venerdì 20 settembre 2013
Radici
Francesco
Guccini incide nel 1972 nell'album Radici una delle canzoni
(quella che dà il titolo al disco) più riuscite della sua lunga carriera. Sulla copertina la foto color seppia di una famiglia tradizionale, del primo
Novecento forse. Uomini con baffi e panciotto, donne con lunghe gonne
e tutti con l'aria un po' impettita, di chi si è messo in ghingheri
per la fotografia ma che è pronto a tornale al lavoro nei campi. Sul
retro una foto più moderna sulla quale il cantante si mette in scena
con la sua compagna e un gatto. Evidente la volontà di dialogo tra
le due immagini, con ciò che è cambiato e ciò che resta. Perché
il tema del 33 giri, - come si usava qualche tempo fa le canzoni
sono legate da un filo conduttore - è quello delle radici appunto.
È
un tema che da quegli ormai lontani anni Settanta non è passato di
moda, tutt'altro, ma che non è mai facile da affrontare. La
citazione da La luna e i falò, di
Cesare Pavese che, non ha caso, è stata scelta per introdurre questo
spazio di appunti, è emblematica.
L'opposizione, o piuttosto
direi il legame, è tra
la necessità di avere un luogo in cui riconoscere la
propria storia personale e
il bisogno di muoversi è di seguire il fischio del treno
che sera e mattina correva lungo il Belbo facendomi pensare a
meraviglie, alle stazioni e alle città.*
Oggi
tutti cercano le proprie radici necessarie, si dice, per ritrovare
valori che un mondo globalizzato ha fatto scomparire. Radici nella
tradizione popolare, nell'alimentazione, nella musica. Un'idea che è
stata fatta propria dalla cultura cosiddetta alternativa. Così
l'artigianato è osservato con interesse, contrapposto all'industria;
si riscoprono verdure e legumi che erano stati dimenticati; si
riscopre la lentezza come valore positivo opposto alla frenesia del
progresso.
Ma
lo sguardo indietro, verso le radici, può anche diventare
reazionario, riflesso identitario e xenofobo soprattutto quando è
ripiegamento sul territorio e sull'etnia. “La terra non mente”
era uno degli slogan del regime fascista di Vichy. Il contadino è
fonte di saggezza perché più di tutti ancorato allo spazio naturale
in cui vive e che lo fa vivere.
Da
qui il rigetto e il sospetto per chi non ha legami: lo zingaro o il
vagabondo, i senza patria per i quali camminare per il mondo è un
fine e non uno spazio tra due luoghi di vita.
Ma
l'uomo non è una pianta, non ha radici, ha due piedi e due gambe per
camminare e per andare altrove. E
poi nemmeno le piante stanno
ferme, non si legano ad un terreno: il vento, gli uccelli portano i
semi, viaggiano, trovano nuovi spazi**.
*
Cesare Pavese: La luna e i falò.
**Jean-Christophe
Bailly :Le dépaysement
martedì 10 settembre 2013
Civitella del Tronto
Il 17 marzo 1861 a Torino, il
parlamento del regno sabaudo adottava
la decisione del re Vittorio Emanuele II di assumere per sé
e per i propri
discendenti il titolo di Re d'Italia. Era la conseguenza dell'epopea
garibaldina e della spedizione piemontese che avevano portato alla,
ancora parziale, unificazione della penisola. Che il re conservasse
l'epiteto di secondo
non è un caso. Il nuovo regno ereditava
dal precedente leggi e regolamenti e, soprattutto,
lo
Statuto
Albertino, non
certo un esempio di costituzione democratica (il
suffragio censitario permetteva a solo
il 2%
della popolazione – maschile – di
votare
per un parlamento che tra
l'altro non
aveva praticamente alcun potere).
Mentre
a Torino, dopo la caduta di Gaeta, si festeggiava il nuovo regno, la
fortezza borbonica di Civitella del Tronto ancora resisteva. Solo tre
giorni dopo, il 20 marzo, la guarnigione
si arrese e
l'esercito piemontese poté occupare il forte.
Sulla
strada che congiunge Teramo ad Ascoli Piceno appare Civitella
del Tronto allungata sulle pendici del suo colle; più in alto, sulla
cresta, parallela al paese è la fortezza borbonica. Appare, quasi a
mezz'aria, tra la costa adriatica e i “Monti Gemelli”, così
detti per la loro evidente somiglianza: la Montagna di Campli e, più
a nord la Montagna dei Fiori.
Nonostante
l'estate ormai inoltrata,
i prati sono ancora verdi e brillano sotto il sole.
Si
entra nel paese passando sotto l'arco della porta medievale. L'antico
decumano (oggi corso Mazzini) attraversa il paese in una lunga
passeggiata.
Le belle case di travertino attenuano con la loro ombra
il caldo della mattinata e gli anziani abitanti ne approfittano per
una pausa e una chiacchierata.
Qua
e là uno spazio si apre sul panorama sottostante da dove sale il
rumore lontano di un trattore al lavoro.
Saliamo
verso la fortezza alla quale ormai
si può
accedere
con una comoda ma certo
non bella scala mobile.
Piazze e rampe si
alternano per centinaia di metri. Le
antiche caserme sono state in parte restaurate e occupano esposizioni
artistiche.
Da ogni lato il panorama è bellissimo. Verso sud sono il
Gran Sasso e la Maiella.
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