evitato tanti pericoli di diversa natura e di
ritrovarmi dove ero, nel Po Yul, esattamente come lo avevo progettato e sulla
strada di Lhasa.
martedì 11 giugno 2019
Volterra, tra etruschi, letterati e anarchici.
Volterra
è la più settentrionale delle grandi città etrusche del Tirreno. È
situata a una cinquantina di chilometri nell'entroterra su una
scogliera rocciosa esposta ai quattro venti, con una vista sterminata
sul mare dall'alto della valle del Cecina: a sud sopra altopiani e
vallate fino alle vette dell'Elba, a nord sulle vicinissime montagne
di Carrara, e verso l'interno, oltre le larghe colline dei
pre-appennini, fin nel cuore della Toscana.
A
Cecina si cambia treno e risaliamo lentamente i tornanti della valle
del fiume che porta lo stesso nome, una valle verdeggiante, romantica
e dimenticata nonostante tutto l'andirivieni degli antichi etruschi
e dei romani, dei volterrani medievali, dei pisani e di tutti i
traffici moderni. Tuttavia ora non c'è moltissimo passaggio.
Volterra è una specie di isola nell'entroterra, tuttavia stranamente
romita e torva.*
Fu
ne 1927 che lo scrittore inglese David
Herbert Lawrence arrivò
a Volterra. In un pomeriggio grigio
con folate di vento che venivano da ogni scuro crocevia della stretta
e dura città medievale.
Il clima non favorisce certo una prima impressione positiva e i
festeggiamenti per l'insediamento del nuovo podestà a cui Lawrence
assiste al suo arrivo non contribuiscono a migliorare il suo stato
d'animo.vedi qui
Tra
i colli
della Toscana, a metà strada tra Livorno e Siena ma in realtà in
provincia di Pisa, eccoci anche
noi nella
città di Volterra. Sì, città, perché malgrado i suoi 11000
abitanti che teoricamente definiscono piuttosto un grosso paese,
Volterra può, dal 2013, prevalersi di questo titolo, dovuto, dice la
notifica della prefettura di Pisa, a
una comunità che
ha saputo realizzare condizioni di benessere sociale ed economico
con il proprio operoso lavoro, frutto anche del patrimonio di
conoscenze, acquisito nei secoli, che ne fa, tra l’altro, la città
dell’alabastro.
Al
di là dell’aulica retorica, sempre un po’ ampollosa, con questo
epiteto Volterra si riallaccia a tempi lontani, al VI secolo a.C.,
quando l’antica Velathri
era effettivamente una delle dodici città della confederazione
etrusca.
Ma
una visita a questa affascinante località comincia ben prima
dell’arrivo nel paese. La strada che si snoda tra le colline è
certamente una delle più piacevoli e attraenti della Toscana.
Paesaggi dolci e armoniosi invitano a una sosta, lasciano vagare lo
spirito, appagano l’animo.
Oggi
la città si presenta sotto l’aspetto di un borgo medievale, ben
conservato e placidamente sonnolento nel primo pomeriggio.
Tra
le vestigia della potente città etrusca spicca la porta dell’Arco
che malgrado i rifacimenti successivi mostra ancora prepotentemente
l’imponenza della struttura originaria.
Le
vie della cittadina sembrano aver conservato un’atmosfera
tranquilla e quasi flemmatica. Gli alti palazzi lasciano nell'ombra la passeggiata pomeridiana ma qua
e là si aprono luminosi panorami sulla campagna sottostante mentre, in alto, imponente
e minacciosa la rocca domina l’abitato. È il Maschio,
adibito ancor’oggi a prigione.
Nel
passato il movimento anarchico, molto vivace in questa regione, ne
aveva fatto il simbolo della repressione politica, cantandolo anche
in una celebre canzone del repertorio popolare e che racconta la
vicenda
dell’anarchico
Cesare Batacchi, condannato per omicidio e riconosciuto innocente
dopo vent’anni di reclusione.
rinchiuso
là ni’ maschio di Volterra
e
un secondin mi viene a salutare
e
nella sua la mia destra mi serra.
E
mi disse:” Allegro, grazia la fanno a te,
tutti
i giornali parlano, combattono per te “.
” La
grazia l’accetterò se me la danno, coi miei diritti di buon
cittadino:
io
son rinchiuso qui da ventun anno, non vo’ mori’ co i’ marchio
d’assassino.
Se
gli innocenti li voglion qui serrar, e i nostri patimenti
chi
li compenserà?
Non
si può però passare a Volterra senza visitare il museo Guarnacci. E
lo facciamo anche noi, sulle tracce di Lawrence:
Veramente
è un museo pieno di attrattive e piacevole da visitare ma eravamo
capitati in una mattina di aprile tanto gelida da farmi sentire
vicino alla tomba più di quanto non mi sia mai sentito in vita mia.
Eppure quasi subito, nelle sale piene di centinaia di piccoli
sarcofagi, cinerari o urne, come vengono chiamati, l'energia della
vita antica cominciò a riscaldarci.*
In
effetti le urne sono innumerevoli. Classificate secondo il soggetto
del bassorilievo. Alcune dalla fattura molto semplice, altre veri
capolavori d'arte e di raffinatezza.
Arriviamo
infine all'opera che è senza dubbio il simbolo di questo museo e
probabilmente dell'intera arte etrusca: l'Ombra della sera. Una
scultura sorprendente e affascinante la cui modernità imprevista e
singolare ci invita a riflettere e a relativizzare l'idea di progresso dello spirito
umano.
*
D.H.Lawrence
Paesi
etruschi Nuova
immagine editrice 1985
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